Dicembre 2001

DECIMA MUSA

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Totò: una maschera
Giuseppe Gubitosi
 
 

 

 

 

In questo film Totò compare vestito
da Pulcinella,
quasi a dire che lui è il nuovo Pulcinella,
la maschera
napoletana
per eccellenza.

 

Dal 1946 in poi, Totò ha imparato a fare del cinema, tanti sono i film che ebbero successo, o comunque ha imparato a scegliere i registi dei propri film. Troviamo, infatti, nomi come quello di Carlo Ludovico Bragaglia, Mario Mattoli, Luigi Comencini, Mario Monicelli e Stefano Vanzina, che davano pieno affidamento per i film da farsi. Ciò vale anche se Carlo Ludovico Bragaglia lasciò Totò dopo “47 morto che parla”, che è del 1950. Ma, soprattutto, Totò ha imparato a conoscere se stesso e le proprie straordinarie qualità comiche.
Va detto a questo punto che quasi tutti questi film hanno un riferimento alla realtà contemporanea, sia quella politica sia quella non politica.
“Fifa e arena”, del 1948, è di Mario Mattoli e ricorda “Sangue e arena” interpretato da Tyron Power. Già in questo c’è un riferimento alla realtà contemporanea, perché il film interpretato da Tyron Power era molto visto nel tempo in cui fu fatto “Fifa e arena”.
“Montecitoros”, il club taurino femminile che concede a Nicolete (Totò) il privilegio di entrare nell’arena, è una corruzione di Montecitorio, e infatti una sovrascritta avverte che tutti i “Montecitoros” sono uguali, tanto è il vocio che da esso proviene.
“Totò al Giro d’Italia” è del 1948. E’ anch’esso di Mario Mattoli. Uscì nello stesso anno di “Fifa e arena”. Totò comincia a realizzare più di un film all’anno. Giancarlo Governi in occasione del programma Rai Totò cento film, naturalmente/opera (quasi) omnia, da lui curato, nel presentare questo film ha detto più o meno che Totò univa il pubblico italiano attorno al suo nome, mentre Coppi e Bartali lo dividevano.
Il riferimento alla realtà politica contemporanea è dato dal fatto che Totò, parlando al diavolo al quale ha ceduto l’anima per vincere il Giro d’Italia, fa un cenno ai sindacati e alla magistratura del lavoro. Inoltre nel corso di una tappa del Giro d’Italia, Totò si trova a fare il saluto comunista, al quale rispondono i membri del ristoro del Giro.

In “I pompieri di Viggiù”, del 1949, sempre di Mattoli, il riferimento alla realtà contemporanea è dato dal tema del film, che è il teatro di varietà, molto in voga al tempo in cui il film fu girato, e che è un residuo della teatralità degli anni Trenta.
Nel film compaiono come attori i capi, e donatori del proprio nome, delle più note compagnie di rivista del tempo, da Carlo Dapporto a Wanda Osiris, da Nino Taranto allo stesso Totò. Sembra che quest’ultimo guardi con simpatia al teatro di rivista e con nostalgia all’avanspettacolo, del quale è stato un maestro.

“Yvonne la Nuit” è del 1949. E’ tra i film più deboli interpretati da Totò. Ricorda da vicino “Cavalleria” di Goffredo Alessandrini, che è del 1936. Forse Totò, o per lui Giuseppe Amato, il regista del film, si aspettava che nessuno prendesse in considerazione questa pellicola, sia perché era del periodo fascista, sia perché Alessandrini era epurato. Alessandrini era stato il primo marito di Anna Magnani. Nel film interpretato da Totò a ricordare il film di Alessandrini ci sono i cavalli e i cavalieri, i lancieri a cavallo che fanno una carica contro l’artiglieria nemica, c’è persino un riferimento al cuore gettato oltre l’ostacolo, che poi il cavaliere deve raccogliere.
C’è anche un’imitazione della commedia di Eduardo Napoli milionaria, del 1945, dalla quale è stato tratto il film “Napoli milionaria”, dello stesso Eduardo, e della quale abbiamo già parlato a proposito di Mario Alicata, che volle esprimere il suo giudizio su Eduardo facendolo apparire su Rinascita, e della quale riparleremo. Il film interpretato da Totò imita la commedia di Eduardo, quando Totò appare vestito da soldato a Yvonne per darle la lettera in cui le comunica il suo amore. Ricorda troppo la commedia di Eduardo, nella parte in cui Gennaro Iovine, interpretato da Eduardo stesso, appare vestito da soldato a un portinaio e gli racconta d’essere stato prigioniero in diversi Paesi dopo aver seguito il consiglio datogli da quel portinaio, il quale gli aveva detto che bastava fare un percorso semplice per tornare a casa, il che non era vero, anzi proprio facendo quel percorso era stato fatto prigioniero dai tedeschi. L’unica cosa che cambia è che Totò è pronto a partire per la prima guerra mondiale, mentre Eduardo sta facendo la seconda, ma, a parte questo, tutto si svolge allo stesso modo. C’è nel film di Giuseppe Amato anche un riferimento alla precedente attività teatrale di Totò con la macchietta di Ciccio Formaggio che suscita le risate di una donna prosperosa che è tra il pubblico.

