Devi fare
il portiere nella squadra del
carcere per capire se vali; devi fare il portiere innocente per
quindici anni, tre mesi e due giorni...
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Quelli che ora hanno tra i quaranta e i cinquantanni, quelletà
dolceamara, sospesa, altalenante, che mescola il sapore del presente
e del passato, che come in un dormiveglia confonde volti e voci,
quelli che hanno i capelli quasi tutti bianchi, che hanno storie
fatte di giorni veri e pieni, avevano anche meno di dieci anni quando
Luigi Tenco si sparò un colpo alla tempia tra i lustrini
e i fiori di Sanremo.
Quelli che adesso dormono poco, quelli che non hanno imparato a
rinunciare, quelli che pensano sempre che sia un gioco alzarsi ogni
mattina, prendere il caffè, sono figli di anni poveri e felici,
hanno masticato liquirizia a forma di pesciolini, hanno preso e
dato botte per la strada, hanno letto tutto Pavese in unestate.
Quelli che qualcuno dice che adesso sono arrivati, che si sono realizzati
nel lavoro e nella vita e che si sentono, invece, sempre a un punto
di partenza, sempre precari, eterni studenti, quelli che da bambini
non avevano il televisore, non avevano il frigorifero né
il ciclomotore, che si sentono ridicoli ad usare un cellulare, che
si sono innamorati sempre senza pensare, sono nati quando il Sud
si spopolava per cercare lavoro nel Nord industriale.
Quelli che sono sempre incerti sul da farsi anche se ostentano sicurezza
e decisione, quelli che dietro la scrivania di un giornale, tra
i banchi di una scuola, nelle corsie di un ospedale, cercano il
senso profondo, una poesia, che li spinga a riprendere, a continuare,
avevano piedi sporchi di terra e tasche piene di sogni quella sera
che gli americani si presero la luna.
Quelli che fanno i manager o che con due lauree sono in lista dattesa
al collocamento, quelli che fanno i poeti, i teatranti, i free lance,
i rappresentanti di tutto e di niente, sono quelli che si fermano
per dare un passaggio sapendo comè quando si resta
a terra.
Quelli che hanno imparato a contare le assenze. Quelli che ogni
sera fanno i bilanci. Quelli che fanno gli equilibristi sugli argini
dei baratri che gli si aprono davanti. Quelli che nascondono la
nostalgia per darsi un tono. Quelli lì.
Io ora ricordo, e non ricordo. E come una foschia; è
una memoria incerta, tremolante, distratta, tra sonno e veglia;
è come i souvenir di quelletà, con la neve e
lacqua che copriva le città nellampolla di vetro:
Piazza San Marco, il Duomo di Milano. E come la cartella di
cartone, lodore di Serraglio fumate dal maestro
metteva da parte i pacchetti per insegnarci la decina
, le briciole sul davanzale alla ricreazione per far mangiare i
passeri. Nessuno di quella classe è diventato cacciatore.
Spesso vado a salutarlo, al cimitero. Gli devo tutto quel nulla
che so.
Io ora ricordo, e non ricordo. E come lodore di pane
di casa, come lacqua di fontana dopo sfrenati pomeriggi di
pallone, il sapore di melagrane, lodore del mosto, i fumetti
di Capitan Miki, di Tex Willer, di Black Macigno, come la febbre
che viene la sera dopo aver letto, in un pomeriggio, La freccia
nera.
Dicono le cronache di costume che la sera del 27 gennaio del sessantasette,
il cuore di trentamilioni di italiani batteva davanti al televisore.
Il mio cuore no. Io non avevo ancora il televisore. Seppi di Luigi
Tenco la mattina dopo, dalla radio.
Cerano pochi televisori in quegli anni, in paese. Ce nera
uno in un bar; un altro nella sezione della Democrazia Cristiana.
Scudocrociato e televisione.
Poi cera un cinema. Gelido. Entravamo in venti con lo stesso
biglietto. Uno pagava, gli altri seguivano la scia. Si aspettava
che la maschera nello sgabuzzino trasformato in biglietteria
si annebbiasse per il fumo delle nazionali senza filtro e per il
vino. Un uomo con la stampella e i grandi baffi bianchi vendeva
patatine. Lo stesso film tre, anche quattro volte. Per un
pugno di dollari, Per un dollaro in più
di Sergio Leone imparati a memoria.
