Marzo 2002

FUTURO USA-UE

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Riforme e competitività
Giovanni Agnelli Vicepresidente Commissione Europea
 
 

 

 

Gli imprenditori
sanno bene che
non è arroccandosi in difesa,
ma affrontando
le sfide
che si progredisce.

 

 

Ci interroghiamo oggi sul ruolo degli imprenditori nella crescita, non solo economica, dell’Italia negli ultimi cent’anni. Ho avuto in sorte, per le responsabilità che mi toccavano in Fiat, di vivere con coinvolgimento crescente le vicende dell’ultima metà del secolo.
Quelle della prima metà le ho apprese in larga parte attraverso lo sguardo e la testimonianza di chi la Fiat l’ha fondata, mio nonno. Da lui ho conosciuto quali fermenti attraversassero l’Italia a cavallo tra Otto e Novecento. Quale entusiasmo per il progresso. Quale passione per l’innovazione. Quali aspettative per l’incipiente decollo dell’industria.

Era quella, tuttavia, ancora un’Italia rurale, economicamente gracile e arretrata. Il reddito pro capite era meno della metà di quello inglese e di circa un terzo inferiore a quello francese e tedesco. L’agricoltura deteneva un ruolo di assoluta preminenza, con una quota del cinquanta per cento nella formazione del reddito. In Francia era il 34 per cento; in Germania il 29 per cento; in Inghilterra appena il 7 per cento. L’industria italiana, al contrario – debole nelle strutture, nelle tecnologie, nell’organizzazione, e dunque assai poco competitiva – concorreva a malapena ad un 20 per cento della ricchezza nazionale. La metà, o anche meno, di quanto già avveniva negli altri grandi Paesi europei.
Ma fu proprio in quegli anni che partì in Italia una lunga rincorsa, che portò in larga misura a colmare ogni divario. Al punto che oggi il nostro reddito pro capite ha raggiunto quello tedesco, è il 95 per cento di quello francese, e il 90 per cento di quello inglese. E ugualmente simile a quella dei nostri partner è la sua provenienza settoriale, con un peso dell’industria che ci avvicina molto alla Germania.
E’ con questi progressi che l’Italietta di cent’anni fa – come spregevolmente fu definita – è arrivata a sedersi oggi al tavolo delle principali economie del mondo. Dietro questo straordinario sviluppo – che ha portato la ricchezza del nostro Paese a crescere di oltre quattordici volte nel Novecento, quanto in nessun’altra grande Nazione europea – c’è lo spirito imprenditoriale italiano.
Ci sono – per parlare solo di altre generazioni – i grandi capitani d’industria, uomini come Alberto Pirelli, Camillo Olivetti, Guido Donegani, Ettore Conti, Cesare Pesenti, Angelo Costa. Ci sono i grandi uomini di banca e di finanza, come Alberto Beneduce, Donato Menichella, Raffaele Mattioli, Enrico Cuccia. Ci sono i grandi manager pubblici, come Oscar Sinigaglia, Agostino Rocca, Enrico Mattei. Tutti animati da un’idea di sviluppo che non era solo economica e produttiva, ma civile.
Furono uomini come questi – con la forza delle idee e il coraggio dell’azione – a sospingere la modernizzazione dell’Italia.
Ma non solo. Credo che ad essi vada attribuito un merito ulteriore. Fatta l’Italia, occorreva fare gli italiani, si diceva nell’Ottocento. Certamente, nessuno più degli imprenditori ha preso sul serio il motto attribuito a Massimo D’Azeglio. Quel che le forze economiche hanno fatto, dagli inizi del Novecento, è stata l’unificazione materiale del Paese, indispensabile complemento dell’unificazione istituzionale.
Ad un’Italia più unita, più coesa, le imprese hanno portato il contributo della progressiva diffusione del benessere, dei livelli di reddito e di consumo sempre più omogenei, ma anche di una cultura moderna dell’economia, dei suoi princìpi, delle sue leggi.

