Marzo 2002

DAL PASSATO AL FUTURO

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Passaporto per l’Europa
S. B.  
 
 

 

 

Per alcuni Paesi,
l’entrata nell’Unione è una sorta di premio per avere felicemente superato
la transizione dal
regime comunista al sistema democratico, per quanto questo appaia talvolta
ancora fragile.

 

Esiste, e da quando, un’identità europea? E può essere così evidente da farci cambiare anche il modo di raccontarla, superando la nostra e le altrui visioni nazionali? Secondo alcuni, le nostre prospettive di ricerca sono inevitabilmente condizionate dal presente. Allo stato attuale, con l’unità economica, ricercare le radici dell’Europa è più urgente di quanto sia stato in passato. E gli storici devono adeguarsi. Certo è che un viaggio a ritroso verso le origini corre il rischio di far emergere una visione parziale della storia europea, coincidente di fatto con quella dell’Europa occidentale. Il discorso, dunque, andrà allargato anche all’Est europeo.

C’è chi considera decisivi i decenni a cavallo del Settecento. Nel 1751 Voltaire descriveva il continente come «una specie di grande repubblica, divisa in molti Stati, alcuni monarchici, altri misti, ma tutti simili tra loro». Vent’anni dopo, Rousseau annunciava che «non esistono più francesi, tedeschi e spagnoli, ma soltanto europei». Nel 1796 Edmund Burke sosteneva che «nessun europeo può essere un vero esule in alcuna parte d’Europa». Eppure, malgrado tutto questo, in assenza di una struttura politica comune, la civiltà europea può essere definita solo secondo criteri culturali. Impostazione che è condivisa da alcuni studiosi, secondo i quali è vero che la storia dell’Europa unita è cominciata da appena mezzo secolo e si può ritenere che sia ancora ai primi passi, ma è innegabile che le radici affondino nel mondo antico. E, se vogliamo seguire il filo di una tradizione civile che possa considerarsi alla base del nostro presente, è al mondo greco-romano che dobbiamo rifarci.
Su queste basi, non si può condividere del tutto quel filone della storiografia che individua in Carlomagno il padre della moderna Europa. E dall’altra parte, sul tema dei Padri tra gli storici ci sono ancora divergenze di vedute. Nel senso che, com’è stato scritto, i figli dell’Europa non sono mai figli né di una sola madre né di un solo padre. L’assorbimento dell’Europa cattolica nell’Impero di Carlomagno è, sì, un momento fondante, ma rapidamente svanito nella sua forma politico-istituzionale. Rimane tuttavia vivo il senso dell’appartenenza dei popoli e dei Paesi europei a una stessa cornice etica e politica, civile e religiosa. In realtà, la nozione moderna dell’Europa si è sviluppata attraverso ampliamenti progressivi verso Oriente, il Nord, il Mediterraneo, superando i limiti di quell’Europa carolingia, senza tradire però il germe della vocazione iniziale.

Alessandro Barbero ha dedicato all’Impero carolingio il volume Carlo Magno: un padre dell’Europa; un saggio che, attraverso una molteplicità di prove e di segnali, vuole dimostrare come in quegli anni si siano poste le basi della rinascita demografica ed economica del continente: «Con la conquista carolingia nasce la percezione dell’Europa come la concepiamo oggi. Perché un altro tema importante è che cosa sta dentro l’Europa».
L’Impero carolingio è uno spazio politico unitario che va da Amburgo a Benevento, da Vienna a Barcellona, il cui asse commerciale sono il Reno e i porti del Mare del Nord, uno spazio profondamente diverso da quello dell’Impero romano, che aveva al centro il Mediterraneo e si spingeva fino al Nordafrica e all’Asia Minore. Quella di Carlomagno, cioè, è proprio la parte più originaria dell’Europa stessa. O almeno di una delle Europe possibili. «Perché il continente non si ferma ai Quindici», sostiene Nicola Tranfaglia, «c’è l’Europa occidentale, quella orientale, quella mediterranea. L’idea di Carlomagno come Padre è un po’ una leggenda. Ci sono personaggi che, secondo me, hanno contribuito molto di più a questa realtà. Penso a Erasmo da Rotterdam, in ambito culturale. O ad alcuni politici, soprattutto dopo il 1945».