Di “Totò cerca casa” Giancarlo Governi disse: «E’ un film di svolta». Il riferimento alla realtà contemporanea è, infatti, immediato, perché tratta la ricerca di alloggio che assillava gli italiani. Il film, realizzato da Monicelli e Stefano Vanzina, noto come Steno, i quali avevano collaborato alla sceneggiatura del film con Agenore Incrocci e Furio Scarpelli, noti al pubblico come Age e Scarpelli, è del 1949. Tratta in tono farsesco, per dirla con Giancarlo Governi, il tema della ricostruzione. Ma molti sono i riferimenti alla realtà contemporanea, a cominciare dalla serie di partiti (socialdemocratico, monarchico, repubblicano), ai quali Totò dice di appartenere rivolgendosi alla misteriosa donna alla quale deve fare il ritratto, per arrivare alla mania per i monumenti che caratterizza l’Italia del dopoguerra e agli ospedali come luogo di riposo.
C’è anche un riferimento al clima antifascista del tempo, quando Totò, che fa la parte dell’impiegato dell’anagrafe, chiede al contadino che gli si presenta cosa voglia e il contadino gli risponde che è lì per denunciare la nascita di un bambino che i genitori intendevano chiamare Franco, ma Totò lo sconsiglia perché si poteva equivocare col dittatore spagnolo, allora il contadino propone Umberto, ma Totò sconsiglia anche questo nome, perché si poteva equivocare con Umberto di Savoia, il re di Maggio. Alla fine Totò consente che un nome venga dato al “fantolino”, come definisce il neonato.

“Totò le Mokò” è del 1950, ed è di Carlo Ludovico Bragaglia. Giancarlo Governi, nel presentare il film per la Rai, ha detto che il film trae spunto dal film di Duvivier, che ha diretto i primi film di Don Camillo e Peppone, Pepé le Mokò. Tra gli attori, c’è Luigi Pavese, che fa il generico, come in molti film di Totò, e non la spalla di Totò; c’è anche Mario Castellani, la vera spalla di Totò. Quest’ultimo canta la “Mazurka di Totò”, che, musicalmente, ricorda quella della Nonna, che Totò canta in “San Giovanni decollato”.

In “L’imperatore di Capri”, che è del 1950, ed è diretto da Luigi Comencini, il riferimento alla realtà politica contemporanea è rappresentato da un tentativo di Totò di prendere il vaporetto per Capri, mentre è in atto uno sciopero. E’ un marinaio del vaporetto a ricordarlo a Totò, chiamandolo crumiro, e Totò gli risponde che quello dei marinai è un atteggiamento antituristico, mentre cerca di ammansire il marinaio, un energumeno, che però si arrabbia di più costringendo Totò a ripararsi dalla minaccia dei suoi colpi. Inoltre al personaggio, interpretato da Galeazzo Benti, Totò si presenta come democristiano antemarcia, per dire che essere democristiani è come essere fascisti. Poi, verso la fine, Totò nomina addirittura Di Vittorio, dicendo che ha un accordo segreto con Di Vittorio e Castellani il quale ha dimenticato lo sciopero ricordando a Totò che la moglie può raggiungerlo col vaporetto. Un altro riferimento alla realtà politica contemporanea è rappresentato dalla domanda di Totò a Dodo (Galeazzo Benti) che gli propone di candidarlo la sera per l’elezione di mister Capri, ma non gli spiega di che cosa si tratta, per cui Totò ha ben ragione di chiedere se loro eleggono un deputato, al che Dodo, Turacciolo e gli altri rispondono che è una buona battuta.
E’ inoltre la prima volta che si sente la battuta: «Ho fatto il militare a Cuneo» e «Siamo uomini o caporali?», che si sente due volte. Entrambe le battute sono state rese famose da Totò, ma la seconda ha dato vita addirittura a un film intitolato appunto “Siamo uomini o caporali?”.

