Ma il cuore della nostra cultura e della nostra
civiltà batte altrove, nelle conquiste durature che noi conserveremo
a qualsiasi prezzo.
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Kabul è anche il nome del fiume-ariete che precipita alla
mano doriente, catturando decine di affluenti non meno ripidi
e riottosi. A volte, con gli immissari allarga specchi di falsi
laghi. Più spesso rotola fra alte muraglie, di tanto in tanto
sparendo alla vista, mugliando fra botri abissali. Dalle parti di
Kame, un giorno città-gioiello con case di legno intagliato
e di fanghi colorati, acqua sorgiva crepa come melagrane i coni
di deiezione e zampilla in rivoli e cascatelle, tuffandosi in verdi
crepacci. E unacqua lieve, quasi priva di sali minerali,
che sfugge alle mani a giumella, difficile anche da bere, vaporosa
e cristallina comè: ghiaccio liquido che riflette variabili
arcobaleni e alza al cielo vele di gocciole trasmutanti come spira
il vento e ruota il sole.
Kabul è fiume a un tempo visibile e invisibile, da ansa ad
ansa, da un picco a un altopiano a una sottovalle. Quando sciaborda
in pianura, oltre le ondulazioni delimitate da boschi dalto
fusto, le distese di papaveri blu sembrano specchiare la volta celeste
in tappeti stretti e lunghi, irregolari, che si susseguono fino
allosso asiatico dei Karakorum abitati da dèi suggestivi
e da semibarbare tribù. Infine, il corso sincurva verso
sud, alla ricerca del mare. Ma prima attraversa la capitale, diventando
unaltra cosa: un rigagnolo maleodorante che trascina liquami
e spazzatura riflette a malapena lantico Bazar dei Quattro
Portici con i suoi celebri muri dipinti, la Moschea di Puli-I-Khisti,
il Mausoleo di Timur Lenk, Timur lo Zoppo. E il Santuario
del Re delle Due Spade: leggevo un po della storia di Otranto,
in questo luogo sacro, sorto in onore del condottiero musulmano
che sette secoli dopo Cristo, pur avendo perso la testa, mozzatagli
da un colpo di zagaglia, secondo la leggenda continuò a combattere
con una scimitarra per mano, deciso a imporre la nuova, aggressiva
religione arabo-islamica in un Paese che da oltre mille anni era
serenamente indù e buddhista. Poco oltre, possente nelle
sue strutture architettoniche, la Fortezza di Bala Issar, palazzo
abitato da tutti i vincitori, e galera o patibolo per tutti i vinti
del pendolo della storia afghana.
Il fiume Kabul è, dunque, specchio opaco della capitale Kabul:
proiezione distorta di immagini ocra e grigie di macerie, di resti
cariati di case, di strade, di moschee, di mausolei. La città
non esiste più, e non esiste neanche la periferia: rase al
suolo le villette residenziali che ingentilivano le campagne; sventrati
dalle artiglierie templi, cupole, minareti snelli e solitari; diruto
il misterioso Minar-I-Chakari, Colonna della Luce, che
dominava la via per Islamabad fin dal primo secolo dopo Cristo,
eretto forse per celebrare il pensiero di Buddha, e abbattuto dagli
obici nel 1988; arsi i giardini che furono lorgoglio di questa
piccola metropoli, dove si coltivavano settanta tipi diversi e tutti
evoluti di uve e trentatré varietà di tulipani; annientati
i sei grandi parchi di cedri, salotti a cielo aperto nel cuore della
città.
Una sorta di maledizione saturnina sembra scandire i tempi della
morte e resurrezione di questo magnifico Paese, che già allalba
del XIII secolo ebbe il primo martirio totale: Gengis Khan, per
vendicare la morte in battaglia di un nipote, ordinò che
nel luogo del suo lutto non fosse lasciata pietra su pietra. Per
giorni la soldataglia mongola fu impegnata a sgozzare ogni uomo,
ogni donna, ogni bambino, ogni animale, fino a che narrano
i cronisti dellepoca le spade perdettero il filo; poi
vennero eradicati gli alberi e si diedero alle fiamme le case; alla
fine si spogliarono delle lamine doro i grandi Buddha scolpiti
nella roccia, e si lasciò che le loro occhiaie vuote smarrissero
la vista della valle, fino al giorno in cui i talebani avrebbero
completato lopera iconoclasta a colpi di bazooka.
