Dicembre 2001

AA. VV.

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Le Giravolte
percorsi per: egidio sterpa - florio santini
 
 

 

 

 

In verità, non è il primo ad avanzare il sospetto dell’insincerità religiosa di Manzoni, ma è certamente il più insistente.

 

manzoni anticristiano?

Ambigui Promessi sposi

C’è un professore all’Università Bocconi di Milano che sta dedicando la sua vita a demolire Alessandro Manzoni e i Promessi sposi. Il suo nome è Aldo Spranzi, insegna economia dell’arte, è persona serissima e stimata dai colleghi e dai discenti. Da anni ormai si ostina a definire «impostore» Manzoni, accusandolo di aver finto una fede cattolica che non aveva e di aver scritto un romanzo ambiguo «apparentemente al servizio dell’apologia della religione cattolica», mentre in realtà la sua opera è nutrita di «un radicale nichilismo anticristiano».
Per sostenere questa tesi Spranzi ha scritto un saggio di ben 1.210 pagine, uscito nel 1995 – Anticritica dei “Promessi sposi”, Egea editore, Milano – e ora ci fa pervenire una rivisitazione della biografia di Manzoni – Il segreto di Alessandro Manzoni. Che cosa nasconde l’autore dei “Promessi sposi”, Unicopli editore, Milano – di 602 fittissime pagine. E’ una biografia che ha dell’incredibile, e però di grande interesse proprio per la stranezza della tesi che sostiene. Sono seicento pagine che costituiscono una puntigliosa indagine biografica tenacemente destinata a stravolgere l’immagine di Alessandro Manzoni.
Qui è necessario dire, per obiettività, che non ci si trova di fronte a un superficiale pamphlettista provocatore ma ad uno studioso e ad un ricercatore serio, anche se sostenitore di una tesi opinabilissima. Va anche chiarito che l’intento del nostro saggista non è di denigrare Manzoni, che anzi viene definito «grand’uomo» e riconosciuto grande scrittore, ma di scoprire il presunto segreto della vita “misteriosissima” del gran lombardo diventato simbolo del cattolicesimo, dal che ebbe fama e onori (ci fu un momento in cui qualcuno pensò di proporne la beatificazione), mentre in realtà, secondo Spranzi, sarebbe un grandissimo ipocrita. Appunto: grandissimo scrittore ma anche grandissimo mentitore.

C’è da rimanere trasecolati di fronte ad un simile paradosso. Perdinci, è un attacco senza precedenti ad un vero monumento della cultura italiana, il tentativo di togliere valore alla “saga” manzoniana, che è gran parte del nostro bagaglio storico-culturale. Una vera dissacrazione, insomma, che diventa difficile accettare, un’iconoclastia inammissibile, diciamo la verità.
Sono esattamente 174 anni che i Promessi sposi circolano per il mondo (la prima edizione uscì nel 1827), hanno superato il vaglio di critici di enorme spessore: Tommaseo, De Sanctis, Croce, Angelini, Momigliano e non si sa di quant’altri. Manzoni oggi avrebbe 216 anni (nacque nel 1785), il suo libro è diventato, si può dire, la Bibbia della nostra cultura e una delle più alte e raffinate espressioni della cultura europea, giganteggia, lo annotava Tommaseo, perché mette insieme «lezioni gravissime della storia d’Italia». Sciascia, che mi onorava della sua amicizia, mi disse che l’opera di Manzoni è il romanzo-chiave per capire la nostra storia popolare. In effetti, vi sono rappresentati i nostri vizi nazionali, le nostre meschinità, ma anche personaggi e situazioni che esprimono incomparabilmente spirito e psicologia della nostra gente.