La politica non è certo rimasta estranea a queste trasformazioni. Talvolta le ha stimolate; talvolta le ha tollerate; talvolta le ha frenate. Diciamo che comunque non ha mai molto amato l’impresa, specie se grande, specie se privata. Forse è per questo che – diversamente da quanto accadeva altrove – qui da noi l’impresa ha faticato a vedersi riconoscere come una risorsa vitale e un bene da difendere.
Non è necessario che attinga a memorie personali per ricordare quale rispetto, ma anche quale distacco se non diffidenza hanno a lungo circondato gli imprenditori. Oggi, certamente, i tempi sono cambiati. Ma a chi tanto si è battuto per dare radici forti allo sviluppo italiano va dato atto di questa difficoltà in più – l’isolamento – con la quale ha dovuto spesso confrontarsi.
C’è un merito storico, tuttavia, che alla politica non si può disconoscere. E’ quello delle scelte che hanno collocato il nostro Paese nell’area delle democrazie occidentali, delle economie aperte, della solidarietà atlantica. E’ su queste fondamenta che l’Italia negli ultimi cinquant’anni ha potuto consolidare il suo sviluppo. E sulle quali dovrà consolidare quello futuro, cogliendo le opportunità della sua appartenenza al mondo libero e condividendone anche gli oneri. Non possiamo certo pensare di operare e prosperare al di fuori della nostra partnership col resto dell’Europa e con gli Stati Uniti.
Detto questo, se il nostro Paese vuole mantenere il rango che ha raggiunto, non può arrestare la sua opera di riforma. Non è tempo di tirare i remi in barca. Certo, i tragici eventi americani e il conflitto in Afghanistan ci hanno posto di fronte ad uno scenario denso di incertezze e di ragioni di preoccupazione. L’economia mondiale – che già era in frenata prima degli attentati – manifesta chiari segni di ulteriore deterioramento. Il rischio di un più forte rallentamento negli Stati Uniti è tutt’altro che remoto. Per l’Europa si può pensare a una tenuta, ma su livelli assai più bassi di quanto non si ritenesse prima dell’11 settembre. E’ un quadro nel quale per nessuno – né imprese né governi – è facile tenere fede agli obiettivi.
Come sempre succede in questi casi, vi sono due modi per affrontare i momenti di crisi. C’è chi assume un atteggiamento passivo, in attesa che la tempesta finisca. C’è invece chi non si ferma, chi cerca di andare avanti, di fare un po’ meglio degli altri. Un’azienda che non affronta i momenti difficili riorganizzandosi e migliorando i propri fondamentali certamente fa molta più fatica a superarli e a riprendere poi slancio.
Credo che valga anche per i governi. Non si deve giocare in difesa. Occorre continuare a fare le cose che vanno fatte. Occorre, con grande determinazione, realizzare programmi efficaci per stare al passo con gli altri e non perdere terreno. Se possibile, per essere un po’ più rapidi e per portarci più avanti. Le nostre priorità – quando si parla di politica economica – sono ben note e presenti nel programma di governo.

Dare assetti definitivi e sostenibilità di lungo periodo al sistema previdenziale. Rilanciare gli investimenti in infrastrutture. Avanzare nel processo di privatizzazioni e liberalizzazioni. Smantellare le burocrazie statali. La competitività e la crescita dell’Italia, nel loro insieme, passano per queste strade di riforma. E quanto più saremo capaci di batterle, tanto più lo spirito imprenditoriale italiano troverà stimolo e sostegno nel far fronte alle sue responsabilità. Le responsabilità dell’innovazione, dell’investimento, della formazione delle persone, della qualità dei prodotti, della conquista di nuovi mercati, della creazione di valore.
Gli imprenditori sanno bene – e questi cent’anni lo dimostrano – che non è arroccandosi in difesa, ma affrontando le sfide che si progredisce. Queste sfide potranno anche essere dure, difficili, come quelle che ci prospetta il momento presente. Ma nessun ostacolo è insormontabile quando ci sono la forza delle idee e il coraggio dell’azione.

   
   
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