Gli uomini di Gengis Khan che decisero di fermarsi lì oggi
si chiamano Hazara, e come allora sono unorda odiata da tutti
(il loro nome significa a migliaia), anche dai tagiki
che odiano da sempre i pashtun, dai pashtun che odiano da sempre
gli uzbeki, dagli uzbeki che odiano da sempre gli uguiri... E
un odio perenne, mai rassegnato, accanito: nel 1992-96 i guerriglieri
dellAlleanza del Nord avevano fatto della capitale il loro
scannatoio privilegiato, con cinquantamila morti ammazzati. I talebani,
sopraggiunti come liberatori, aprirono i cantieri di
un altro mattatoio, con decine di migliaia di vittime. Continuava
lalternanza dei massacri, che aveva inaugurato la sua prima
stagione fra le barriere innevate dellHindu Kush, (Assassino
degli indù), nel nome delle centinaia di migliaia di
indiani morti di fame e di freddo fra quelle montagne mentre venivano
trasferiti come schiavi verso lAsia centrale dai loro conquistatori
Moghul. Si replicava una storia di ascese e cadute di nobili città
come Bagram, già capitale della civiltà Kushan, poi
cancellata, e Herat, Mazar-I-Sharif, Kandahar, Kunduz, Balkh, Kabul...
Ora tutte città fantasma, con fantasmi di esseri
umani che riprendono a muoversi fra le macerie fumanti: come fu
a Phnom Penh dopo la follia memoricida dei Khmer rossi; come fu
a Pechino dopo il bagno di sangue delle Guardie rosse maoiste.
Ha pagato per la sua storia e per la sua geografia, lAfghanistan.
Perché attraverso i passi e le valli di questo budello del
mondo asiatico è avvenuto il transito di tutte le grandi
religioni, le grandi civiltà, le grandi invasioni, i grandi
conquistatori, i grandi imperi; e le idee, le razze, le arti; e
la ferocia, il cinismo, la violenza; e la paura delluomo.
Tutti i sentimenti, tutti i tormenti, tutte le angosce, tutte le
speranze, sono sorti, morti e risorti fra le mitiche valli coronate
dalle montagne afghane che incantarono persino barbari come Babur,
leggendario capostipite dei Moghul, che volle trascorrervi il resto
della vita. E qui, allora, è uno dei più grandi giacimenti
della storia umana, che i destini incrociati delle oldwars e delle
netwars, muovendo sullo scacchiere cavalli, scimitarre, kriss, balestre,
e kalashnikov, missili, aerei invisibili e fortezze volanti, occultano
sotto coltri imponenti di perpetue macerie.
In tutto il mondo, gli Stati nazionali erano riusciti a liquidare
le guerre tra feudatari. In Afghanistan la cultura tribale ha radicato
le divisioni. Per di più, quel che il mondo islamico non
ha vissuto sono i secoli che hanno consentito allOccidente
di spingere il Cristianesimo nella sfera privata e di creare uno
spazio di laicità che, poi, ha generato pensiero, filosofia,
politica, senso dello Stato. Si capisce, allora, perché Omar
(Muhammad Omar Akhund) e Osama, un contadino talebano diventato
mullah (Akhund significa prete) e un miliardario wahhabita
originario dello Yemen ma saudita a tutti gli effetti, diventato
ideologo e guerrigliero nel nome di Allah, siano stati due cupi
personaggi centrali delle cronache dellorrore, ma opposti
e divisi anche negli atti finali del dramma afghano. Divinatorio,
maledicente, eppure versatile uomo di mondo, grande comunicatore
via fax e Internet, il capo di al-Qaeda. Incolore, terragno, monoglotta,
schivo, votato allinvisibilità e al culto dellimpersonalità,
il capo religioso. Tanto il primo era impegnato a diffondere la
volgare pubblicità di se stesso, quanto il secondo era deciso
a restare in un cono dombra, affidando la parola e la figura
allimmaginazione collettiva e alimentando il carisma di un
ectoplasma. Luno e laltro misoneisti, culturicidi, fuori
del tempo. Con in più il sordo elemento di reciproca conflittualità,
determinato dalle strategie di preminenza della ricchezza sulla
religione, o viceversa. Sicché non poteva destare meraviglia
il fatto che, mentre era in corso lattacco americano e le
città e posizioni talebane cadevano una dopo laltra,
i destini dei due divaricarono nettamente: Omar si rinchiudeva per
breve tempo nella fragile roccaforte di Kandahar, e in seguito,
pur invitando i suoi alla resistenza estrema, tentava una trattativa
di resa personale, e infine fuggiva verso il sud pakistano, dove
per un pashtun era facile mimetizzarsi fra le tribù di confine;
Osama, invece, spariva allest, fra le caverne delle montagne
bianche, seguito da unarmata di disperati sopravvissuti arabi
e ceceni. Dopo due mesi di fuga, più che di guerra, praticamente
tramontava la sinistra epopea settennale del talebanismo nero, espressione
di un Islam adulterato, importato dalle madrase pakistane e dalle
scuole dellambiguo e sanguinario wahhabismo saudita.
