Dicembre 2001

ANNI E FALSE CRONACHE

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Passaggi di stagione
Antonio Errico
 
 

 

 

 

Devi fare
il portiere nella squadra del
carcere per capire se vali; devi fare il portiere innocente per quindici anni, tre mesi e due giorni...

 

Quelli che ora hanno tra i quaranta e i cinquant’anni, quell’età dolceamara, sospesa, altalenante, che mescola il sapore del presente e del passato, che come in un dormiveglia confonde volti e voci, quelli che hanno i capelli quasi tutti bianchi, che hanno storie fatte di giorni veri e pieni, avevano anche meno di dieci anni quando Luigi Tenco si sparò un colpo alla tempia tra i lustrini e i fiori di Sanremo.
Quelli che adesso dormono poco, quelli che non hanno imparato a rinunciare, quelli che pensano sempre che sia un gioco alzarsi ogni mattina, prendere il caffè, sono figli di anni poveri e felici, hanno masticato liquirizia a forma di pesciolini, hanno preso e dato botte per la strada, hanno letto tutto Pavese in un’estate.
Quelli che qualcuno dice che adesso sono arrivati, che si sono realizzati nel lavoro e nella vita e che si sentono, invece, sempre a un punto di partenza, sempre precari, eterni studenti, quelli che da bambini non avevano il televisore, non avevano il frigorifero né il ciclomotore, che si sentono ridicoli ad usare un cellulare, che si sono innamorati sempre senza pensare, sono nati quando il Sud si spopolava per cercare lavoro nel Nord industriale.
Quelli che sono sempre incerti sul da farsi anche se ostentano sicurezza e decisione, quelli che dietro la scrivania di un giornale, tra i banchi di una scuola, nelle corsie di un ospedale, cercano il senso profondo, una poesia, che li spinga a riprendere, a continuare, avevano piedi sporchi di terra e tasche piene di sogni quella sera che gli americani si presero la luna.
Quelli che fanno i manager o che con due lauree sono in lista d’attesa al collocamento, quelli che fanno i poeti, i teatranti, i free lance, i rappresentanti di tutto e di niente, sono quelli che si fermano per dare un passaggio sapendo com’è quando si resta a terra.
Quelli che hanno imparato a contare le assenze. Quelli che ogni sera fanno i bilanci. Quelli che fanno gli equilibristi sugli argini dei baratri che gli si aprono davanti. Quelli che nascondono la nostalgia per darsi un tono. Quelli lì.