Seppi di Tenco, poi andai a scuola. Ma quel giorno, e per molti
giorni dopo, a mio padre feci comprare tutti i giornali. Mio padre
mi diceva sempre: se guadagni dieci lire, con quattro compra il
pane, quattro mettile da parte, con due compra il giornale.
Leggevo tutti gli articoli su Tenco ma mi fermavo soprattutto a
guardare quella sua foto che stringeva lurlo del ritornello:
ciao amore ciao. Gli occhi chiusi. Il capo reclinato. La rabbia
imprigionata dentro i pugni serrati.
Forse cercavo di capire se quellurlo nascondesse la premeditazione
del suicidio; forse mi chiedevo se avesse urlato quelle parole puntandosi
alla tempia la Walter Ppk 7.65. Non lo so.
Perché io ora ricordo, e non ricordo.
Ricordo che a Sanremo quellanno vinse Claudio Villa. Ricordo
Pietre di Antoine. Ricordo le figurine dei calciatori
e i pomeriggi passati a giocarsele battendo le mani sulle soglie
di marmo.
Ricordo che molta gente andava via dal paese per Milano, per Torino:
contadini che si facevano operai, che si facevano carabinieri, poliziotti,
sopraffatti dal bisogno di un lavoro sicuro, sfiancati dal ricominciare
dopo ogni grandinata.
La canzone di Tenco parlava di loro: del loro andare via, della
loro nostalgia.
Anni strani, di grosse contraddizioni. A grandi passi si avvicinava
il Sessantotto: il Maggio francese, i carri armati sovietici a Praga,
lesplosione studentesca, gli attacchi dei celerini
da una parte le spranghe, dallaltra i manganelli ;
Pasolini schierato coi poliziotti: con quei ragazzi che venivano
dalle casupole, dai bassi sulle cloache, vestiti come pagliacci
con stoffa ruvida che puzzava di rancio e fureria. E popolo.
La canzone di Tenco parlava anche di loro.
Non ho mai pensato che Tenco si sia ucciso per una canzone. Non
lo pensai nemmeno allora, col mio pensiero di bambino. Gesti così
grandi, così spaventosamente illimitati, hanno radici negli
abissi della mente.
Dice Albert Camus che «un gesto come questo si prepara nel
silenzio del cuore, allo stesso modo che una grande opera. Luomo
stesso lo ignora, ma una sera si spara o si annega».
Io ora ricordo, e non ricordo.
Ricordo Io tu e le rose di Orietta Berti.
Sul biglietto trovato allHotel Savoy, Tenco aveva scritto:
«Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato
cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono
stanco della vita (tuttaltro) ma come atto di protesta contro
un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e una
commissione che seleziona La rivoluzione. Spero serva
a chiarire le idee a qualcuno».
Ricordo che Tenco cantava la sua canzone in coppia con Dalida.
Ricordo che allora si fece lipotesi che Dalida avesse potuto
trovarsi con lui nellattimo in cui premette il grilletto,
senza riuscire a impedirlo.
Anche Dalida è morta suicida.
Ho visitato la sua tomba nel cimitero di Montmartre. Ho pensato
che imperscrutabili congiunture annodano, a volte, le esistenze.
Mi sono chiesto quanto abbia pesato sul suo destino il suicidio
di Tenco, se alla fine, allultimo istante, abbia pensato a
quel ragazzo di ventotto anni una passione? che una
sera si sostituì a Dio impossessandosi del potere di vita
e di morte.
Anni nuovi, quegli anni. Anni di mutamenti, di tensioni,
Quattro mesi dopo la morte di Tenco uscì la Lettera
a una professoressa dei ragazzi di Lorenzo Milani, priore
di Barbiana. Un documento potente, dirompente. Gianni e Pierino,
le classi sociali, il possesso della lingua per la conquista delluguaglianza,
lidea di una scuola di tutti per tutti.
Anche Tenco, a suo modo, con una canzone del sessantadue, Cara
maestra, aveva parlato di differenze, di disuguaglianze che
maturano e si perpetuano nei luoghi e con le forme del Potere.
Quel che ora può sembrare romanticheria, a quei tempi aveva
la volontà e il senso della protesta, della lotta per una
società più giusta.