Altrettanto effimero e artificioso, il tentativo di bin Laden di
fare dellAfghanistan il centro motore di tutte le basi transnazionali,
il punto di coagulo militare del nuovo tipo di geoterrorismo che
aveva, e avrà ancora, le sue più autentiche radici
nellestremismo del jihad egiziano e nel purismo veterosunnita
della Mecca. Lidea armata di Osama, cioè il progetto
di far ripartire da Kabul lopera di restaurazione di un neocaliffato
islamico, servendosi del terrore, poteva suscitare speranze fideistiche
e un certo entusiasmo militante soprattutto fra le masse e le élites
del mondo arabo. A queste masse e a queste élites lIslam
ha sempre promesso il potere universale, fatalmente proclamandosi
vincente. Ma la storia ha dimostrato più volte che è
solo perdente: un giorno si poteva essere primitivi e vincenti,
come al tempo dei barbari che sconfissero Roma; oggi si è
evoluti o sottosviluppati, Stati ricchi di democrazia e di libertà,
o Stati canaglia che, vietando persino la convivenza e contiguità
con cristiani, ebrei, indù, buddhisti, ecc., perché
ciò costituisce peccato morale e religioso, generano violenza
dopo violenza, e separatezza dopo separatezza. Ma solo nel mondo
arabo e fra gli integristi dogni latitudine istigati dai mullah.
Fra gli islamici dAsia centrale, non arabi, diversissimi dagli
arabi, alla lunga loperazione non poteva che provocare una
reazione fisiologica di rigetto. Per questa ragione, neanche il
volontaristico e primordiale essenzialismo del prete Omar aveva
retto alla prova del fuoco. Il mantello grigio di Maometto, ritenuto
autentico, che aveva indossato prelevandolo da un reliquiario presso
Kandahar, gli è caduto dalle spalle, come è caduta
la sacra sindone islamica replicata, di cui si era metaforicamente
ornato il suo alleato e antagonista, portandosela fin dentro Tora
Bora, fra orride grotte, per un martirio senza nome.
Si potrebbe dire: la democrazia non è abbastanza estesa nel
mondo. Il che è assolutamente vero. Ma questa presa datto
non solleverà masse né susciterà grandi speranze.
In questo nuovo (e confuso) contesto, apparentemente omogeneizzato
dalla globalizzazione tecnica, economica, occidentalizzante, appaiono
anche fenomeni contrari, già visibili in passato, ma mai
con la violenza di questi ultimi anni. Si tratta delle spinte nazional-religiose.
La fine del XX secolo è stata segnata dalla mancata trasformazione
degli Imperi in confederazioni. E queste spinte, quando si risvegliavano,
avevano qualcosa di cattivo, perché si nutrivano
dei ricordi delle atrocità commesse, in due guerre mondiali,
da una parte e dallaltra.