Io ora ricordo, e non ricordo. E’ come una foschia; è una memoria incerta, tremolante, distratta, tra sonno e veglia; è come i souvenir di quell’età, con la neve e l’acqua che copriva le città nell’ampolla di vetro: Piazza San Marco, il Duomo di Milano. E’ come la cartella di cartone, l’odore di “Serraglio” fumate dal maestro – metteva da parte i pacchetti per insegnarci la decina – , le briciole sul davanzale alla ricreazione per far mangiare i passeri. Nessuno di quella classe è diventato cacciatore. Spesso vado a salutarlo, al cimitero. Gli devo tutto quel nulla che so.
Io ora ricordo, e non ricordo. E’ come l’odore di pane di casa, come l’acqua di fontana dopo sfrenati pomeriggi di pallone, il sapore di melagrane, l’odore del mosto, i fumetti di Capitan Miki, di Tex Willer, di Black Macigno, come la febbre che viene la sera dopo aver letto, in un pomeriggio, “La freccia nera”.
Dicono le cronache di costume che la sera del 27 gennaio del sessantasette, il cuore di trentamilioni di italiani batteva davanti al televisore. Il mio cuore no. Io non avevo ancora il televisore. Seppi di Luigi Tenco la mattina dopo, dalla radio.
C’erano pochi televisori in quegli anni, in paese. Ce n’era uno in un bar; un altro nella sezione della Democrazia Cristiana. Scudocrociato e televisione.
Poi c’era un cinema. Gelido. Entravamo in venti con lo stesso biglietto. Uno pagava, gli altri seguivano la scia. Si aspettava che la “maschera” nello sgabuzzino trasformato in biglietteria si annebbiasse per il fumo delle nazionali senza filtro e per il vino. Un uomo con la stampella e i grandi baffi bianchi vendeva patatine. Lo stesso film tre, anche quattro volte. “Per un pugno di dollari”, “Per un dollaro in più” di Sergio Leone imparati a memoria.
Seppi di Tenco, poi andai a scuola. Ma quel giorno, e per molti giorni dopo, a mio padre feci comprare tutti i giornali. Mio padre mi diceva sempre: se guadagni dieci lire, con quattro compra il pane, quattro mettile da parte, con due compra il giornale.
Leggevo tutti gli articoli su Tenco ma mi fermavo soprattutto a guardare quella sua foto che stringeva l’urlo del ritornello: ciao amore ciao. Gli occhi chiusi. Il capo reclinato. La rabbia imprigionata dentro i pugni serrati.
Forse cercavo di capire se quell’urlo nascondesse la premeditazione del suicidio; forse mi chiedevo se avesse urlato quelle parole puntandosi alla tempia la Walter Ppk 7.65. Non lo so.
Perché io ora ricordo, e non ricordo.
Ricordo che a Sanremo quell’anno vinse Claudio Villa. Ricordo “Pietre” di Antoine. Ricordo le figurine dei calciatori e i pomeriggi passati a giocarsele battendo le mani sulle soglie di marmo.
Ricordo che molta gente andava via dal paese per Milano, per Torino: contadini che si facevano operai, che si facevano carabinieri, poliziotti, sopraffatti dal bisogno di un lavoro sicuro, sfiancati dal ricominciare dopo ogni grandinata.
La canzone di Tenco parlava di loro: del loro andare via, della loro nostalgia.
Anni strani, di grosse contraddizioni. A grandi passi si avvicinava il Sessantotto: il Maggio francese, i carri armati sovietici a Praga, l’esplosione studentesca, gli attacchi dei celerini – da una parte le spranghe, dall’altra i manganelli – ; Pasolini schierato coi poliziotti: con quei ragazzi che venivano dalle casupole, dai bassi sulle cloache, vestiti come pagliacci con stoffa ruvida che puzzava di rancio e fureria. E popolo.
La canzone di Tenco parlava anche di loro.
Non ho mai pensato che Tenco si sia ucciso per una canzone. Non lo pensai nemmeno allora, col mio pensiero di bambino. Gesti così grandi, così spaventosamente illimitati, hanno radici negli abissi della mente.

Dice Albert Camus che «un gesto come questo si prepara nel silenzio del cuore, allo stesso modo che una grande opera. L’uomo stesso lo ignora, ma una sera si spara o si annega».
Io ora ricordo, e non ricordo.
Ricordo “Io tu e le rose” di Orietta Berti.
Sul biglietto trovato all’Hotel Savoy, Tenco aveva scritto: «Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda “Io tu e le rose” in finale e una commissione che seleziona “La rivoluzione”. Spero serva a chiarire le idee a qualcuno».
Ricordo che Tenco cantava la sua canzone in coppia con Dalida.
Ricordo che allora si fece l’ipotesi che Dalida avesse potuto trovarsi con lui nell’attimo in cui premette il grilletto, senza riuscire a impedirlo.
Anche Dalida è morta suicida.
Ho visitato la sua tomba nel cimitero di Montmartre. Ho pensato che imperscrutabili congiunture annodano, a volte, le esistenze.
Mi sono chiesto quanto abbia pesato sul suo destino il suicidio di Tenco, se alla fine, all’ultimo istante, abbia pensato a quel ragazzo di ventotto anni – una passione? – che una sera si sostituì a Dio impossessandosi del potere di vita e di morte.
Anni nuovi, quegli anni. Anni di mutamenti, di tensioni,
Quattro mesi dopo la morte di Tenco uscì la “Lettera a una professoressa” dei ragazzi di Lorenzo Milani, priore di Barbiana. Un documento potente, dirompente. Gianni e Pierino, le classi sociali, il possesso della lingua per la conquista dell’uguaglianza, l’idea di una scuola di tutti per tutti.
Anche Tenco, a suo modo, con una canzone del sessantadue, “Cara maestra”, aveva parlato di differenze, di disuguaglianze che maturano e si perpetuano nei luoghi e con le forme del Potere.
Quel che ora può sembrare romanticheria, a quei tempi aveva la volontà e il senso della protesta, della lotta per una società più giusta.
Lorenzo Milani morì un mese dopo la pubblicazione della “Lettera”, in giugno.