In “Totò cerca moglie”, che è del 1950, ed è di Carlo Ludovico Bragaglia, il riferimento alla realtà politica contemporanea è uno solo, ma c’è. Si tratta del taxi che Totò prende tornando a casa sua dall’Ambasciata di Papillonia. Totò non ha i soldi per pagarlo e il tassista gli propone di andare all’ambasciata a farsi pagare e Totò approva dicendogli anche di farsi dare un po’ di danaro in più per pagarsi da bere. E lo saluta chiamandolo “compagno”. Quasi a dire che nel 1950 bastava pagare da bere a un tassista per considerarsi suo “compagno”.
Ma, come dice Giancarlo Governi nel presentarlo, il film è un ritorno agli sketch teatrali di prima della guerra. E’ infatti una serie di scene teatrali a carattere farsesco, impostate in modo da suscitare il riso, che sono anche esilaranti, ma restano teatrali.

In “Napoli milionaria” i riferimenti alla realtà politica contemporanea sono tutti alla fine. Mentre il film si svolge tutto in un vicolo di Napoli, abitato da una parte del popolo, che rappresenta l’intero popolo napoletano, l’ultima parte si svolge nelle vie e nelle piazze più rappresentative della città di Napoli, dove si svolgono manifestazioni di entrambe le parti in lizza (i cattolici e le sinistre), con il risultato che i politici appaiono su un piano superiore a quello del popolo che vive nel vicolo.

Finale è pure la scena in cui Eduardo e Totò, alias Gennaro Iovine e Pasquale, vengono presi per persone che stanno dalla parte dei democristiani. Prima compare Totò, che è stato “affittato” dai cattolici perché dicesse soltanto due parole, per tacitare gli uomini della sinistra, che avevano minacciato di far tacere con la forza l’oratore.
Ma, non sapendo cosa dire, fa un discorso che lo riguarda, e dice che si trova lì, perché ha una famiglia da mantenere e deve fare quel mestiere, toccando l’animo di Eduardo De Filippo, ovvero di Gennaro Iovine, che lo conosce. Iovine, che deve andare ad accogliere il figlio, arrestato tre anni prima, viene scambiato per simpatizzante dei cattolici. Il figlio, ex ladro di automobili, dice di essere passato dalla parte della legalità, e di non tollerare che il padre si dimostri un borghese. Al che Gennaro Iovine cerca di spiegare quale sia la verità, che cioè ha solamente preso le parti di Pasquale-Totò, ma non viene creduto.
“Figaro qua...Figaro là”, del 1950, è tratto da Il barbiere di Siviglia di Gioacchino Rossini, ed è di Carlo Ludovico Bragaglia, che era fratello di Anton Giulio Bragaglia, regista e fondatore del Teatro Interlandi, futuro direttore della Difesa della razza, e di Arturo Bragaglia, attore caratterista, che si è già trovato in “Due cuori tra le belve”, ed è comparso in numerosi altri film.
E’ un film che vede due comici, Totò e Renato Rascel, recitare fianco a fianco, forse per questo si risolve in una serie di battute verbali di Totò. Totò si abbandona alla sua serie di battute, e ciò sta a significare che il film è, in fondo, teatrale e quindi statico, perché tale lo rendono le battute che potrebbero ben figurare anche in un’opera teatrale, facendo lo stesso effetto che fanno in questo film.
La cosa interessante è che in questo film Totò compare vestito da Pulcinella, quasi a dire che lui è il nuovo Pulcinella, la maschera napoletana per eccellenza. Totò fa spesso la gag di quando riceve un colpo o quando si spaventa: è come se si intenerisse.

