Dicembre 2001

RITORNANO MAMELI E NOVARO

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Eppure l’Inno
affascina ancora
Sergio Bello
 
 

 

 

 

L’immagine
dell’aquila
austriaca priva
di penne turbò
la censura
piemontese,
che non permise che l’Inno fosse cantato in pubblico.

 

Abbiamo toccato una corda sensibile, parlando dell’Inno nazionale italiano. Segno che erano maturi i tempi per dibattere sul tema, anche alla luce delle cronache degli ultimi tempi e dei personaggi autorevoli che hanno concorso ad annodare le fila di un discorso semplicemente accantonato, ma non rimosso. Sarà per questo che la rivalutazione in atto assume uno spessore diverso da quello percepibile quando le note si dispiegano (con calciatori strapagati e muti, tutt’al più accaniti masticatori di chewing-gum) sui campi di gioco o quando la Ferrari taglia per prima un traguardo!
Torniamo volentieri sul discorso, dunque, cercando di ampliarlo il più possibile, sicché si sappia di che cosa si parla, quando si parla. E intanto, si dice comunemente “Inno di Mameli” o “Fratelli d’Italia”. Mai nominato Michele Novaro, che pure è stato l’autore della musica del nostro Inno nazionale. Una musica che, al di là del posto che “Il Canto degli Italiani” (è proprio questo il titolo ufficiale) occupa nelle nostre coscienze, amata e da alcuni vituperata, così come il testo di Mameli: al punto che qualcuno ne ha suggerito la giubilazione e la sostituzione con un suggestivo, ma improprio, “Va’ pensiero”, dal “Nabucco” di Verdi.
Sta di fatto che da un paio di anni l’Inno è eseguito con maggiore frequenza, e non soltanto nelle occasioni in cui sarebbe di rigore: apre grandi concerti di musica classica, risuona nel cortile del Quirinale, apre la Festa della Repubblica...
Da quando è diventato un pezzo da hit parade? Era il 7 dicembre 1999. Alla Scala si inaugurava la stagione col “Fidelio” behetoveniano diretto da Riccardo Muti. Il maestro, nonostante la presenza del Capo dello Stato, preferì non eseguire l’Inno, adducendo motivi pratici e di incompatibilità artistica. Ne nacque un caso, con ampi echi nei media. Poi la polemica venne ridimensionata. Ma l’Inno è rimasto al centro dell’attenzione, grazie al suo più illustre promotore: Ciampi stesso, che lo intonò durante l’esecuzione diretta da Giuseppe Sinopoli, in occasione del Concerto di Capodanno in piazza del Quirinale. Era il 31 dicembre ‘99. Da allora, il Presidente ha gradito molto ascoltarlo da Gianluigi Gelmetti al Teatro dell’Opera; dallo stesso Muti, in una doppia esecuzione nell’apertura dell’anno verdiano alla Scala; da Abbado a Santa Cecilia, da Zubin Metha al “Maggio Fiorentino”...