Lorenzo Milani morì un mese dopo la pubblicazione della Lettera,
in giugno.
Io ora ricordo, e non ricordo.
Non ricordo nessun boom, nessun miracolo economico. Ricordo molte
difficoltà, molte speranze.
Ricordo tante altre cose che non dico perché sono solo fatti
miei.
Poi: ricordo un uomo il nome si è sottratto alla memoria
che correva dietro un cerchio di ruota tutto il giorno.
Ricordo la sua magrezza, il viso scarno, la barba a chiazze quasi
tutta bianca.
Faccia di capra, diceva la marmaglia.
Correva e bestemmiava.
Non so perché corresse tutto il giorno, dietro il cerchio
strambo, rugginoso, verso dove corresse, senza requie, sempre scalzo,
coi vestiti a pezze, che fosse estate o inverno, che lucesse raggio
di sole o luna.
Non so dove dormiva, se mangiava, se ne avessimo noi se io
ho avuto una pietà, una paura.
Non ricordo.
Ogni tanto mancava dal paese. Si diceva: lhanno chiuso. Riappariva.
Più magro. Più rabbioso. Correva dietro il cerchio
e la marmaglia dietro di lui a gridargli scemo scemo.
E correva e correva più smanioso, per essere più solo,
più lontano.
Lhanno chiuso dissero un giorno unaltra
volta.
Non è uscito più da quella volta.
Quando e dove sia morto non lo so. Ora voglio immaginarlo in qualche
luogo, su strade lunghe e ombrose, che corre dietro un cerchio tutto
il giorno, scalzo, sudato, ma senza lossessione, senza bestemmiare
la sua sorte.
Anni sessanta. Lalbum delle foto.
Mattini destate così e così, si andava al mare
con il motorino; lunghe sere così e così a raccontarsi
troppe storie; pomeriggi così e così, il tabacco si
essiccava al sole; si stompava il ghiaccio per la granita di limone.
E fu tra una sera e una notte così e così che gli
americani si presero la luna. Si chiamavano Edwin Aldrin, Michael
Collins, Neil Armstrong. La navicella si chiamava Aquila ma somigliava
a un ragno.
Per noi allora gli americani erano Tex Willer e John Wayne; lAmerica
era la loro fierezza e la loro spavalderia, era la loro immortalità
di eroi, la nostra fantasia.
LAmerica era e rimaneva questo anche se avevamo scoperto che
gli americani muoiono come tutti gli altri quel giorno di novembre
che a Dallas assassinarono John Kennedy e sul vestito bianco di
Jacqueline si aprì una macchia di sangue, come una rosa.
E ci eravamo chiesti increduli e stupiti come mai John Wayne non
lo impedì con uno dei suoi gesti rapidi, decisi, precisi,
come un agguato di tigre.
E allora quella notte gli americani si presero la luna, e il bambino
così e così che ogni tanto si incantava a guardarla,
per qualche minuto sperò che i russi che con la loro sonda
si trovavano a sedici chilometri di distanza riuscissero in qualche
modo a fermarli, riuscissero in qualche modo a salvarla.
Ma il ragno si posò lentamente sulla terra scura. Al bambino
sembrò un trullo solitario, una tenda nel deserto. Il televisore
ogni tanto rigava, frusciava, confondendo quel fruscìo col
frinire dei grilli impazziti. Però la voce si sentì
comunque chiara, la voce alterata dallemozione di Tito Stagno
che gridava: ha toccato, ha toccato. Da Houston Ruggero Orlando
replicò incazzato: non ha toccato, Stagno, non ha toccato.
Qui risulta che manchino ancora dieci metri.
Ma ormai. Che cosa potevano essere, ormai, dieci metri più,
dieci meno. Quella notte gli americani si erano presi la luna.
Erano estati così e così le estati di quegli anni.
Erano estati di ritorni di gente così e così andata
via per le grandi città dellalta Italia, per la Svizzera,
il Belgio, la Germania. Quelli del Nord ritornavano con una Seicento
e un italiano strano. Ma era gente così e così. Come
noi rimasti qui. Così e così.
