Marzo 2002

QUALE BELLEZZA SALVERA' IL MONDO?

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Old/Netwars
ALDO BELLO  
 
 

Ma il cuore della nostra cultura e della nostra civiltà batte altrove, nelle conquiste durature che noi conserveremo a qualsiasi prezzo.

 

Kabul è anche il nome del fiume-ariete che precipita alla mano d’oriente, catturando decine di affluenti non meno ripidi e riottosi. A volte, con gli immissari allarga specchi di falsi laghi. Più spesso rotola fra alte muraglie, di tanto in tanto sparendo alla vista, mugliando fra botri abissali. Dalle parti di Kame, un giorno città-gioiello con case di legno intagliato e di fanghi colorati, acqua sorgiva crepa come melagrane i coni di deiezione e zampilla in rivoli e cascatelle, tuffandosi in verdi crepacci. E’ un’acqua lieve, quasi priva di sali minerali, che sfugge alle mani a giumella, difficile anche da bere, vaporosa e cristallina com’è: ghiaccio liquido che riflette variabili arcobaleni e alza al cielo vele di gocciole trasmutanti come spira il vento e ruota il sole.
Kabul è fiume a un tempo visibile e invisibile, da ansa ad ansa, da un picco a un altopiano a una sottovalle. Quando sciaborda in pianura, oltre le ondulazioni delimitate da boschi d’alto fusto, le distese di papaveri blu sembrano specchiare la volta celeste in tappeti stretti e lunghi, irregolari, che si susseguono fino all’osso asiatico dei Karakorum abitati da dèi suggestivi e da semibarbare tribù. Infine, il corso s’incurva verso sud, alla ricerca del mare. Ma prima attraversa la capitale, diventando un’altra cosa: un rigagnolo maleodorante che trascina liquami e spazzatura riflette a malapena l’antico Bazar dei Quattro Portici con i suoi celebri muri dipinti, la Moschea di Puli-I-Khisti, il Mausoleo di Timur Lenk, “Timur lo Zoppo”. E il Santuario del Re delle Due Spade: leggevo un po’ della storia di Otranto, in questo luogo sacro, sorto in onore del condottiero musulmano che sette secoli dopo Cristo, pur avendo perso la testa, mozzatagli da un colpo di zagaglia, secondo la leggenda continuò a combattere con una scimitarra per mano, deciso a imporre la nuova, aggressiva religione arabo-islamica in un Paese che da oltre mille anni era serenamente indù e buddhista. Poco oltre, possente nelle sue strutture architettoniche, la Fortezza di Bala Issar, palazzo abitato da tutti i vincitori, e galera o patibolo per tutti i vinti del pendolo della storia afghana.
Il fiume Kabul è, dunque, specchio opaco della capitale Kabul: proiezione distorta di immagini ocra e grigie di macerie, di resti cariati di case, di strade, di moschee, di mausolei. La città non esiste più, e non esiste neanche la periferia: rase al suolo le villette residenziali che ingentilivano le campagne; sventrati dalle artiglierie templi, cupole, minareti snelli e solitari; diruto il misterioso Minar-I-Chakari, “Colonna della Luce”, che dominava la via per Islamabad fin dal primo secolo dopo Cristo, eretto forse per celebrare il pensiero di Buddha, e abbattuto dagli obici nel 1988; arsi i giardini che furono l’orgoglio di questa piccola metropoli, dove si coltivavano settanta tipi diversi e tutti evoluti di uve e trentatré varietà di tulipani; annientati i sei grandi parchi di cedri, salotti a cielo aperto nel cuore della città.
Una sorta di maledizione saturnina sembra scandire i tempi della morte e resurrezione di questo magnifico Paese, che già all’alba del XIII secolo ebbe il primo martirio totale: Gengis Khan, per vendicare la morte in battaglia di un nipote, ordinò che nel luogo del suo lutto non fosse lasciata pietra su pietra. Per giorni la soldataglia mongola fu impegnata a sgozzare ogni uomo, ogni donna, ogni bambino, ogni animale, fino a che – narrano i cronisti dell’epoca – le spade perdettero il filo; poi vennero eradicati gli alberi e si diedero alle fiamme le case; alla fine si spogliarono delle lamine d’oro i grandi Buddha scolpiti nella roccia, e si lasciò che le loro occhiaie vuote smarrissero la vista della valle, fino al giorno in cui i talebani avrebbero completato l’opera iconoclasta a colpi di bazooka.