Io ora ricordo, e non ricordo.
Non ricordo nessun boom, nessun miracolo economico. Ricordo molte difficoltà, molte speranze.
Ricordo tante altre cose che non dico perché sono solo fatti miei.
Poi: ricordo un uomo – il nome si è sottratto alla memoria – che correva dietro un cerchio di ruota tutto il giorno.
Ricordo la sua magrezza, il viso scarno, la barba a chiazze quasi tutta bianca.
Faccia di capra, diceva la marmaglia.
Correva e bestemmiava.
Non so perché corresse tutto il giorno, dietro il cerchio strambo, rugginoso, verso dove corresse, senza requie, sempre scalzo, coi vestiti a pezze, che fosse estate o inverno, che lucesse raggio di sole o luna.
Non so dove dormiva, se mangiava, se ne avessimo noi – se io ho avuto – una pietà, una paura.
Non ricordo.
Ogni tanto mancava dal paese. Si diceva: l’hanno chiuso. Riappariva. Più magro. Più rabbioso. Correva dietro il cerchio e la marmaglia dietro di lui a gridargli scemo scemo.
E correva e correva più smanioso, per essere più solo, più lontano.
L’hanno chiuso – dissero un giorno – un’altra volta.
Non è uscito più da quella volta.
Quando e dove sia morto non lo so. Ora voglio immaginarlo in qualche luogo, su strade lunghe e ombrose, che corre dietro un cerchio tutto il giorno, scalzo, sudato, ma senza l’ossessione, senza bestemmiare la sua sorte.