Laspirazione alla nazione era un grande tema nato in Europa
nel XIX secolo e poi diffusosi ovunque. Era stato il dono involontario
fatto dal Vecchio Continente dominatore ai Paesi colonizzati. Ma
mentre le grandi nazioni europee erano multietniche, organizzate
per raggruppamenti successivi, oggi assistiamo al sorgere di nazioni
monoetniche, quasi sempre con un legame tra base etnica e base religiosa.
Doppia virulenza. Sicché siamo al cospetto di un processo
planetario di dislocazione, cioè di balcanizzazione, da cui
si salva soltanto chi valorizza il proprio patrimonio umanista,
vale a dire la propria eredità di caratura universale. Che
fu anche propria di una religione terrena, quella di
Marx, che era altra cosa dallo pseudo-marxismo sovietico. Lerosione
di questa fede cominciò già negli anni Settanta, con
limporsi in molte regioni del messaggio dissidente di Solzenicyn.
Era lepoca in cui la Cina si copriva di ridicolo con la storia
della Banda dei quattro, che secondo il sociologo francese
Edgar Morin fu un grandioso progetto di socialismo che assumeva
un aspetto ad un tempo tragico e grottesco; poi sarebbe arrivato
il post-maoismo, che avrebbe prosaicizzato la Cina agli occhi dei
suoi antichi ammiratori; il Vietnam, oggetto di tanti entusiasmi,
avrebbe disilluso; la Cambogia sarebbe diventata una mostruosità;
quanto al piccolo paradiso castrista, sarebbe stato
necessario essere molto anti-yankee per continuare a crederci. Il
lento deperimento della religione comunista avanzava, la nazione
russa si inabissava nellUnione Sovietica, limplosione
finale le dava solo il colpo di grazia.
La disintegrazione di quella religione terrena lasciava il posto
a uno slancio verso le religioni antiche, come hanno dimostrato
la straordinaria rinascita della cristianità ortodossa in
Russia e nei Paesi ex satelliti e la crescita dellIslam. E
stato un ritorno allidentità religiosa e/o etnica,
con spinte molto forti. La crisi di una religione di salvezza terrestre,
la paura di perdere lidentità in un processo di omologazione
al tempo stesso reale e immaginaria, più la perdita del futuro,
cioè di tutte le grandi speranze che poteva portare lidea
del progresso occidentale, e lo scacco, in tante regioni, di tutti
i modelli di sviluppo, tutto questo ha provocato un ritorno al passato,
soprattutto da quando il presente è stato foriero di angosce
e di frustrazioni. E il vuoto è anche nelluniverso
muslìm.
Si consideri il caso dellIran, che aveva subìto un
regime durissimo. La società civile, non essendo organizzata
politicamente, ha rigettato il sistema alla base: le donne non sono
più velate, i giovani manifestano... Si può immaginare
un paradosso: come lesperienza del comunismo staliniano è
stata profondamente liberatrice per il crollo dellillusione,
così lesperienza dellIslam essenzialista non
potrà durare. Nessuno potrà fermare il progresso.
Lo dimostrano la Rivoluzione americana, che ha garantito democrazia
e libertà, non soltanto in America; la Rivoluzione francese,
che ha esaltato princìpi universali ispirati allUmanesimo;
la Rivoluzione russa, battuta quando ha stravolto quei princìpi.
Si dice che non ci sono più grandi cause. Queste non possono
essere più le old/netwars. Unutopia per la quale vale
la pena di vivere è civilizzare la terra, ciò che
può essere chiamato Terra-Patria. Che tuttavia non prende
ancora forma militante, non ha cristallizzazione mentale. Non sentiamo
ancora che siamo tutti legati da questa comunione di destino, da
questa unità umana attraverso le nostre differenze. Colpisce,
questo vuoto, per la presenza di una grande causa potenzialmente
formidabile, ma che non viene vissuta. O è vissuta conflittualmente
da quel Vicino Oriente che in realtà è stato parte
rilevante della cultura occidentale, prima che i figli islamici
di Abramo sguainassero la Spada di Allah, brandendola mentre recitavano
il versetto 35 della XLII Sura: Non tentennate, non cedete,
non invocate pace, pace! mentre siete i più forti .
