Marzo 2002

ECONOMIA E TERRORISMO

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Ma la crisi c’era già
Lester Turow Premio Nobel - Economista del Mit
 
 

 

 

Il terrorismo
ha soltanto
velocizzato i tempi dell’amministra-zione Bush, che peraltro
ha giustificato,
con la guerra,
il cambio di rotta.

 

 

Se l’attacco terroristico fosse avvenuto l’11 settembre del 1999, nel bel mezzo del boom industriale e borsistico, all’economia americana sarebbe successo poco o nulla. Il guaio è che è arrivato durante una fase recessiva e in un trimestre che sarebbe stato comunque pesante. Dunque, le imprese e il governo attribuiscono ai terroristi colpe che non hanno.
L’effetto del terrorismo si è sentito la prima settimana, quando nessuno in America ha comprato una sola automobile. Ma nei giorni successivi ero a Las Vegas e credo di non aver mai visto così tanta gente all’aeroporto. La verità è che il 99,8 per cento dell’attuale crisi economica era già in corso, anche se poi tutti hanno chiamato in causa il terrorismo. La Swissair sarebbe arrivata comunque sull’orlo del fallimento. E non vedo perché il governo abbia aiutato le compagnie aeree per il solo danno di quei quattro giorni durante i quali gli aerei sono rimasti a terra. L’unico settore che meritava aiuti era quello assicurativo, dove la mano pubblica, se vogliamo ancora disporre di aerei e grattacieli, deve garantire una qualche forma di riassicurazione.
Il pacchetto fiscale del Congresso resta l’unica strada percorribile. Del resto, un aumento degli investimenti aziendali è impensabile, ora che l’industria soffre di sovracapacità produttiva. L’export non può trascinare l’economia, perché anche l’Europa e il Giappone sono in cattive acque. I consumatori sono frenati dai cinque miliardi di dollari persi sul mercato azionario. E non credo che gli investimenti immobiliari abbiano la capacità di risollevare il prodotto nazionale lordo. Quindi non resta che la spesa pubblica, accompagnata da misure fiscali. Il terrorismo ha soltanto velocizzato i tempi dell’amministrazione Bush, che peraltro ha giustificato, con la guerra, il cambio di rotta. Ma l’avrebbe cambiata comunque: non poteva permettersi di andare alle elezioni del prossimo novembre nel bel mezzo di una recessione.

Già nel ‘99, ai tempi della bolla speculativa di Internet, dicevo che l’economia americana stava «incorporando una recessione». Le aziende dot.com erano sopravvalutate allora, come oggi sono sottovalutate. Mi ricordo di un titolo uscito su un giornale l’anno scorso, a Natale: “Il disastro delle dot.com”. Qual era la notizia? Che il fatturato del commercio elettronico era salito “solo” del 55 per cento, contro il più 0,1 per cento dei rivenditori tradizionali. In verità, ogni nuova industria è una lotteria. Non è un caso che, fra centinaia di imprese automobilistiche, in America ne sono sopravvissute tre. Ma intanto Amazon controlla oggi il 10 per cento del mercato librario, e il 16 per cento dei ricavi dell’industria finanziaria, che è di per sé enorme, viene da transazioni elettroniche.

E dirò di più: se parliamo di comunicazioni in senso allargato (inclusi i server e i router per Internet) quasi il cento per cento dell’attuale recessione deriva da lì. Basti pensare a quel che è successo in Europa: quando le aziende hanno investito miliardi e miliardi di dollari nelle licenze Umts hanno ricevuto il plauso del mercato, che si è poi ricreduto pochi mesi dopo. E in America, tra il 1999 e il 2000, le imprese hanno investito una media di 32 miliardi di dollari a trimestre nelle infrastrutture ottiche: una cifra spaventosa e il fatto incredibile è che, di quelle fibre ottiche, oggi viene utilizzato soltanto il due per cento. Quando in Borsa il vento è cambiato, gli investimenti sono crollati e fa poca meraviglia che si sia innescata una recessione. Semmai, sono stupito del comportamento della Banca centrale europea.
Un anno fa, infatti, la Bce parlava di una crescita del 3,6 per cento nel 2001. Quando ha visto arrivare la recessione americana, ha abbassato le stime al 3,2. Ma poi non si è mossa, dimenticando che quel che stava causando una recessione in America avrebbe causato una recessione in Europa, al più tardi sei o nove mesi dopo. Sappiamo tutti che l’unico modo per evitare una recessione è di anticiparla: la Bce aveva tutto il tempo di reagire. E invece, sul fronte dei tassi, ha fatto troppo poco e troppo tardi.
Rimedi possibili? Forse cambiare il patto di stabilità e permettere ai singoli Paesi di adottare misure di stimolo fiscale. Sul fronte dei tassi, mi pare che ormai siano scaduti i tempi giusti. Per il futuro, dobbiamo ricordare che ci sono tre tipi di recessione. La prima è a “V”, e si verifica per lo più quando l’economia incorpora inflazione e un taglio dei tassi porta a un rapido ritorno degli investimenti e a un’altrettanto rapida cura. Poi c’è quella a “L”, lunga e indefinita come nel caso giapponese, che non ci riguarda. E infine c’è quella a “U”, alla quale assistiamo oggi, dove non sappiamo quanto a lungo durerà la fase depressiva. Molto dipende da quando arriveranno gli stimoli fiscali e quali saranno le loro dimensioni. Se le misure fiscali sono troppo deboli, magari piccole e ripetute nel tempo, come è successo in Giappone, non servono a niente.
Per concludere. Poco prima delle ultime elezioni presidenziali, ho fatto parte di una commissione parlamentare sul tema della crisi del “trade deficit”. Tutti eravamo d’accordo su una cosa: un deficit che cresce di 420 miliardi di dollari all’anno è insostenibile. Ma sui tempi della crisi ci siamo trovati in disaccordo: si presenterà entro quattro anni o più tardi? Su questo punto posso avere pareri, ma nessuna certezza. Quindi credo che scriverò un libro, lasciando una ventina di pagine in bianco. Poi lo finirò al momento giusto.

   
   
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