Gli uomini di Gengis Khan che decisero di fermarsi lì oggi si chiamano Hazara, e come allora sono un’orda odiata da tutti (il loro nome significa “a migliaia”), anche dai tagiki che odiano da sempre i pashtun, dai pashtun che odiano da sempre gli uzbeki, dagli uzbeki che odiano da sempre gli uguiri... E’ un odio perenne, mai rassegnato, accanito: nel 1992-’96 i guerriglieri dell’Alleanza del Nord avevano fatto della capitale il loro scannatoio privilegiato, con cinquantamila morti ammazzati. I talebani, sopraggiunti come “liberatori”, aprirono i cantieri di un altro mattatoio, con decine di migliaia di vittime. Continuava l’alternanza dei massacri, che aveva inaugurato la sua prima stagione fra le barriere innevate dell’Hindu Kush, (“Assassino degli indù”), nel nome delle centinaia di migliaia di indiani morti di fame e di freddo fra quelle montagne mentre venivano trasferiti come schiavi verso l’Asia centrale dai loro conquistatori Moghul. Si replicava una storia di ascese e cadute di nobili città come Bagram, già capitale della civiltà Kushan, poi cancellata, e Herat, Mazar-I-Sharif, Kandahar, Kunduz, Balkh, Kabul... Ora – tutte – città fantasma, con fantasmi di esseri umani che riprendono a muoversi fra le macerie fumanti: come fu a Phnom Penh dopo la follia memoricida dei Khmer rossi; come fu a Pechino dopo il bagno di sangue delle Guardie rosse maoiste.
Ha pagato per la sua storia e per la sua geografia, l’Afghanistan. Perché attraverso i passi e le valli di questo budello del mondo asiatico è avvenuto il transito di tutte le grandi religioni, le grandi civiltà, le grandi invasioni, i grandi conquistatori, i grandi imperi; e le idee, le razze, le arti; e la ferocia, il cinismo, la violenza; e la paura dell’uomo. Tutti i sentimenti, tutti i tormenti, tutte le angosce, tutte le speranze, sono sorti, morti e risorti fra le mitiche valli coronate dalle montagne afghane che incantarono persino barbari come Babur, leggendario capostipite dei Moghul, che volle trascorrervi il resto della vita. E qui, allora, è uno dei più grandi giacimenti della storia umana, che i destini incrociati delle oldwars e delle netwars, muovendo sullo scacchiere cavalli, scimitarre, kriss, balestre, e kalashnikov, missili, aerei invisibili e fortezze volanti, occultano sotto coltri imponenti di perpetue macerie.
In tutto il mondo, gli Stati nazionali erano riusciti a liquidare le guerre tra feudatari. In Afghanistan la cultura tribale ha radicato le divisioni. Per di più, quel che il mondo islamico non ha vissuto sono i secoli che hanno consentito all’Occidente di spingere il Cristianesimo nella sfera privata e di creare uno spazio di laicità che, poi, ha generato pensiero, filosofia, politica, senso dello Stato. Si capisce, allora, perché Omar (Muhammad Omar Akhund) e Osama, un contadino talebano diventato mullah (Akhund significa “prete”) e un miliardario wahhabita originario dello Yemen ma saudita a tutti gli effetti, diventato ideologo e guerrigliero nel nome di Allah, siano stati due cupi personaggi centrali delle cronache dell’orrore, ma opposti e divisi anche negli atti finali del dramma afghano. Divinatorio, maledicente, eppure versatile uomo di mondo, grande comunicatore via fax e Internet, il capo di al-Qaeda. Incolore, terragno, monoglotta, schivo, votato all’invisibilità e al culto dell’impersonalità, il capo religioso. Tanto il primo era impegnato a diffondere la volgare pubblicità di se stesso, quanto il secondo era deciso a restare in un cono d’ombra, affidando la parola e la figura all’immaginazione collettiva e alimentando il carisma di un ectoplasma. L’uno e l’altro misoneisti, culturicidi, fuori del tempo. Con in più il sordo elemento di reciproca conflittualità, determinato dalle strategie di preminenza della ricchezza sulla religione, o viceversa. Sicché non