Sì, non c’è dubbio, questa interpretazione del professor Spranzi di Manzoni e della sua opera è sbalorditiva. Prenderla sul serio, francamente, è impossibile. Anche se al saggista e al critico non si può non riconoscere un grande impegno di ricercatore. Quasi duemila pagine sul tema Manzoni-Promessi sposi non sono una sciocchezza, testimoniano cultura, capacità critica e anche buona scrittura. Viene da chiedersi, semmai, se tutto questo impegno, intellettuale e materiale, Spranzi lo abbia profuso non tanto per maturata convinzione di una tesi abnorme ma per mera dimostrazione di bravura.
In verità, Spranzi non è il primo ad avanzare il sospetto dell’insincerità religiosa di Manzoni, è certamente però il più insistente. E’ risaputo che l’autore dei Promessi sposi fino alla maturità fu tutt’altro che religioso, anzi se non proprio ateo convinto fu certamente anticlericale. La madre, donna di cultura illuminista, figlia del grande Cesare Beccaria (autore del famoso Dei delitti e delle pene), si separò dal marito e visse a Parigi con Carlo Imbonati. Il legame tra madre e figlio fu molto intenso, massimamente dopo la morte dell’Imbonati, avvenuta a Parigi proprio mentre stava per arrivarvi Alessandro. C’è chi addirittura – e Spranzi lo sottolinea – avanza il sospetto che tra i due ne nascesse «un’inconscia felicità incestuosa».

Venne poi il matrimonio, con rito calvinista, con Enrichetta Blondel, figlia di un banchiere svizzero. Fu la conversione di Enrichetta al cattolicesimo a far svoltare il Manzoni da posizioni voltairiane a quelle di cristiano fervente, quali appaiono appunto, com’è riconosciuto universalmente, in tutto il grande romanzo.
La prova della sua nuova fede sta – questo lo annota con forza la cultura cattolica – negli Inni sacri che Manzoni scrisse tra il 1812 e il 1822, cioè prima che uscissero i Promessi sposi.
Certo è indubbio che Manzoni fu liberale, forse persino giacobino. Scrisse, non va dimenticato, il proclama di Rimini (1815) per Murat, che invitava gli italiani a insorgere per la libertà; la morte di Napoleone gli ispirò la nobilissima ode “Il cinque maggio”; fu patriota e senatore nell’assemblea che proclamò il Regno d’Italia. Sicuramente non lo si può classificare bigotto e bacchettone, ma ci corre molto da qui a scoprirlo come anticristiano che progetta il suo grande romanzo per beffare il cattolicesimo, addirittura fingendo fino al punto di accreditarsi, blasfemicamente, come campione della fede cattolica.

Perché lo avrebbe fatto, poi? Spranzi arriva ad annotare: «Brutta figura della Chiesa, che ha scambiato per serafino un subdolo demonio». Ma com’è possibile che nessuno si sia accorto nello spazio di più di un secolo e mezzo di tanta impostura? Spranzi, accanito dissacratore, dedica non a caso il suo libro a Davide Albertario, sacerdote e uomo politico bergamasco, direttore dell’Osservatore cattolico di Milano, che – così sostiene – si accorse tra i primi della “doppiezza” del Manzoni, ma s’impose di tacere per «la consapevolezza delle conseguenze gravemente negative».
Insomma, siamo in presenza di un libro indubbiamente di non poco interesse, che cavalca una tesi arditamente e incredibilmente insolita e stravagante, e di un critico singolarissimo, che è vieppiù stupefacente nelle sue conclusioni: definisce il romanzo manzoniano «intensamente religioso, anche se non cristiano» e arriva a dire che «la scoperta del vero volto del Manzoni e del suo romanzo lo toglie dal possesso esclusivo dei cattolici e lo pone a disposizione dell’intera umanità».

egidio sterpa

 

 

 

Non credetti ai miei occhi: il pitosforo era stato potato, anzi segato, meglio decapitato con cura magistrale, pianta dopo pianta, lungo il confine del mio regno solitario.