Anni sessanta. L’album delle foto.
Mattini d’estate così e così, si andava al mare con il motorino; lunghe sere così e così a raccontarsi troppe storie; pomeriggi così e così, il tabacco si essiccava al sole; si stompava il ghiaccio per la granita di limone. E fu tra una sera e una notte così e così che gli americani si presero la luna. Si chiamavano Edwin Aldrin, Michael Collins, Neil Armstrong. La navicella si chiamava Aquila ma somigliava a un ragno.
Per noi allora gli americani erano Tex Willer e John Wayne; l’America era la loro fierezza e la loro spavalderia, era la loro immortalità di eroi, la nostra fantasia.
L’America era e rimaneva questo anche se avevamo scoperto che gli americani muoiono come tutti gli altri quel giorno di novembre che a Dallas assassinarono John Kennedy e sul vestito bianco di Jacqueline si aprì una macchia di sangue, come una rosa. E ci eravamo chiesti increduli e stupiti come mai John Wayne non lo impedì con uno dei suoi gesti rapidi, decisi, precisi, come un agguato di tigre.
E allora quella notte gli americani si presero la luna, e il bambino così e così che ogni tanto si incantava a guardarla, per qualche minuto sperò che i russi che con la loro sonda si trovavano a sedici chilometri di distanza riuscissero in qualche modo a fermarli, riuscissero in qualche modo a salvarla.
Ma il ragno si posò lentamente sulla terra scura. Al bambino sembrò un trullo solitario, una tenda nel deserto. Il televisore ogni tanto rigava, frusciava, confondendo quel fruscìo col frinire dei grilli impazziti. Però la voce si sentì comunque chiara, la voce alterata dall’emozione di Tito Stagno che gridava: ha toccato, ha toccato. Da Houston Ruggero Orlando replicò incazzato: non ha toccato, Stagno, non ha toccato. Qui risulta che manchino ancora dieci metri.
Ma ormai. Che cosa potevano essere, ormai, dieci metri più, dieci meno. Quella notte gli americani si erano presi la luna.
Erano estati così e così le estati di quegli anni. Erano estati di ritorni di gente così e così andata via per le grandi città dell’alta Italia, per la Svizzera, il Belgio, la Germania. Quelli del Nord ritornavano con una Seicento e un italiano strano. Ma era gente così e così. Come noi rimasti qui. Così e così.
Il ragno era sempre lì, immobile, sulla luna. Poi a un certo punto si aprì un portello, spuntò una scaletta. Armstrong si fermò sulla piazzola come un uomo si ferma sul pianerottolo delle scale della sua casa. Si guardò intorno come si guarda intorno un uomo uscendo da casa. Poi scese, lentamente.
Allora il bambino si chiese che cosa potesse pensare quell’uomo, sulla luna.
E come fosse il tempo, sulla luna. Se facesse freddo o caldo, se un’ora durasse un’ora o se durasse di meno o se durasse di più.
L’uomo continuò a scendere. Posò il piede sul suolo della luna. Si vide un’orma enorme, rugosa, profonda. Ballonzolò leggero come un grande orso bianco di peluche.
Noi eravamo tutti lì, gli occhi trafitti dagli spilli del sonno, a guardare l’uomo orso bianco vagolare senza peso nel mare della Tranquillità. E non fu più un uomo, allora, Neil Armstrong. Non si può essere più un uomo – pensò il bambino – quando si è così vicini a Dio.
Un’intera strada si era radunata intorno ad un televisore radiomarelli. E una vecchia donna diceva: non ci credete, è tutta una finzione, non è vero niente, che i segreti del cielo nessun uomo potrà conoscerli. Mai.
Ritrovammo questa frase molto tempo dopo in quel passo di Shakespeare in cui Amleto dice ad Orazio: ci sono più cose in terra e in cielo di quante non ne conosca la nostra filosofia.