Forse proprio dalle caverne di Tora Bora, esotico nome di un inferno
di rocce butterate, sarà cominciata la parabola calante dellintegralismo
islamico e del sogno neocaliffale da attingere con le armi subdole,
senza regole e senza pietà, del terrore diffuso. Ma forse
anche qui il conflitto fra Occidente e geoterrorismo ha confermato
di avere qualcosa di enigmatico, che non è possibile risolvere
con i concetti e con i metodi di ricerca e di interpretazione della
politologia classica. Alcuni esegeti ritengono di poterne trovare
la chiave nelloscurantismo medioevale, altri nellopera
di Nietzsche o di Dostoevskij; altri ancora vedono nel pensiero
e nellazione dispiegati da bin Laden analogie con gli scritti
politici degli anarchici e dei nichilisti dellOttocento, come
Kropotkin o Bakunin o Neciaev, più che con i versetti del
Corano. E non mancano coloro i quali, nel vuoto ideologico che frustra
le forze laburiste occidentali, stigmatizzando legemonia americana
e le crescenti ambizioni dellEuropa e della stessa Asia, si
mostrano inclini a considerare lislamismo, non esclusa la
variante binladeniana, come una seria alternativa alla globalizzazione
promossa da oltre-Atlantico.
Un simile atteggiamento non considera il fatto che in questo inizio
del XXI secolo i conflitti fra grandi potenze sono diventati anacronistici.
Nelle odierne tensioni internazionali entrano in gioco rivalità
di sangue, intolleranze confessionali, divergenze morali, più
che il controllo di materie prime, di giacimenti di greggio, di
rettifiche di confini. Daltronde, il declino dellOccidente
constatato da Oswald Spengler allindomani del primo conflitto
mondiale, così come la potenza acquisita da parte delle nuove
nazioni, sono diventati evidenti. E dunque, abbattendo le Twin Towers,
gli integralisti ritenevano di aver mirato al cuore della civiltà
dellOvest. Ma il cuore della nostra cultura e della nostra
civiltà batte altrove, nelle conquiste durature che noi conserveremo
a qualsiasi prezzo: nella difesa istituzionale del valore della
vita, nella riflessione razionale, nella solidarietà umana.
La nostra Storia è tuttaltro che finita. Bin Laden,
oltre che un avvertimento, è stato soltanto un episodio.
Quanto alla civiltà dellOccidente, ne resta fuori chi
è disposto a rinunciare alla sua utopia umanistica e a capitolare
di fronte a ciò che, spacciandosi per civiltà superiore
e alternativa, in realtà altro non sa essere che caricaturale
compromissione giurassica. Ai limiti della vera e pura demenzialità.E
finita fra le grotte-bunker di Tora Bora? Finirà fra le aspre
montagne del Kashmir? fra le infuocate sabbie irachene? su un uadi
somalo? fra le rive del Giordano? nel puzzle di isole filippine
o indonesiane? nellinferno animista del Sudan? nelle medine
insanguinate dellAlgeria o della Nigeria?
Ovunque ci sia una guerra, (e una cinquantina di conflitti seminano
distruzioni nel mondo), quasi senza eccezione cè di
mezzo lIslam in servizio permanente effettivo. Non si tratta,
quindi, di un problema di malattia adolescenziale, anche perché
tredici secoli di prediche missionarie armate hanno portato la religione
di Maometto ben oltre la linea dombra della maturità.
E questione di una patologia endogena che rigetta la tolleranza,
soffoca la democrazia col volano della teocrazia, condiziona la
libertà individuale con la violenza della shariah,
esclude laltra metà del cielo, nega laccesso
alla cultura e alla ricerca scientifica.
Finiranno quando vorranno, e come vorranno, queste old & netwars
che infettano il pianeta e guastano le coscienze. E il risvolto
drammatico di questa alba del Terzo Millennio che ci trova tutti
impreparati ma nel contempo tutti disposti ad aprire un capitolo
inedito della Storia che non può finire. Al principio del
quale dobbiamo incidere la celebre domanda di Dostoevskij:
Quale bellezza salverà il mondo? . Se Dio ha un nome,
la Bellezza coniugata con la Giustizia.
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