poteva destare meraviglia il fatto che, mentre era in corso l’attacco americano e le città e posizioni talebane cadevano una dopo l’altra, i destini dei due divaricarono nettamente: Omar si rinchiudeva per breve tempo nella fragile roccaforte di Kandahar, e in seguito, pur invitando i suoi alla resistenza estrema, tentava una trattativa di resa personale, e infine fuggiva verso il sud pakistano, dove per un pashtun era facile mimetizzarsi fra le tribù di confine; Osama, invece, spariva all’est, fra le caverne delle montagne bianche, seguito da un’armata di disperati sopravvissuti arabi e ceceni. Dopo due mesi di fuga, più che di guerra, praticamente tramontava la sinistra epopea settennale del talebanismo nero, espressione di un Islam adulterato, importato dalle madrase pakistane e dalle scuole dell’ambiguo e sanguinario wahhabismo saudita.
Altrettanto effimero e artificioso, il tentativo di bin Laden di fare dell’Afghanistan il centro motore di tutte le basi transnazionali, il punto di coagulo militare del nuovo tipo di geoterrorismo che aveva, e avrà ancora, le sue più autentiche radici nell’estremismo del jihad egiziano e nel purismo veterosunnita della Mecca. L’idea armata di Osama, cioè il progetto di far ripartire da Kabul l’opera di restaurazione di un neocaliffato islamico, servendosi del terrore, poteva suscitare speranze fideistiche e un certo entusiasmo militante soprattutto fra le masse e le élites del mondo arabo. A queste masse e a queste élites l’Islam ha sempre promesso il potere universale, fatalmente proclamandosi vincente. Ma la storia ha dimostrato più volte che è solo perdente: un giorno si poteva essere primitivi e vincenti, come al tempo dei barbari che sconfissero Roma; oggi si è evoluti o sottosviluppati, Stati ricchi di democrazia e di libertà, o Stati canaglia che, vietando persino la convivenza e contiguità con cristiani, ebrei, indù, buddhisti, ecc., perché ciò costituisce peccato morale e religioso, generano violenza dopo violenza, e separatezza dopo separatezza. Ma solo nel mondo arabo e fra gli integristi d’ogni latitudine istigati dai mullah. Fra gli islamici d’Asia centrale, non arabi, diversissimi dagli arabi, alla lunga l’operazione non poteva che provocare una reazione fisiologica di rigetto. Per questa ragione, neanche il volontaristico e primordiale essenzialismo del prete Omar aveva retto alla prova del fuoco. Il mantello grigio di Maometto, ritenuto autentico, che aveva indossato prelevandolo da un reliquiario presso Kandahar, gli è caduto dalle spalle, come è caduta la sacra sindone islamica replicata, di cui si era metaforicamente ornato il suo alleato e antagonista, portandosela fin dentro Tora Bora, fra orride grotte, per un martirio senza nome.
Si potrebbe dire: la democrazia non è abbastanza estesa nel mondo. Il che è assolutamente vero. Ma questa presa d’atto non solleverà masse né susciterà grandi speranze. In questo nuovo (e confuso) contesto, apparentemente omogeneizzato dalla globalizzazione tecnica, economica, occidentalizzante, appaiono anche fenomeni contrari, già visibili in passato, ma mai con la violenza di questi ultimi anni. Si tratta delle spinte nazional-religiose. La fine del XX secolo è stata segnata dalla mancata trasformazione degli Imperi in confederazioni. E queste spinte, quando si risvegliavano, avevano qualcosa di “cattivo”, perché si nutrivano dei ricordi delle atrocità commesse, in due guerre mondiali, da una parte e dall’altra.