Dopo che gli americani si presero la luna, le cose sulla terra restarono più o meno com’erano state fino a quella notte, fino a quell’estate. Con le ferite che avevano avuto: in Piazza Venceslao, a Praga, il rogo di Jan Palach continuò a bruciare; lo sbalordimento angoscioso per l’omicidio di Ermanno Lavorini, un ragazzino di dodici anni, non si attenuò. E con gli squarci che si sarebbero aperti con il tritolo fatto esplodere alla Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano.
Ci consolammo un poco, quell’anno, con il Milan che conquistò la Coppa dei Campioni e con Felice Gimondi che vinse il Giro d’Italia. Nient’altro.
Ma gli americani sono sempre buoni, sono tutti come Tex Willer e John Wayne. Per questo dopo essersi impossessati della luna, Armstrong, Aldrin e Collins la restituirono a noi che eravamo rimasti a terra, come sempre un po’ così e così, a guardare tutto come se fosse solo un film. Ce la restituirono com’era sempre stata: immobile, silenziosa, sospesa, incantante. E sola. Stupendamente sola. Una sineddoche del cosmo. Rappresentazione dell’irrappresentabile. Un ponte gettato tra il reale e l’irreale.
Ci restituirono quella luna che è reverie, melanconia, metafora di un desiderio inappagato, inappagabile, simbolo di ciò che non si può raggiungere, che non si può avere. Che non può avere la bambina che vorrebbe portarla a dormire con sé, né l’uomo di Borges che nel declamare l’ultimo verso del manoscritto in cui pensava di aver cifrato l’universo, si accorge stupito di essersi scordato della luna.
Ma quando quella notte si disse che, comunque, era chiaro che sulla luna non ci fosse nessuna forma di vita, l’uomo che impastava santomaselli di creta, statuette di San Tommaso che poi vendeva nelle fiere e nelle feste patronali, protestò. E raccontò una storia. Disse: bisogna innanzitutto sapere che gli abitanti della luna non nascono da donne, ma da uomini. Si sposano tra uomini e di donne non conoscono neppure il nome. Poi bisogna sapere che quando l’uomo si fa vecchio non muore ma si dissolve e diventa aria. Mangiano il fumo che esala da un arrosto di rane e bevono aria spremuta che diventa rugiada. Hanno occhi che uno può togliere quando vuole per farli riposare, e orecchie di foglie di platano. Nella reggia c’è uno specchio sopra un pozzo non molto profondo. Se uno guarda nello specchio può vedere tutte le città come se ci volasse sopra; se invece scende nel pozzo può sentire ogni cosa che si dice sulla terra, qui da noi. Quindi, aggiunse, non gridate. Ci fu chi lo guardò a boccaperta e chi si mise a ridere. Come faceva il bambino, allora, a sapere che questa era “La storia vera” di Luciano di Samosata?
Anche la luna quella notte di luglio era così e così, vista da qui: velata da un’aureola di caldo, offuscata. Sembrava un’altra bestia sulle case da aggiungere al bestiario di Bodini, a quella favola che sa di sputi e minacce: al geco, alla tarantola, all’aggressiva cicala, alla civetta. E nel fondo di quest’esule provincia noi non parlavamo – quell’estate no – del logos e dell’amore. Forse sognavamo un altro tempo. Ma erano sempre sogni così e così.
Estate del settantaquattro. Spesso mi veniva una domanda: che cosa avranno pensato in quella notte del quattro di agosto, alla una e un quarto, i passeggeri del treno che da Roma andava a Monaco di Baviera. Che pensieri avranno avuto, in quella notte, mentre percorrevano la galleria più lunga d’Europa, quella del tratto Firenze-Bologna, quando la bomba sventrò una carrozza dell’Italicus.