Il ragno era sempre lì, immobile, sulla luna. Poi a un certo
punto si aprì un portello, spuntò una scaletta. Armstrong
si fermò sulla piazzola come un uomo si ferma sul pianerottolo
delle scale della sua casa. Si guardò intorno come si guarda
intorno un uomo uscendo da casa. Poi scese, lentamente.
Allora il bambino si chiese che cosa potesse pensare quelluomo,
sulla luna.
E come fosse il tempo, sulla luna. Se facesse freddo o caldo, se
unora durasse unora o se durasse di meno o se durasse
di più.
Luomo continuò a scendere. Posò il piede sul
suolo della luna. Si vide unorma enorme, rugosa, profonda.
Ballonzolò leggero come un grande orso bianco di peluche.
Noi eravamo tutti lì, gli occhi trafitti dagli spilli del
sonno, a guardare luomo orso bianco vagolare senza peso nel
mare della Tranquillità. E non fu più un uomo, allora,
Neil Armstrong. Non si può essere più un uomo
pensò il bambino quando si è così vicini
a Dio.
Unintera strada si era radunata intorno ad un televisore radiomarelli.
E una vecchia donna diceva: non ci credete, è tutta una finzione,
non è vero niente, che i segreti del cielo nessun uomo potrà
conoscerli. Mai.
Ritrovammo questa frase molto tempo dopo in quel passo di Shakespeare
in cui Amleto dice ad Orazio: ci sono più cose in terra e
in cielo di quante non ne conosca la nostra filosofia.
Dopo che gli americani si presero la luna, le cose sulla terra restarono
più o meno comerano state fino a quella notte, fino
a quellestate. Con le ferite che avevano avuto: in Piazza
Venceslao, a Praga, il rogo di Jan Palach continuò a bruciare;
lo sbalordimento angoscioso per lomicidio di Ermanno Lavorini,
un ragazzino di dodici anni, non si attenuò. E con gli squarci
che si sarebbero aperti con il tritolo fatto esplodere alla Banca
Nazionale dellAgricoltura a Milano.
Ci consolammo un poco, quellanno, con il Milan che conquistò
la Coppa dei Campioni e con Felice Gimondi che vinse il Giro dItalia.
Nientaltro.
Ma gli americani sono sempre buoni, sono tutti come Tex Willer e
John Wayne. Per questo dopo essersi impossessati della luna, Armstrong,
Aldrin e Collins la restituirono a noi che eravamo rimasti a terra,
come sempre un po così e così, a guardare tutto
come se fosse solo un film. Ce la restituirono comera sempre
stata: immobile, silenziosa, sospesa, incantante. E sola. Stupendamente
sola. Una sineddoche del cosmo. Rappresentazione dellirrappresentabile.
Un ponte gettato tra il reale e lirreale.
Ci restituirono quella luna che è reverie, melanconia, metafora
di un desiderio inappagato, inappagabile, simbolo di ciò
che non si può raggiungere, che non si può avere.
Che non può avere la bambina che vorrebbe portarla a dormire
con sé, né luomo di Borges che nel declamare
lultimo verso del manoscritto in cui pensava di aver cifrato
luniverso, si accorge stupito di essersi scordato della luna.
Ma quando quella notte si disse che, comunque, era chiaro che sulla
luna non ci fosse nessuna forma di vita, luomo che impastava
santomaselli di creta, statuette di San Tommaso che poi vendeva
nelle fiere e nelle feste patronali, protestò. E raccontò
una storia. Disse: bisogna innanzitutto sapere che gli abitanti
della luna non nascono da donne, ma da uomini. Si sposano tra uomini
e di donne non conoscono neppure il nome. Poi bisogna sapere che
quando luomo si fa vecchio non muore ma si dissolve e diventa
aria. Mangiano il fumo che esala da un arrosto di rane e bevono
aria spremuta che diventa rugiada. Hanno occhi che uno può
togliere quando vuole per farli riposare, e orecchie di foglie di
platano. Nella reggia cè uno specchio sopra un pozzo
non molto profondo. Se uno guarda nello specchio può vedere
tutte le città come se ci volasse sopra; se invece scende
nel pozzo può sentire ogni cosa che si dice sulla terra,
qui da noi. Quindi, aggiunse, non gridate. Ci fu chi lo guardò
a boccaperta e chi si mise a ridere. Come faceva il bambino, allora,
a sapere che questa era La storia vera di Luciano di
Samosata?