“Totòtarzan”, del 1950, è di Mario Mattoli. Il tema è la critica alla civiltà moderna. Totòtarzan viene portato in Europa, che è «la culla della civiltà», dice Mario Castellani e Totò osserva: «Cos’è questa civiltà?», come a dire che non conosce la civiltà. Spartaco, personaggio interpretato da Tino Buazzelli, che Totò chiama Spartacone o Spartacaccio, s’incaricherà di fargli conoscere la civiltà, ma Totò gli riserva un trattamento sostanziato dall’odio e dall’antipatia, come se il portatore della civiltà fosse lui, che la mostra nei suoi effetti che consistono «nel far vivere – come dice lui più o meno – l’uomo più comodamente».
Così presenta il letto, l’ascensore, il telefono, l’acqua calda e fredda dai rubinetti del lavandino e della vasca da bagno, e tratta male Antonio Della Buffas, ovvero Totò, tutte le volte che tratta male o dice male di un portato della civiltà, tanto che Iva (Marilyn Buferd) dice a Stanis (Mario Castellani) che Spartaco è troppo severo con la scimmia bianca, come gli indigeni chiamano Totò.
Questi a sua volta spiega a Bongo, una scimmia vera, che «la civiltà è tutto quello che non vuoi nel momento in cui non ti serve» e appende il cartello “guasto” al collo di Spartaco, che ha visto vanificata la sua spiegazione «che l’ascensore è un dono del progresso, perché serve a far salire l’uomo più comodamente», mentre Totò si abbandona a crasse risate.
E’ indubbio che il film “Totòtarzan” sia una critica del progresso, come pure è vero che il lato debole di Totòtarzan siano le donne, come dimostra la maestra, che esce dalla camera d’albergo di Totòtarzan discinta dicendo che quell’uomo, Totòtarzan, non ha bisogno d’imparare nulla, perché sa tutto (sulle donne), o il rapporto che s’instaura con il gruppo delle donne indigene alla fine del film. Il film è fatto di una serie di battute di Totò, ma, a differenza di “Figaro qua...Figaro là”, la comicità viene ottenuta con immagini visive.

E’ quello che avviene nella lunga scena riguardante l’arruolamento di Totò-Antonio Della Buffas nel gruppo specialista commandos. La scena si conclude con l’atterraggio di Totòtarzan nel I campo Totòtarzanista mentre il barone Rosen si mette d’accordo con Stanis e Spartaco per uccidere Totòtarzan e dividere l’eredità, al che Iva si ribella perché ormai vuol bene a Totòtarzan, che raggiunge a Rivabella. Ha saputo che Totò si trova a Rivabella dalla radio, che ha trasmesso un’intervista a Totòtarzan, fatta da un radiocronista, nella quale lui dice che preferisce la giungla alla civiltà, ripetendo ciò che ha detto a Bongo quando lo ha ritrovato, che, cioè, è stanco della civiltà e preferisce la libertà della giungla.
Alla fine del film Totòtarzan distrugge la radio che Bongo ha acceso, per non utilizzare uno strumento che è reso possibile dal progresso tecnico, e quando le donne gli portano «tutti i conforti della civiltà» lui le accoglie con il lancio di noci di cocco, per significare che non vuole quei conforti.
Ma ci sono anche riferimenti alla realtà politica contemporanea. Sul treno Totò si spaccia, con il controllore, che gli ha chiesto se sono deputati, per deputato dell’MSI e fa passare lo scimmione Bongo, che indossa un impermeabile e un berretto per non essere riconosciuto, per un senatore.