Che cosa avranno pensato? E che storie c’erano in quel treno, che memorie, quali affetti, quali affanni, quali amori, nel caldo dormiveglia, nell’odore acre di corpi e di ferraglia?
Erano anni di paure, di trame, di grovigli. Erano anni di sconvolgimenti politici e sociali. Anni di schegge impazzite, torbidi disegni. Non si riusciva a capire, non si riusciva a sapere da che parte stessimo andando, quali destini individuali e collettivi stessimo costruendo.
Poco più di due mesi prima, il ventotto maggio, un’altra bomba era esplosa a Brescia, in Piazza della Loggia.
Erano anni di chiaroscuro, anni di confine, anni da dimenticare con disperazione o da ricordare con malinconia. Forse sono stati i migliori, forse i peggiori. Chi lo può dire. Sono stati anni di grandi orizzonti ma senza direzione, anni che qualcuno sapeva bene dove andare, anni che molti si facevano solo trascinare lungo strade intricate, complicate, sconnesse. Anni Settanta: anni di contraddizioni, di conflitti, di voglia di rivoluzione e d’istinti di reazione.
La società industriale partorisce l’operaio massa, immigrato, meridionale, sradicato, lo lega alla catena di montaggio. Ma a Sanremo vince l’operaio crumiro di Celentano, il tipo che rinuncia ad entrare in paradiso insieme a tutta la classe operaia per una sera di sesso con la propria consorte.
“Chi non lavora non fa l’amore”.
Sono stati anni di grandi fughe, di passioni, di evasioni dagli schemi conformisti; sono stati anni di paura, di porte ben serrate, gli anni di “Arancia meccanica” e della diossina a Severo, e di “Porci con le ali”: coppia, sessualità, omosessualità, dal punto di vista di Rocco e Antonia, adolescenti romani, piccolo-borghesi, extraparlamentari.
Molti di noi lo hanno letto di nascosto nei bagni delle scuole superiori; molti altri lo trovavano tra i libri del corso monografico dell’università. Sono stati anni di scritte sui muri, di parole violente, anni di innamoramenti torbidi per Laura Antonelli.
Chi era ragazzo allora, ora ha ricordi fiochi: di un attentato a Paolo VI, del matrimonio di Al Bano e Romina, del gelato che costava trenta lire, di Carlos Monzon che abbatte Nino Benvenuti.
Chi aveva l’età per scendere nelle piazze, per urlare contro il padrone, chi sputava ai benpensanti e sventolava le bandiere della rivoluzione, chi voleva scardinare il potere, ora ha cattedre all’università, scrivanie nei grandi giornali, è diventato direttore di qualcosa, pensa alla barca, al mercedes nuovo, alla borsa.
Ma aveva, allora, un eskimo innocente.