 

l’asino arpista racconta

Amico pitosforo

Una volta rientrato in Italia, grazie ad alcuni colleghi ebbi la fortuna di poter vivere in un castello disabitato del profondo Sud. Il mio primo utile incontro fu un pitosforo, vecchio come me; ma, per dirla con gli agricoltori del cordiale villaggio scelto quale definitivo approdo, ancora “vegeto e rampicante” a modo suo. (La pianta è originaria dal Giappone e dalla Cina: per me, una ragione in più di amarla!).
Col tempo, i rami contorti erano divenuti grossi e nodosi, le sue foglie fitte, tutte uguali, dure, per niente disposte a cadere, qualunque fosse la stagione.
Non era più il povero alberello selvatico, messo lì a segnare il confine di un antico giardino. I verdi arbusti erano cresciuti, impavidi e forti, senza che mai, mai nessuno l’innaffiasse, salvo un parsimonioso Padreterno, di tanto in tanto, sempre più di rado...
I germogli, per crescere sicuri, si erano poggiati all’aristocratica cancellata, finendo col creare un geloso, strano intreccio di legno e di ferro.
Per anni, fu proprio questo suggestivo intreccio protettivo a farmi ombra fitta in estate, a concedermi una perfetta libertà in inverno.
Durante il periodo più creativo della mia non più nomade vita, quel pitosforo arruffato mi aveva concesso tutta la “privacy” di cui avevo bisogno per scrivere in santa pace; però, all’aperto.
Vedevo la piazza, la piazza non vedeva me: un raro privilegio di origine spontanea, anziché, come oggi inevitabilmente accade, di provenienza politico-sociale. Io, forestiero sconosciuto ai paesani, ebbi in lui un austero protettore, una specie di guardia del corpo vegetale, che nessuno si permetteva d’irridere. Avevo ormai trascorso molte tranquille epoche, alla sua amichevole ombra. Grazie a lui, avevo scritto alcuni libri. Non scherzo.
Cosicché, una mattina mi svegliai, come sempre causa festoso, simultaneo ingresso dei miei cinque cani in camera, per prendere un primo caffè sotto il bianco gazebo e cominciare il mio felice pestaggio sulla qui presente gloriosa macchinetta.
Non credetti ai miei occhi: il pitosforo era stato potato, anzi segato, meglio decapitato con cura magistrale, pianta dopo pianta, lungo il confine del mio regno solitario. Vedendomi stravolto, gli operai dissero subito che sarebbe cresciuto presto più bello di prima; ma dimenticarono di aggiungere che, molto probabilmente, non ci sarei stato.
A parte il particolare forse trascurabile, mi sembrò che il vecchio amico fosse più morto che vivo, con quelle crudeli mozzature in bella mostra. Il risultato concreto del fatto, peraltro lecito (non per me, stupido poeta!) in fase di ristrutturazione monumentale del suddetto castello, nella pratica, era inesorabilmente questo: il mio tavolo da lavoro pareva sbattuto in paese. E la mia famosa concentrazione, ricchezza senile, custodita per anni da una pianta generosa e opportuna? Impossibile, proprio impossibile, ormai.
Perché la verde, innocente, innocua trincea contro il mondo e l’emblematico cancello a punte di lancia contro la noia, avevano ora una trasparenza vuota, senza più possibilità di allegoriche visioni, giusto un amato stile; perché vedevo bene da ambedue le parti di quello spazio profanato. Il segreto galeotto di ciò che non appare in chiaro era sparito. Tutto sembrava una grande foto da documentario scientifico, nemica del colore.
Ora, la realtà esterna al giardino senza più difesa era simile a quella interna. Un già roman

tico ambiente svaniva nella globalità sommaria: insomma, non potevo più giocare al simbolismo, né inventare allegorie. Il pitosforo mostrava, in pieno sole, il bianco vergine del taglio fresco, inflitto ai suoi rami, oserei dire affettati a suon di sega elettrica (N.d.A.: Soltanto l’Enciclopedia Italiana riporta una completa definizione della parola pitosforo o pittosforo).
Insomma, una vera e propria mostra di chirurgia oscena; ma io esagero sempre, lo so; e lo sapete anche voi.
Il maestro potatore, del resto gentile come tutti, concluse con una di quelle sagge frasi che si dicono ai funerali, contando sul fattore tempo: «Non c’è che attendere».
Lo sto facendo, con umile tristezza mista a speranza, infatti; senza avercela con nessuno, credetemi.

florio santini

   
   
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