L’aspirazione alla nazione era un grande tema nato in Europa nel XIX secolo e poi diffusosi ovunque. Era stato il dono involontario fatto dal Vecchio Continente dominatore ai Paesi colonizzati. Ma mentre le grandi nazioni europee erano multietniche, organizzate per raggruppamenti successivi, oggi assistiamo al sorgere di nazioni monoetniche, quasi sempre con un legame tra base etnica e base religiosa. Doppia virulenza. Sicché siamo al cospetto di un processo planetario di dislocazione, cioè di balcanizzazione, da cui si salva soltanto chi valorizza il proprio patrimonio umanista, vale a dire la propria eredità di caratura universale. Che fu anche propria di una “religione terrena”, quella di Marx, che era altra cosa dallo pseudo-marxismo sovietico. L’erosione di questa fede cominciò già negli anni Settanta, con l’imporsi in molte regioni del messaggio dissidente di Solzenicyn. Era l’epoca in cui la Cina si copriva di ridicolo con la storia della “Banda dei quattro”, che secondo il sociologo francese Edgar Morin fu un grandioso progetto di socialismo che assumeva un aspetto ad un tempo tragico e grottesco; poi sarebbe arrivato il post-maoismo, che avrebbe prosaicizzato la Cina agli occhi dei suoi antichi ammiratori; il Vietnam, oggetto di tanti entusiasmi, avrebbe disilluso; la Cambogia sarebbe diventata una mostruosità; quanto al piccolo “paradiso castrista”, sarebbe stato necessario essere molto anti-yankee per continuare a crederci. Il lento deperimento della religione comunista avanzava, la nazione russa si inabissava nell’Unione Sovietica, l’implosione finale le dava solo il colpo di grazia.
La disintegrazione di quella religione terrena lasciava il posto a uno slancio verso le religioni antiche, come hanno dimostrato la straordinaria rinascita della cristianità ortodossa in Russia e nei Paesi ex satelliti e la crescita dell’Islam. E’ stato un ritorno all’identità religiosa e/o etnica, con spinte molto forti. La crisi di una religione di salvezza terrestre, la paura di perdere l’identità in un processo di omologazione al tempo stesso reale e immaginaria, più la perdita del futuro, cioè di tutte le grandi speranze che poteva portare l’idea del progresso occidentale, e lo scacco, in tante regioni, di tutti i modelli di sviluppo, tutto questo ha provocato un ritorno al passato, soprattutto da quando il presente è stato foriero di angosce e di frustrazioni. E il vuoto è anche nell’universo muslìm.
Si consideri il caso dell’Iran, che aveva subìto un regime durissimo. La società civile, non essendo organizzata politicamente, ha rigettato il sistema alla base: le donne non sono più velate, i giovani manifestano... Si può immaginare un paradosso: come l’esperienza del comunismo staliniano è stata profondamente liberatrice per il crollo dell’illusione, così l’esperienza dell’Islam essenzialista non potrà durare. Nessuno potrà fermare il progresso. Lo dimostrano la Rivoluzione americana, che ha garantito democrazia e libertà, non soltanto in America; la Rivoluzione francese, che ha esaltato princìpi universali ispirati all’Umanesimo; la Rivoluzione russa, battuta quando ha stravolto quei princìpi.
Si dice che non ci sono più grandi cause. Queste non possono essere più le old/netwars. Un’utopia per la quale vale la pena di vivere è civilizzare la terra, ciò che può essere chiamato Terra-Patria. Che tuttavia non prende ancora forma militante, non ha cristallizzazione mentale. Non sentiamo ancora che siamo tutti legati da questa comunione di destino, da questa unità umana attraverso le nostre differenze. Colpisce, questo vuoto, per la presenza di una grande causa potenzialmente formidabile, ma che non viene vissuta. O è vissuta conflittualmente da quel Vicino Oriente che in realtà è stato parte rilevante della cultura occidentale, prima che i figli islamici di Abramo sguainassero la Spada di Allah, brandendola mentre recitavano il versetto 35 della XLII Sura: – Non tentennate, non cedete, non invocate pace, pace! mentre siete i più forti –.