Estate del settantaquattro. Un’estate corrosa dal terrore. Anche se del boato a noi, qui, arrivava solo un’eco smorzata, un riverbero del bagliore, attenuato dalla distanza e dai tempi della storia che in qualche modo ci teneva al riparo dai mutamenti vorticosi, dagli eventi per molti aspetti incomprensibili, per molti aspetti incompresi tutt’ora.
Vivevamo ancora all’ombra di un’altra storia che in qualche modo si confondeva col mito: la storia di un popolo di formiche.
Nel giugno del settantatré era morto Tommaso Fiore, e suo figlio, Vittore, ne “Il male è dentro di noi” gli scriveva queste parole dure e senza finzione, di tremenda disperazione e di dolcissimo conforto, com’è la vita a un distacco, ad un forse temporaneo allontanarsi, gli scriveva: «Tommaso Fiore guarda in faccia alla morte. / La Puglia oggi è triste: / Arrivederci, arrivederci».
La memoria è un teatro di ritorni. Volti e voci si affollano sulla scena. Chi entra e chi esce. Pavese diceva: la sola cosa che ci rende immortali è il ricordare e l’essere ricordati.
Conobbi Vittore Fiore un’estate, a Castro: in una di quelle estati dalle notti senza fine, col tempo dai confini labili, imprecisi, di belle compagnie senza un’assenza, di pensieri e di progetti.
Vittore raccontava di lotte e di confino. E per me quell’uomo era un personaggio della storia, uno di quei giganti che si incontrano nelle pagine dei libri.
Ci vedevamo ogni estate. Ma ad ogni estate mi accorgevo, incredulo quasi, che il tempo passava anche per Vittore Fiore.
L’ho rivisto l’ultima volta nel novantasette, durante un convegno a Bari. Il morbo lo aveva stravolto. Lui – Vittore Fiore – si muoveva a piccoli passi, lenti, come una bambolina.
Parlammo a lungo seduti sul divano della hall di un hotel. Lasciandoci mi disse: non so se ci rivediamo. Salutami il cielo del Salento. Io lo guardavo e mi tornavano in mente quei suoi versi: «Nella trappola di questi anni cosa siamo diventati non so».
Estate del settantaquattro.
Venivamo dal referendum del 12 maggio sul divorzio. Non ricordo molti particolari di quel dibattito. Ma due cose mi sono rimaste nitide, precise. Un sacerdote. Uno che non indossò mai il clergyman, che non andava al mare per non farsi vedere senza tunica. Parroco di un paese del Basso Salento. Ricordo il suo discutere sereno, pacato, con ragazzi che avevano quarant’anni meno di lui. Ricordo il suo credere in quello che diceva, il suo appellarsi alla coscienza, al senso radicale dell’indissolubilità del matrimonio. Ricordo il suo carisma, la forza dell’argomentazione, il suo essere lontano da ogni campagna elettorale. Discuteva con noi, che non avremmo votato, soltanto per il suo sentire la missione, per una certa motivazione pedagogica. Perché gli faceva piacere.
Poi ricordo un’insegnante, una donna dal carattere dolce e forte.
Una mattina entrò in classe, aprì un libro in silenzio, lesse: «Il reverendo Wilej mi consigliò di non divorziare. / Per il bene dei bimbi, / e lo stesso consigliò a lui il giudice Somers, / così restammo insieme fino alla fine. / Ma due dei bimbi parteggiarono per lui / e due dei bimbi parteggiarono per me. / I due che diedero ragione a lui mi biasimarono / e i due che diedero ragione a me lo biasimarono, / e soffrirono ciascuno per uno di noi. / E tutti si tormentarono per aver osato giudicarci / e si torturarono l’anima perché non potevano stimare / lui e me allo stesso modo. / Ora, qualunque giardiniere sa che le piante cresciute in cantina / o sotto le pietre, sono stente, gialle e rattratte. / Nessuna madre lascerebbe succhiare al suo bimbo / latte malato dal suo seno. / Eppure i preti e i giudici consigliano di allevare la prole / dove non c’è sole ma soltanto crepuscolo, non calore, ma soltanto umido e gelo. / I preti e i giudici!».
Richiuse il libro. Disse soltanto: si intitola “La signora Charles Blirs” ed è una poesia che si trova nell’Antologia di Spoon River di Edgard Lee Masters. La traduzione è di Fernanda Pivano.
Estate del settantaquattro.
Adesso mi ritorna la domanda: che cosa avranno pensato quella notte i passeggeri del treno che andava verso la stazione di San Benedetto Val di Sambro?
Poi a un certo punto si pensò che non fosse più tempo di rivoluzioni. Avvoltolammo tutte le bandiere, smobilitammo ogni barricata. Niente più cortei, né rabbia, né assemblee. Solo qualche rapida, estemporanea opposizione.
Scoprimmo che era buono l’aperitivo col limone preso al tavolino al bar del centro, e che l’autunno poteva essere caldo di sole; solo caldo di sole.
Eravamo cresciuti, diventati maturi. All’improvviso. In un giorno, un pomeriggio di maggio, quando attoniti, persi, guardammo la scena del corpo di un uomo piegato nel bagagliaio di una Renault 4.
Fu quello il discrimine, la soglia del passaggio dagli anni Settanta agli Ottanta.
Eravamo cresciuti. Si cresce così, probabilmente, così: in un istante che folgora. Non per il tempo che passa.
Allora si cominciò a fare un po’ il conto di quanto era costato, di quanto si era avuto. E il conto ci diede un risultato spietato, un interrogativo inquietante: tutto questo per cosa?
Vennero estati belle di amori, di passioni, di notti sconfinate e albe in riva al mare.
I quadri di quell’età ora ci guardano dai muri, ci riportano storie di dolcezze e furori.
Noi siamo invecchiati; loro sono sempre uguali. Dispettosamente uguali.
Chi è intorno ai quaranta ha avuto figli in quegli anni, chiedendosi stupito come poteva accadere se ancora era figlio, forse anche viziato, legato a nodo stretto alle camere, agli affetti, alle canzoni di De Andrè, di Guccini e di Vecchioni che lo accompagnavano dappertutto, anche nelle notti di guardia sull’altana.
Cominciammo a chiudere certi pensieri nei cassetti. Leggemmo “Un uomo” di Oriana Fallaci, la storia di Alexandros Panagulis scritta da una donna innamorata.
Zi, zi, zi! Vive, vive, vive! Vi ricordate? Ricordate gli ultimi passi? Panagulis finisce nel pozzo dove vengono gettati tutti coloro che vorrebbero cambiare il mondo, i solitari incompresi, i disubbidienti, i poeti, gli eroi delle fiabe insensate che però servono a dare un senso alla vita.
Tra le innumerevoli cose che devo a una persona c’è anche il regalo di questo libro.
Con l’immagine del cadavere di Moro in via Caetani si va negli anni Ottanta.
Con quella di uno studente piccolo piccolo che arresta una colonna di carri armati in Piazza Tienanmen a Pechino quegli anni si concludono.
Quanti altri ragazzi c’erano dietro a quel ragazzo?
Cifre ufficiose dicono più di settemila.
Flash. Echi di cronaca. Ritagli di giornale. Gli anni Ottanta sono ormai memoria di immagini e parole.