Anche la luna quella notte di luglio era così e così,
vista da qui: velata da unaureola di caldo, offuscata. Sembrava
unaltra bestia sulle case da aggiungere al bestiario di Bodini,
a quella favola che sa di sputi e minacce: al geco, alla tarantola,
allaggressiva cicala, alla civetta. E nel fondo di questesule
provincia noi non parlavamo quellestate no del
logos e dellamore. Forse sognavamo un altro tempo. Ma erano
sempre sogni così e così.
Estate del settantaquattro. Spesso mi veniva una domanda: che cosa
avranno pensato in quella notte del quattro di agosto, alla una
e un quarto, i passeggeri del treno che da Roma andava a Monaco
di Baviera. Che pensieri avranno avuto, in quella notte, mentre
percorrevano la galleria più lunga dEuropa, quella
del tratto Firenze-Bologna, quando la bomba sventrò una carrozza
dellItalicus.
Che cosa avranno pensato? E che storie cerano in quel treno,
che memorie, quali affetti, quali affanni, quali amori, nel caldo
dormiveglia, nellodore acre di corpi e di ferraglia?
Erano anni di paure, di trame, di grovigli. Erano anni di sconvolgimenti
politici e sociali. Anni di schegge impazzite, torbidi disegni.
Non si riusciva a capire, non si riusciva a sapere da che parte
stessimo andando, quali destini individuali e collettivi stessimo
costruendo.
Poco più di due mesi prima, il ventotto maggio, unaltra
bomba era esplosa a Brescia, in Piazza della Loggia.
Erano anni di chiaroscuro, anni di confine, anni da dimenticare
con disperazione o da ricordare con malinconia. Forse sono stati
i migliori, forse i peggiori. Chi lo può dire. Sono stati
anni di grandi orizzonti ma senza direzione, anni che qualcuno sapeva
bene dove andare, anni che molti si facevano solo trascinare lungo
strade intricate, complicate, sconnesse. Anni Settanta: anni di
contraddizioni, di conflitti, di voglia di rivoluzione e distinti
di reazione.
La società industriale partorisce loperaio massa, immigrato,
meridionale, sradicato, lo lega alla catena di montaggio. Ma a Sanremo
vince loperaio crumiro di Celentano, il tipo che rinuncia
ad entrare in paradiso insieme a tutta la classe operaia per una
sera di sesso con la propria consorte.
Chi non lavora non fa lamore.
Sono stati anni di grandi fughe, di passioni, di evasioni dagli
schemi conformisti; sono stati anni di paura, di porte ben serrate,
gli anni di Arancia meccanica e della diossina a Severo,
e di Porci con le ali: coppia, sessualità, omosessualità,
dal punto di vista di Rocco e Antonia, adolescenti romani, piccolo-borghesi,
extraparlamentari.
Molti di noi lo hanno letto di nascosto nei bagni delle scuole superiori;
molti altri lo trovavano tra i libri del corso monografico delluniversità.
Sono stati anni di scritte sui muri, di parole violente, anni di
innamoramenti torbidi per Laura Antonelli.
Chi era ragazzo allora, ora ha ricordi fiochi: di un attentato a
Paolo VI, del matrimonio di Al Bano e Romina, del gelato che costava
trenta lire, di Carlos Monzon che abbatte Nino Benvenuti.
Chi aveva letà per scendere nelle piazze, per urlare
contro il padrone, chi sputava ai benpensanti e sventolava le bandiere
della rivoluzione, chi voleva scardinare il potere, ora ha cattedre
alluniversità, scrivanie nei grandi giornali, è
diventato direttore di qualcosa, pensa alla barca, al mercedes nuovo,
alla borsa.
Ma aveva, allora, un eskimo innocente.
Estate del settantaquattro. Unestate corrosa dal terrore.
Anche se del boato a noi, qui, arrivava solo uneco smorzata,
un riverbero del bagliore, attenuato dalla distanza e dai tempi
della storia che in qualche modo ci teneva al riparo dai mutamenti
vorticosi, dagli eventi per molti aspetti incomprensibili, per molti
aspetti incompresi tuttora.
Vivevamo ancora allombra di unaltra storia che in qualche
modo si confondeva col mito: la storia di un popolo di formiche.