“Totò sceicco” è un altro degli otto film che Totò interpretò nel 1950. E’ di Mario Mattoli, ed è uno dei più riusciti tra quelli che interpretò l’attore in quel periodo. E’ il più riuscito nel senso che è tra i più divertenti e il più filmico tra i film di Totò appartenenti a quel periodo, tanto che ancora se ne ricordano le battute.
Totò rimette in discussione il mondo contemporaneo durante la rassegna delle truppe arabe, e lo fa equivocando sulle risposte dei suoi armati, come quando chiede ad un soldato le cause della cicatrice che porta sul volto e il soldato risponde che è stato un infedele, al che Totò osserva che le donne sono o infedeli e basta oppure infliggono una cicatrice al malcapitato che le ha scoperte infedeli. Alla domanda su come ha fatto a perdere un occhio si sente rispondere dal soldato che ha dato un occhio per la causa, e Totò, equivocando sulla parola “causa” e credendo che si tratta di una causa giudiziaria, dice che le cause costano e che gli avvocati vogliono farle perché sono loro a guadagnarci; oppure facendo alcune cose di sua iniziativa, come quando schiaffeggia un moro e se la ride dicendo a Castellani che sta «castigando ridendo mores», equivocando sul significato della frase del poeta latino Orazio, o come quando dice a Fatma, la sorella del figlio dello sceicco, quindi sorella finta di Totò, «Guarda o’ mare quant’è bello, spira tanto sentimento», riferendosi a se stesso, che si chiama Omar, o come quando dice al suo aiutante, e lo dice anche per rendere omaggio a Napoli, sua città natale, che il popolo inneggia a lui non perché è il figlio dello sceicco, come ha detto il suo aiutante, ma perché si sono accorti che lui è napoletano e i meridionali hanno sempre avuto successo all’estero. Oppure quando a Fatma, che pur offrendogli il suo amore gli dice più o meno: «Come osi toccarmi? Io sono un membro d’una famiglia di alto lignaggio», Totò risponde più o meno così: «Oso, perché io sono monarchico, e una mano lava l’altra».
Ancora, quando Antonio-Totò e Gastone-Aroldo Tieri sono prigionieri dei ribelli che li tengono nella sabbia del deserto, tranne la testa, che sarà raggiunta dalle “terribili” lance dei guerrieri ribelli, credendo di vedere i legionari accorsi in loro aiuto Totò sostiene che non si può dire camerati, perché sembra che quei legionari siano fascisti. Quando, poi, nella necropoli in cui Gastone e Antonio cadono, trovano un gatto finto, Gastone sostiene che il gatto è un animale mediterraneo, mentre Antonio sostiene che è un gatto atlantico, equivocando con il Patto Atlantico, che è stato firmato anche dall’Italia, e tra numerose polemiche, l’anno precedente a quello del film.
“47 morto che parla” è del 1950, ed è l’ultimo film che Carlo Ludovico Bragaglia fece con Totò. Da allora infatti decise che con Totò non avrebbe fatto altri film. Secondo Giancarlo Governi e il suo Ritratti, la rottura sarebbe dovuta a Silvana Pampanini, che Totò conobbe in occasione del film, al quale la Pampanini partecipò, e della quale si innamorò follemente al punto che disse a Bragaglia di farsi gli affari suoi dopo aver saputo che aveva detto alla Pampanini che la moglie di Totò era bella, dolce e giovane, mentre Totò parlava con la Pampanini in toni diversi di sua moglie.
Il film è tratto da un bozzetto di Ettore Petrolini, ma, come dice lo stesso regista del film, Carlo Ludovico Bragaglia, che lo esalta come un classico di Totò, dicendo che è bellissimo, ma «era molto difficile farne un film. Allora abbiamo preso l’Avaro di Molière, almeno l’idea, e abbiamo fatto un miscuglio di Petrolini e Molière ed è venuto fuori un film molto divertente». E qui Carlo Ludovico Bragaglia ricorda la scena dell’aldilà, che è l’unica proveniente da Petrolini e dice: «La scena dell’aldilà è stata girata a Pozzuoli, alle zolfatare. Se si accende un pezzo di carta tutta la montagna fuma per dei canali sotterranei, tutte le bocche sono collegate, non c’era bisogno di mettere dei fumoni artificiali, è tutto vero: bastava che vicino alla macchina da presa si accendesse un gran falò, subito tutta la montagna fumava».

Di Totò dice Ermanno Contini: «Sfortuna vuole che non si abbia più troppa fede né fiato per poter credere nell’avvento di una vecchia Befana con un Totò diverso da centodue-e-rotti Totò, già visti e dimenticati in questi anni. Bisogna anzi aggiungere che non fui sicuro delle novità comiche (di cui abbonda “47 morto che parla”) se non quando le risate a crepapelle della platea non mi costrinsero a spalancare gli occhi su questa “svolta” veramente inaspettata dopo una così lunga serie di delusioni dateci dall’attore».
Il critico mette su un piatto della bilancia le “risate a crepapelle” suscitate dal film nel pubblico, sull’altro piatto della bilancia mette le delusioni avute da Totò nel corso degli anni, e in tal caso pone le delusioni “teatrali” di Totò negli anni Trenta sullo stesso piano di chi diceva che Totò era mal diretto, perciò interpretava solo film commerciali.

   
   
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