Nella squadra del carcere lui faceva il portiere. E per un intero campionato era rimasto imbattuto. Una volta soltanto – diceva – una volta soltanto, quando l’altro tirò il calcio di rigore, il pallone andò in porta. Ma la direzione lui l’aveva intuita. S’era buttato dalla parte giusta. Solo che il pallone prese uno strano effetto: quando arrivò sul palmo della mano gli si rivoltò, scivolò tra le dita. Dopo molti anni ancora non riusciva a spiegarsi quell’effetto. Forse a rassegnarsi a quell’effetto.
Così raccontava ogni volta che si parlava di calcio con lui.
Nell’estate dell’ottantadue, quando si giocarono i mondiali, quell’uomo era il centro della piazza, il Mister, il principe dei bar. Molti di noi allora avevano vent’anni, o su o giù di lì.
Mi sembra che sia stato Paul Nizan a dire da qualche parte: avevo vent’anni e non permetterò mai a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita.
Allora: avevamo vent’anni, ed era estate.
A vent’anni l’estate è assoluta e sfuggente; è piena ed è vuota; è tutto ed è niente; è essenziale ed è stupida; è un giorno e una notte; è triste ed allegra; pensosa e incosciente.
A vent’anni l’estate è una folla di amici, l’estate è una solitudine paurosa, è sempre vincere e perdere qualcosa, passioni che sfioriscono e appassiscono una sera, ragazze che passano come una canzone.
L’estate a vent’anni è un falò sulla spiaggia. La cenere che resta.
Avevamo vent’anni – vent’anni fa - e poca storia alle spalle, e molta storia davanti: tutta quella storia che trasforma in uomo un ragazzo, che incide e decide ciascun giorno, e il destino.
Forse eravamo incoscienti. Forse eravamo distratti. Forse troppo distanti da tutto quello che era accaduto in Italia negli anni Settanta, che ancor accadeva sul cominciare degli anni Ottanta.
Forse eravamo fin troppo riparati dalla concretezza di un pensiero meridiano, che poi sarebbe stato anche teorizzato, troppo presi dall’andare lenti, dall’indugiare con lo sguardo sui frontoni delle chiese barocche, dal contemplare con la mente l’immobile luna dei Borboni. Mentre su un altro cielo esplodeva il mistero di un DC 9.
Furono anni di riflusso, stagioni di ricerca di una vuota esteriorità. Uscimmo per strada e ci ritrovammo tra la folla shoppingante. Cominciò in quegli anni a maturare una situazione che adesso ci imprigiona nel traffico impazzito, nell’onda umana travolgente, arginata solamente dai cassonetti traboccanti lungo i marciapiedi.
Nell’estate dell’ottantadue si giocavano i mondiali. Accadde in quell’estate che mentre si leggeva il Corriere dello Sport, un amico mi parlò di Leopold Bloom.
Quasi tutti conoscono la storia dell’agente di commercio che, fra le otto del mattino e le due della notte del 16 giugno 1904, vive la sua Odissea per le strade e nei locali di Dublino. In quella giornata qualcuno muore, qualcuno nasce. La moglie tradì Leopold. Lui incontra Stephen Dedalus.
In quegli anni morì Umberto di Savoia. Prima di morire chiese di rivedere il suo Paese per l’ultima volta.
Pertini disse: per me può tornare. Però bisognava cambiare la Costituzione.
Il re morì in esilio, con la dignità di un vero re. Mentre c’erano passeggeri che salivano e scendevano dai treni con bagagli carichi di tritolo, noi avevamo paura che un re esiliato e morente dicesse addio all’antica patria. Quasi come in una fiaba.
Ma la fiaba per gli italiani in patria e all’estero, fu la vittoria dell’Italia sulla Germania per 3 a 1.
Così l’uomo che aveva fatto il portiere nella squadra del carcere finalmente vinse la Coppa del Mondo.
Zoff va bene, sì, diceva, Zoff va bene, sì, diceva quella sera dell’undici di luglio seduto al centro del bar. Zoff va bene. Però devi fare il portiere nella squadra del carcere per capire se vali; devi fare il portiere innocente per quindici anni, tre mesi e due giorni, per capire se sai davvero parare.
Zoff va bene, sì. Ma avrei voluto vederlo davanti a quel rigore, col pallone che prese quello stramaledetto effetto: dal palmo della mano s’infilò nell’incavo tra il pollice e l’indice, scivolò sul dorso, mulinò sulla linea di porta tirata strascicando il piede da un palo all’altro, andò ad impigliarsi nella rete, all’angolo.
Quando cominciò il carosello delle auto, l’uomo che aveva fatto il portiere innocente per quindici anni, tre mesi e due giorni nella squadra del carcere, si buttò la bandiera sulle spalle e si avviò verso casa.
Sulla bandiera, a caratteri grandi e azzurri, trasversalmente ai tre colori, c’era scritto: Grazie Italia.

Tante cose son cambiate col passare degli anni. Sono passate le ansie, le attese, le estati, gli inverni, le idee, le passioni. E i sogni: quelli ad occhi chiusi e quelli ad occhi aperti.
Tante cose son cambiate nel corso del viaggio.
Come in una poesia di Giorgio Caproni, qualcuno è salito sul treno, qualcuno è sceso. E ad ogni fermata ci siamo detti benvenuto o arrivederci o addio.
Qualcuno ha sistemato i bagagli e ha preso posto una sera. Qualcuno è sceso all’alba, in silenzio, senza fare rumore, per non disturbare l’intorpidito dormiveglia di chi continua ad andare.
Fuori dal finestrino mutano i paesaggi, continuamente.
Restano uguali solo i bui delle gallerie.
Nello scompartimento i discorsi si intrecciano, come i destini.

   
   
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