Nel giugno del settantatré era morto Tommaso Fiore, e suo
figlio, Vittore, ne Il male è dentro di noi gli
scriveva queste parole dure e senza finzione, di tremenda disperazione
e di dolcissimo conforto, comè la vita a un distacco,
ad un forse temporaneo allontanarsi, gli scriveva: «Tommaso
Fiore guarda in faccia alla morte. / La Puglia oggi è triste:
/ Arrivederci, arrivederci».
La memoria è un teatro di ritorni. Volti e voci si affollano
sulla scena. Chi entra e chi esce. Pavese diceva: la sola cosa che
ci rende immortali è il ricordare e lessere ricordati.
Conobbi Vittore Fiore unestate, a Castro: in una di quelle
estati dalle notti senza fine, col tempo dai confini labili, imprecisi,
di belle compagnie senza unassenza, di pensieri e di progetti.
Vittore raccontava di lotte e di confino. E per me quelluomo
era un personaggio della storia, uno di quei giganti che si incontrano
nelle pagine dei libri.
Ci vedevamo ogni estate. Ma ad ogni estate mi accorgevo, incredulo
quasi, che il tempo passava anche per Vittore Fiore.
Lho rivisto lultima volta nel novantasette, durante
un convegno a Bari. Il morbo lo aveva stravolto. Lui Vittore
Fiore si muoveva a piccoli passi, lenti, come una bambolina.
Parlammo a lungo seduti sul divano della hall di un hotel. Lasciandoci
mi disse: non so se ci rivediamo. Salutami il cielo del Salento.
Io lo guardavo e mi tornavano in mente quei suoi versi: «Nella
trappola di questi anni cosa siamo diventati non so».
Estate del settantaquattro.
Venivamo dal referendum del 12 maggio sul divorzio. Non ricordo
molti particolari di quel dibattito. Ma due cose mi sono rimaste
nitide, precise. Un sacerdote. Uno che non indossò mai il
clergyman, che non andava al mare per non farsi vedere senza tunica.
Parroco di un paese del Basso Salento. Ricordo il suo discutere
sereno, pacato, con ragazzi che avevano quarantanni meno di
lui. Ricordo il suo credere in quello che diceva, il suo appellarsi
alla coscienza, al senso radicale dellindissolubilità
del matrimonio. Ricordo il suo carisma, la forza dellargomentazione,
il suo essere lontano da ogni campagna elettorale. Discuteva con
noi, che non avremmo votato, soltanto per il suo sentire la missione,
per una certa motivazione pedagogica. Perché gli faceva piacere.
Poi ricordo uninsegnante, una donna dal carattere dolce e
forte.
Una mattina entrò in classe, aprì un libro in silenzio,
lesse: «Il reverendo Wilej mi consigliò di non divorziare.
/ Per il bene dei bimbi, / e lo stesso consigliò a lui il
giudice Somers, / così restammo insieme fino alla fine. /
Ma due dei bimbi parteggiarono per lui / e due dei bimbi parteggiarono
per me. / I due che diedero ragione a lui mi biasimarono / e i due
che diedero ragione a me lo biasimarono, / e soffrirono ciascuno
per uno di noi. / E tutti si tormentarono per aver osato giudicarci
/ e si torturarono lanima perché non potevano stimare
/ lui e me allo stesso modo. / Ora, qualunque giardiniere sa che
le piante cresciute in cantina / o sotto le pietre, sono stente,
gialle e rattratte. / Nessuna madre lascerebbe succhiare al suo
bimbo / latte malato dal suo seno. / Eppure i preti e i giudici
consigliano di allevare la prole / dove non cè sole
ma soltanto crepuscolo, non calore, ma soltanto umido e gelo. /
I preti e i giudici!».
Richiuse il libro. Disse soltanto: si intitola La signora
Charles Blirs ed è una poesia che si trova nellAntologia
di Spoon River di Edgard Lee Masters. La traduzione è di
Fernanda Pivano.
Estate del settantaquattro.
Adesso mi ritorna la domanda: che cosa avranno pensato quella notte
i passeggeri del treno che andava verso la stazione di San Benedetto
Val di Sambro?
Poi a un certo punto si pensò che non fosse più tempo
di rivoluzioni. Avvoltolammo tutte le bandiere, smobilitammo ogni
barricata. Niente più cortei, né rabbia, né
assemblee. Solo qualche rapida, estemporanea opposizione.