Forse proprio dalle caverne di Tora Bora, esotico nome di un inferno di rocce butterate, sarà cominciata la parabola calante dell’integralismo islamico e del sogno neocaliffale da attingere con le armi subdole, senza regole e senza pietà, del terrore diffuso. Ma forse anche qui il conflitto fra Occidente e geoterrorismo ha confermato di avere qualcosa di enigmatico, che non è possibile risolvere con i concetti e con i metodi di ricerca e di interpretazione della politologia classica. Alcuni esegeti ritengono di poterne trovare la chiave nell’oscurantismo medioevale, altri nell’opera di Nietzsche o di Dostoevskij; altri ancora vedono nel pensiero e nell’azione dispiegati da bin Laden analogie con gli scritti politici degli anarchici e dei nichilisti dell’Ottocento, come Kropotkin o Bakunin o Neciaev, più che con i versetti del Corano. E non mancano coloro i quali, nel vuoto ideologico che frustra le forze laburiste occidentali, stigmatizzando l’egemonia americana e le crescenti ambizioni dell’Europa e della stessa Asia, si mostrano inclini a considerare l’islamismo, non esclusa la variante binladeniana, come una seria alternativa alla globalizzazione promossa da oltre-Atlantico.
Un simile atteggiamento non considera il fatto che in questo inizio del XXI secolo i conflitti fra grandi potenze sono diventati anacronistici. Nelle odierne tensioni internazionali entrano in gioco rivalità di sangue, intolleranze confessionali, divergenze morali, più che il controllo di materie prime, di giacimenti di greggio, di rettifiche di confini. D’altronde, il declino dell’Occidente constatato da Oswald Spengler all’indomani del primo conflitto mondiale, così come la potenza acquisita da parte delle nuove nazioni, sono diventati evidenti. E dunque, abbattendo le Twin Towers, gli integralisti ritenevano di aver mirato al cuore della civiltà dell’Ovest. Ma il cuore della nostra cultura e della nostra civiltà batte altrove, nelle conquiste durature che noi conserveremo a qualsiasi prezzo: nella difesa istituzionale del valore della vita, nella riflessione razionale, nella solidarietà umana. La nostra Storia è tutt’altro che finita. Bin Laden, oltre che un avvertimento, è stato soltanto un episodio. Quanto alla civiltà dell’Occidente, ne resta fuori chi è disposto a rinunciare alla sua utopia umanistica e a capitolare di fronte a ciò che, spacciandosi per civiltà superiore e alternativa, in realtà altro non sa essere che caricaturale compromissione giurassica. Ai limiti della vera e pura demenzialità.E’ finita fra le grotte-bunker di Tora Bora? Finirà fra le aspre montagne del Kashmir? fra le infuocate sabbie irachene? su un uadi somalo? fra le rive del Giordano? nel puzzle di isole filippine o indonesiane? nell’inferno animista del Sudan? nelle medine insanguinate dell’Algeria o della Nigeria?
Ovunque ci sia una guerra, (e una cinquantina di conflitti seminano distruzioni nel mondo), quasi senza eccezione c’è di mezzo l’Islam in servizio permanente effettivo. Non si tratta, quindi, di un problema di malattia adolescenziale, anche perché tredici secoli di prediche missionarie armate hanno portato la religione di Maometto ben oltre la linea d’ombra della maturità. E’ questione di una patologia endogena che rigetta la tolleranza, soffoca la democrazia col volano della teocrazia, condiziona la libertà individuale con la violenza della shari’ah, esclude l’altra metà del cielo, nega l’accesso alla cultura e alla ricerca scientifica.
Finiranno quando vorranno, e come vorranno, queste old & netwars che infettano il pianeta e guastano le coscienze. E’ il risvolto drammatico di questa alba del Terzo Millennio che ci trova tutti impreparati ma nel contempo tutti disposti ad aprire un capitolo inedito della Storia che non può finire. Al principio del quale dobbiamo incidere la celebre domanda di Dostoevskij: – Quale bellezza salverà il mondo? –. Se Dio ha un nome, la Bellezza coniugata con la Giustizia.

   
   
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