Anche Rosario Villari afferma che «Carlomagno ha certamente avuto una funzione importante, è una condizione su cui, a un certo punto, si è innestato il processo di formazione dell’Europa, ma essa ha radici più antiche». Villari vede nella nascita della città il vero spartiacque: «E’ in quel periodo, con il grande sviluppo degli agglomerati urbani, soprattutto nell’Italia centro-settentrionale, nelle Fiandre, nella Francia del Nord, sulle coste tedesche del Baltico, che si sviluppa anche una rete europea di comunicazione e di scambi». Ma questo, per Villari, non significa che l’Italia sia il centro dell’Europa: «In un certo momento storico, quello comunale e rinascimentale, può avere avuto un peso maggiore, ma altri Paesi nel corso del tempo hanno dato il loro contributo».
L’attuale clima internazionale ha rimosso un problema urgente e importante che era nell’agenda europea: l’allargamento dell’Unione verso alcuni Paesi dell’Est (tra cui Polonia, Slovenia, Croazia, Repubblica Ceca). L’allargamento in effetti solleva grosse questioni di ordine economico e sociale (adeguamento dei parametri economici, armonizzazione dei sistemi fiscali, norme per la libera circolazione della forza-lavoro, redistribuzione dei fondi strutturali, ecc.). Ma ripropone soprattutto problemi di natura culturale e identitaria. Riporta in primo piano il nesso tra confini e memorie. Cioè, l’esistenza di frontiere che per decenni sono state motivo di controversia e hanno forgiato polemicamente memorie e identità antagoniste. E’ un punto che non va eluso. Il nesso confini-memorie è tutt’uno con quella rielaborazione critica e solidale del passato europeo che in parte è già stata compiuta nell’Occidente europeo, in coincidenza con la nascita e lo sviluppo della Comunità europea, ma in parte è rimasta sospesa. Il motivo principale che ha spinto i responsabili dell’Unione europea a mettere nell’agenda l’allargamento è la convinzione che l’integrazione diventa un potente fattore di stabilizzazione socio-politica dei Paesi interessati. Viceversa, sarebbe pericoloso avere ai confini dell’Unione Paesi in preda a crisi destabilizzanti. Nel caso della Polonia, della Cechia, della Slovenia e dell’Estonia si aggiunge anche che l’entrata nell’Unione è una sorta di premio per avere felicemente superato la transizione dal regime comunista al sistema democratico, per quanto questo appaia talvolta ancora fragile. Incidentalmente viene usato anche l’argomento che i Paesi nominati appartengono storicamente alla cultura e all’area europea, e quindi si tratterebbe di un ritorno a casa. E’ un punto che meriterebbe un approfondimento proprio in vista di quella riscoperta e rielaborazione di una cultura e identità europea che è meno scontata di quanto si creda.
Quando si parla di “identità europea” si oscilla tra l’affermazione della sua presunta esistenza (rintracciata nelle lontane e profonde radici storiche del continente) e l’esigenza che tale identità sia costruita. Magari con un processo che segue la falsariga della costruzione delle identità nazionali tradizionali.
E’ un processo di ricostruzione e rimemorizzazione storica. A tutt’oggi però siamo molto in ritardo nell’elaborare una storiografia europea che integri le componenti le differenti storie nazionali costitutive delle rispettive identità. Manca una storiografia europea integrata che sia al tempo critica e solidale: critica degli aspetti degenerativi delle singole nazioni, ma insieme solidale nel riconoscere errori comuni. Soprattutto convinta della necessità di trasformare quegli errori in motivi di cooperazione odierna. Tutto ciò frena la creazione di un’autentica identità europea.
La Comunità/Unione europea ha dissolto al suo interno l’antagonismo nazionale ostile, inteso non solo come strumento di confronto politico, ma come fattore di identità di un popolo (un’identità ritagliata appunto sulla contrapposizione del francese contro il tedesco o l’italiano, ecc.). Come sottoprodotto di questa riuscita operazione si è definitivamente sdrammatizzato il problema dei confini all’interno dell’Occidente europeo. Ora l’allargamento verso Oriente riguarda nazioni e popoli con i quali ci sono stati fino a non molto tempo fa seri contrasti di confine e di connessa memoria collettiva. Mi riferisco alla frontiera polacca verso la Germania sull’Oder-Neisse una volta per tutte accettata, con qualche esitazione, dai tedeschi soltanto nel 1990, in occasione della loro riunificazione. Nella Repubblica Ceca il problema dei Sudeti ha lasciato strascichi giuridici e simbolici con gruppi di popolazione tedesca espulsi nel lontano 1945. Quanto alla nostra vicina Slovenia, sappiamo quanta fatica è costato arrivare ad un’intesa, a una comprensione reciproca.

Ora, è straordinariamente positivo che confini controversi stiano per diventare confini interni di una sola Unione politica. E’ straordinario, ma sarebbe ingenuo pensare che la problematica connessa sparisca d’incanto, senza contrattempi e senza resistenze. Nessun funzionalismo e automatismo economico potrà assorbire residui di memoria ostile accumulatasi in decenni. E’ dunque necessario che ci si attrezzi, che ci si prepari. Sarà un modo molto concreto di affrontare e risolvere questioni di identità neo-europea e di recuperare culture rimaste ai margini dell’esperienza comunitaria. Attrezzarsi: anche perché non è che all’interno dell’Ue tutte le questioni, comprese quelle degli orgogli nazionali, siano state del tutto superate. Si veda il caso del vertice di Gand, quando l’Italia e la Spagna, oltre al Benelux e ad altri Paesi, vennero escluse e ne fecero un problema di prestigio, oltre che di correttezza politica. Il problema era la Francia. Da quando la Germania riunificata si è accresciuta di un terzo in popolazione, di un quarto in Prodotto interno lordo e di dieci volte in peso politico, la Francia, che fino a dieci anni prima era stata (o si era sentita) il centro indiscusso del continente, va cercando una nuova identità.

Cosa difficile sempre, ma difficilissima per chi della propria supremazia politica e culturale è sempre stata profondamente persuasa. L’attacco alle Twin Towers, poi, aveva aggravato le cose, mettendo in evidenza il talento politico di Blair, l’alto grado di efficienza dell’apparato militare britannico e la forte coesione nazionale del Regno Unito. Stretta tra Germania e Gran Bretagna, la Francia teme di finire su un gradino più basso. Per questo convoca vertici ai quali invita Londra e Berlino, e non invita Roma o Madrid. Che poi servano o no, poco conta. Non è una questione di sostanza, ma di forma: ed è grave, in un’Europa che ogni tanto rischia di ritornare alla prevalenza degli interessi nazionali su quelli collettivi. A meno che, come ci si augura, non si tratti degli ultimi sussulti e grida prima che le diverse identità, tutte di uguale caratura, diano un nome definitivo all’identità continentale europea.

   
   
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