Scoprimmo che era buono laperitivo col limone preso al tavolino
al bar del centro, e che lautunno poteva essere caldo di sole;
solo caldo di sole.
Eravamo cresciuti, diventati maturi. Allimprovviso. In un
giorno, un pomeriggio di maggio, quando attoniti, persi, guardammo
la scena del corpo di un uomo piegato nel bagagliaio di una Renault
4.
Fu quello il discrimine, la soglia del passaggio dagli anni Settanta
agli Ottanta.
Eravamo cresciuti. Si cresce così, probabilmente, così:
in un istante che folgora. Non per il tempo che passa.
Allora si cominciò a fare un po il conto di quanto
era costato, di quanto si era avuto. E il conto ci diede un risultato
spietato, un interrogativo inquietante: tutto questo per cosa?
Vennero estati belle di amori, di passioni, di notti sconfinate
e albe in riva al mare.
I quadri di quelletà ora ci guardano dai muri, ci riportano
storie di dolcezze e furori.
Noi siamo invecchiati; loro sono sempre uguali. Dispettosamente
uguali.
Chi è intorno ai quaranta ha avuto figli in quegli anni,
chiedendosi stupito come poteva accadere se ancora era figlio, forse
anche viziato, legato a nodo stretto alle camere, agli affetti,
alle canzoni di De Andrè, di Guccini e di Vecchioni che lo
accompagnavano dappertutto, anche nelle notti di guardia sullaltana.
Cominciammo a chiudere certi pensieri nei cassetti. Leggemmo Un
uomo di Oriana Fallaci, la storia di Alexandros Panagulis
scritta da una donna innamorata.
Zi, zi, zi! Vive, vive, vive! Vi ricordate? Ricordate gli ultimi
passi? Panagulis finisce nel pozzo dove vengono gettati tutti coloro
che vorrebbero cambiare il mondo, i solitari incompresi, i disubbidienti,
i poeti, gli eroi delle fiabe insensate che però servono
a dare un senso alla vita.
Tra le innumerevoli cose che devo a una persona cè
anche il regalo di questo libro.
Con limmagine del cadavere di Moro in via Caetani si va negli
anni Ottanta.
Con quella di uno studente piccolo piccolo che arresta una colonna
di carri armati in Piazza Tienanmen a Pechino quegli anni si concludono.
Quanti altri ragazzi cerano dietro a quel ragazzo?
Cifre ufficiose dicono più di settemila.
Flash. Echi di cronaca. Ritagli di giornale. Gli anni Ottanta sono
ormai memoria di immagini e parole.
Nella squadra del carcere lui faceva il portiere. E per un intero
campionato era rimasto imbattuto. Una volta soltanto diceva
una volta soltanto, quando laltro tirò il calcio
di rigore, il pallone andò in porta. Ma la direzione lui
laveva intuita. Sera buttato dalla parte giusta. Solo
che il pallone prese uno strano effetto: quando arrivò sul
palmo della mano gli si rivoltò, scivolò tra le dita.
Dopo molti anni ancora non riusciva a spiegarsi quelleffetto.
Forse a rassegnarsi a quelleffetto.
Così raccontava ogni volta che si parlava di calcio con lui.
Nellestate dellottantadue, quando si giocarono i mondiali,
quelluomo era il centro della piazza, il Mister, il principe
dei bar. Molti di noi allora avevano ventanni, o su o giù
di lì.
Mi sembra che sia stato Paul Nizan a dire da qualche parte: avevo
ventanni e non permetterò mai a nessuno di dire che
questa è la più bella età della vita.
Allora: avevamo ventanni, ed era estate.
A ventanni lestate è assoluta e sfuggente; è
piena ed è vuota; è tutto ed è niente; è
essenziale ed è stupida; è un giorno e una notte;
è triste ed allegra; pensosa e incosciente.
A ventanni lestate è una folla di amici, lestate
è una solitudine paurosa, è sempre vincere e perdere
qualcosa, passioni che sfioriscono e appassiscono una sera, ragazze
che passano come una canzone.
Lestate a ventanni è un falò sulla spiaggia.
La cenere che resta.