Eppure, una certa diffidenza per la musica di Novaro continua; Novaro, al quale Ciampi ha reso omaggio sostando davanti alla sua tomba, contigua a quella di Mazzini, al cimitero di Staglieno, a Genova. Ma chi era Novaro? Genovese, nato nel 1818 e morto nel 1885, maestro di coro e modesto tenore, scrisse un’opera e compose molti canti patriottici. Convinto liberale, aprì una scuola di canto popolare gratuita. Il “Canto degli Italiani”, scritto di getto nel 1847, amatissimo nel Risorgimento, divenne l’Inno nazionale della Repubblica nel 1946. E’ stato eseguito dai più grandi direttori d’orchestra. Tuttavia, nonostante l’impeto garibaldino di Muti e la novità della versione intimista di Gelmetti, i detrattori sono sempre dietro l’angolo.
Ha dunque senso parlare di musica bella o brutta per un Inno nazionale, innanzitutto veicolo di valori e di emozioni che trascendono i suoni? Non è più opportuno, semmai, interrogarsi sulle sue origini, sulla sua funzione, sul suo significato? Dice Lorenzo Bianconi, direttore del Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna: «A musicologi e melomani sfuggono problematiche come l’organizzazione delle musiche cerimoniali. L’innesto di tali musiche sui movimenti delle parate militari incide sulla loro tradizione esecutiva: il fatto che l’Inno italiano sia eseguito a passo di marcia dai bersaglieri ha determinato una prassi mantenuta anche quando viene eseguito da fermo. In realtà, questi Inni risorgimentali sono nati in un salotto intorno a un pianoforte per incontri di intellettuali e avevano una struttura cameristica oppure operistica».
Ma perché ad alcuni l’Inno non piace? Gli Inni nazionali sono riconducibili a tre tipi. Uno è la marcia di parata delle guardie reali, come l’Inno spagnolo del 1770. Il secondo rappresenta la nazione solennemente riunita attorno al sovrano, come è il caso dell’Inno britannico e di quello tedesco. Il terzo è quello dell’Inno battagliero, marziale ed eroico, come “La Marsigliese”, che rappresenta la nazione nel momento in cui difende i propri confini: l’Inno d’Italia appartiene a questo tipo, ovviamente il più esposto al rischio di una certa contestazione nelle fasi storiche in cui l’ideale guerresco si affievolisce. Ma paradossalmente è un problema più degli italiani che dell’Inno.
L’autografo della prima stesura dell’Inno è la prova più eloquente del tumulto di sentimenti con i quali, nell’autunno del 1847, a soli vent’anni, il poeta genovese scrisse i versi, che divennero subito popolarissimi. Forse proprio per questo Anton Giulio Barrili, volontario garibaldino, ma anche fine letterato, inserì il fac-simile di quell’autografo negli Scritti editi e inediti di Mameli, da lui curati per una pubblicazione apparsa a Genova nel 1902 presso la Società ligure di storia patria.
Mameli è stato il simbolo dello strettissimo legame fra letteratura e politica che ha caratterizzato il nostro Risorgimento e di cui le Accademie sono state una delle maggiori manifestazioni.
Al pari di Pietro Verri, membro a metà del XVIII secolo dell’Accademia dei Trasformati e poi della Società dei Pugni, e di Cesare Balbo, che aveva fondato nel 1804 l’Accademia dei Concordi, Mameli partecipò sin dal 1846 all’Accademia letteraria e politica “Entelema”, nella quale lesse i suoi primi discorsi e le sue prime infiammate produzioni poetiche.
Ma presto l’impegno politico, vissuto con mazziniana abnegazione, andò rapidamente crescendo, e nell’autunno del 1847, durante le grandi manifestazioni popolari svoltesi a Genova – e che dovevano culminare nella rievocazione della cacciata degli Austriaci dalla città ligure il 10 dicembre 1746 – Mameli compose le cinque strofe che, musicate dal Novaro, ebbero immediata fortuna, con rapida diffusione dovuta anche alla particolare composizione di ciascuna strofa: otto versi di sei sillabe ciascuno, di cui l’ultimo tronco (Iddio la creò / Già l’ora suonò / Chi vincer ci può / I Vespri suonò, ecc.) e un ritornello di tre versi uguali, di cui l’ultimo tronco, ripetuto e quasi martellato dopo ogni strofa.
L’Inno «dell’unione e dell’indipendenza», come venne definito da Carducci, subì dalla stesura iniziale a quella finale alcuni cambiamenti. Mameli mutò radicalmente l’ordine in cui le strofe erano state composte di getto. La terza, che individuava nella divisione politica della penisola la ragione della perdita della dignità nazionale – e che quindi avrebbe avuto un rilievo maggiore se collocata subito dopo quella iniziale – venne spostata al secondo posto. La quarta, che sviluppava lo stesso concetto della necessità dell’unione e dell’amore reciproco per rendere invincibili gli italiani, venne posta al terzo posto, in modo che l’appello seguisse una logica più stringente.
Ma l’immagine dell’aquila austriaca priva di penne turbò la censura piemontese, che non permise che l’Inno fosse cantato in pubblico, fin quando la dichiarazione di guerra all’Austria e il passaggio del Ticino da parte delle truppe sarde, il 23 marzo 1848, non fecero cadere le preoccupazioni governative.

Un’ulteriore modifica, non dovuta a Mameli, ma a Novaro, riguardò il primo verso, che nella versione originaria (e nell’autografo) è “Evviva l’Italia”, e in quella a stampa è “Fratelli d’Italia”. Lo stesso titolo che Mameli diede poi ad un suo articolo pubblicato il 15 marzo 1849 nel giornale genovese Il pensiero italiano.
Invece, in un inno composto nel febbraio del 1848, nella febbrile vigilia della prima guerra d’indipendenza, Mameli riprese nel verso iniziale il motivo religioso e politico della resurrezione del proprio Paese dovuta all’unione tra i cittadini della penisola, contrapposta alla precedente divisione in sette Stati: “Viva l’Italia! Era in sette partita”...

   
   
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