Avevamo ventanni ventanni fa - e poca storia
alle spalle, e molta storia davanti: tutta quella storia che trasforma
in uomo un ragazzo, che incide e decide ciascun giorno, e il destino.
Forse eravamo incoscienti. Forse eravamo distratti. Forse troppo
distanti da tutto quello che era accaduto in Italia negli anni Settanta,
che ancor accadeva sul cominciare degli anni Ottanta.
Forse eravamo fin troppo riparati dalla concretezza di un pensiero
meridiano, che poi sarebbe stato anche teorizzato, troppo presi
dallandare lenti, dallindugiare con lo sguardo sui frontoni
delle chiese barocche, dal contemplare con la mente limmobile
luna dei Borboni. Mentre su un altro cielo esplodeva il mistero
di un DC 9.
Furono anni di riflusso, stagioni di ricerca di una vuota esteriorità.
Uscimmo per strada e ci ritrovammo tra la folla shoppingante. Cominciò
in quegli anni a maturare una situazione che adesso ci imprigiona
nel traffico impazzito, nellonda umana travolgente, arginata
solamente dai cassonetti traboccanti lungo i marciapiedi.
Nellestate dellottantadue si giocavano i mondiali. Accadde
in quellestate che mentre si leggeva il Corriere dello Sport,
un amico mi parlò di Leopold Bloom.
Quasi tutti conoscono la storia dellagente di commercio che,
fra le otto del mattino e le due della notte del 16 giugno 1904,
vive la sua Odissea per le strade e nei locali di Dublino. In quella
giornata qualcuno muore, qualcuno nasce. La moglie tradì
Leopold. Lui incontra Stephen Dedalus.
In quegli anni morì Umberto di Savoia. Prima di morire chiese
di rivedere il suo Paese per lultima volta.
Pertini disse: per me può tornare. Però bisognava
cambiare la Costituzione.
Il re morì in esilio, con la dignità di un vero re.
Mentre cerano passeggeri che salivano e scendevano dai treni
con bagagli carichi di tritolo, noi avevamo paura che un re esiliato
e morente dicesse addio allantica patria. Quasi come in una
fiaba.
Ma la fiaba per gli italiani in patria e allestero, fu la
vittoria dellItalia sulla Germania per 3 a 1.
Così luomo che aveva fatto il portiere nella squadra
del carcere finalmente vinse la Coppa del Mondo.
Zoff va bene, sì, diceva, Zoff va bene, sì, diceva
quella sera dellundici di luglio seduto al centro del bar.
Zoff va bene. Però devi fare il portiere nella squadra del
carcere per capire se vali; devi fare il portiere innocente per
quindici anni, tre mesi e due giorni, per capire se sai davvero
parare.
Zoff va bene, sì. Ma avrei voluto vederlo davanti a quel
rigore, col pallone che prese quello stramaledetto effetto: dal
palmo della mano sinfilò nellincavo tra il pollice
e lindice, scivolò sul dorso, mulinò sulla linea
di porta tirata strascicando il piede da un palo allaltro,
andò ad impigliarsi nella rete, allangolo.
Quando cominciò il carosello delle auto, luomo che
aveva fatto il portiere innocente per quindici anni, tre mesi e
due giorni nella squadra del carcere, si buttò la bandiera
sulle spalle e si avviò verso casa.
Sulla bandiera, a caratteri grandi e azzurri, trasversalmente ai
tre colori, cera scritto: Grazie Italia.
Tante cose son cambiate col passare degli anni. Sono passate le
ansie, le attese, le estati, gli inverni, le idee, le passioni.
E i sogni: quelli ad occhi chiusi e quelli ad occhi aperti.
Tante cose son cambiate nel corso del viaggio.
Come in una poesia di Giorgio Caproni, qualcuno è salito
sul treno, qualcuno è sceso. E ad ogni fermata ci siamo detti
benvenuto o arrivederci o addio.
Qualcuno ha sistemato i bagagli e ha preso posto una sera. Qualcuno
è sceso allalba, in silenzio, senza fare rumore, per
non disturbare lintorpidito dormiveglia di chi continua ad
andare.
Fuori dal finestrino mutano i paesaggi, continuamente.
Restano uguali solo i bui delle gallerie.
Nello scompartimento i discorsi si intrecciano, come i destini.
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