Dicembre 2001

LE “INVENZIONI” CHE HANNO FATTO LA STORIA

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Tre snodi
per tredici secoli
Aldo Bello - Tonino Caputo - Adriano de Castro
 
 

 

 

 

E’ stata
la borghesia
a liquidare
il feudalesimo,
a promuovere
le rivoluzioni
americana
e francese,
a volere
la rivoluzione
industriale.

 

Europa in nuce

A Paderborn, in Vestfalia, nel 799, il pontefice Leone III incontrò Carlo Magno. In quell’occasione fu anche fondata la diocesi della città, sicché si è parlato (e la visione teutonica del Vecchio Continente continua a parlare) di «terra benedetta della latinità cristiana», lì nata come Grande Patria, sostenuta dalla forza militare dell’Impero.
Ma di “Europa” si era parlato già prima, a Francoforte, in sede di sinodo dei vescovi franchi, nel 794. “Europa” erano le terre dei Franchi o occupate dai Franchi. In campo religioso, questa Europa si sentiva autonoma, fino a quel momento, sia da Roma che da Costantinopoli. Carlo era chiamato “rex et sacerdos, christus Domini”, ovvero l’“Unto del Signore”, e infine “Europae Pater”. In altre parole, la Chiesa franca, che ora si diceva Chiesa d’Europa, si muoveva nell’ambito di quella autonomia politico-religiosa che era stata elaborata dai regni barbarici dei Visigoti nella Spagna e dei Longobardi in Italia. Il travaglio religioso di Costantinopoli aveva tolto all’Impero il ruolo di guida nell’ortodossia, distruggendo quell’ideale universalità che era stata la promessa dell’antico Impero.
Ma anche Roma aveva risentito del crollo dell’ecumenismo imperiale. Dal 781-782 i documenti ufficiali romani non recavano più come data gli anni del regno dell’imperatore, ma quelli del pontificato del papa; e anche le monete avevano il nome del papa e di San Pietro. Secondo una leggenda elaborata a Roma, il diritto di coniare moneta era stato concesso al papa Silvestro da Costantino, insieme all’autorità su tutta la parte occidentale dell’Impero. Nel 788 papa Adriano I fece acclamare Carlo Magno “Nuovo Costantino”. Sarebbe stato lui, Adriano, il “Nuovo Silvestro”?
A Nicea (oggi Iznik), nel 787, il concilio ecumenico, cui avevano partecipato due legati romani, aveva ristabilito il culto delle icone, che la sinodo franca aveva invece condannato come idolatria. Il papa, costretto fra Nicea e Francoforte, si trovava in una situazione intollerabile. A Bisanzio, l’Impero era dal 797 nelle mani di una donna saggia e coraggiosa, Irene. Si faceva chiamare “basileus”, imperatore, e non “basilissa”, per rafforzare un potere tanto insidiato quanto unico nella storia. Agli occhi di molti, come Alcuino, Paolino di Aquileia, Teodulfo, ossia gli intellettuali consiglieri di Carlo Magno, il trono occupato da una donna doveva apparire vacante. Esattamente come la pensava la Curia romana.
Quando Leone III intraprese il lungo e faticosissimo viaggio verso Paderborn, non era assolutamente in quella condizione di autorità suprema che la leggenda aveva attribuito a papa Silvestro. Era un pontefice minacciato, che aveva attraversato le Alpi e risalito il corso del Reno in cerca di aiuto.
In aprile, una banda composta da parenti del defunto papa Adriano l’aveva fatto prigioniero durante una messa, aveva minacciato di accecarlo e di tagliargli la lingua, aveva lanciato contro di lui tremende accuse, non ultime quelle di adulterio e di spergiuro. Finito lo stato di guerra con i Longobardi, una sorta di “privatizzazione” della Chiesa di Roma aveva portato a faide senza fine. Leone veniva a chiedere protezione al re dei Franchi non contro nemici esterni, ma per restituire l’ordine a Roma. Si annunciava quel periodico intervento imperiale su Roma che avrebbe caratterizzato i secoli del Medioevo.

794 o 799, Paderborn o Francoforte, mito o non mito moderno (quello di un’Europa medioevale come prologo all’Europa di Maastricht), è certo che in quel torno di tempo snodo ci fu. Lo fu ad opera dei missionari irlandesi, scesi troppo a sud, come di quelli anglosassoni che convertirono la Sassonia, terra di conquista dei Franchi. Insomma, la grande e gloriosa unificazione culturale carolingia uscì dai secoli bui anche con gli apporti, coevi e successivi, di altre componenti civili e artistiche, oltre che politiche, (si pensi ad Arechi “principe della gente longobarda”, a Desiderio, e alle culture di Salerno e Benevento).
Certo, Carlo Magno fu sepolto in un sarcofago romano con il mito di Endimione, ma i sarcofagi antichi, con i miti delle Amazzoni, delle Grazie, delle Stagioni, ritrovati di recente in San Salvatore di Brescia, la basilica dinastica dell’ultima famiglia regale longobarda, provano un rapporto fiducioso con la tradizione antica che precede quel risveglio della cultura che è il grande lascito dei Carolingi, cui contribuì la prima grande migrazione di cervelli dall’Italia, dall’Inghilterra e dalla Spagna.
Era immaginabile un mondo diverso? O meglio: gli uomini che vissero all’epoca immaginavano un mondo diverso? Alla brevità dell’unità carolingia corrisponde un’eredità culturale di lunga durata. Il definitivo affossatore dell’unità imperiale, Carlo il Calvo, fu il promotore di opere d’arte altissime, imbevute della classicità resuscitata dalla Scuola Palatina di Carlo Magno. Ma vi fu anche chi prese vie diverse. I Longobardi del Sud non accettarono nemmeno la riforma della scrittura, che fu una vera conquista dell’Impero, e perfezionarono, in un processo secolare, quelle forme che per un breve periodo avevano unificato l’Italia da Montecassino a Nonantola.
Vi fu chi pagò il prezzo del dominio assoluto carolingio e del difficile rapporto con la Chiesa di Roma. Da un certo punto di vista, pagò Roma, la cui spiritualità sarebbe risorta in monasteri lontani che intendevano sottrarsi all’autorità dei conti e dei vescovi locali. Pagò l’Italia, che non fu più unita. Pagò l’Italia del Nord: marmi e bronzi migrarono da Ravenna ad Aquisgrana, mentre la Lombardia si ritrovò povera, come dimostrano le testimonianze delle monete sempre più scarse. Pagò l’Italia del Sud, con il profilarsi di una storia infinita di dominazioni. Pagò la divisione insolubile fra l’Europa orientale e l’occidentale, dove la regione danubiana e l’Adriatico dell’Est, una volta distrutti gli Avari, divennero terra di conquista e di organizzazione sul modello carolingio. Sappiamo che ogni rivoluzione ha il suo prezzo: non è una novità. Ma oggi come oggi, per conoscere a fondo il valore dello snodo europeo, dovremmo ascoltare con maggiore attenzione le voci dei vinti, oltre a quelle dei vincitori.


Chi uccise il colonialismo

Nel 1859 Eduard Douwes Dekker diede alle stampe il romanzo Max Havelaar, ovvero il Pubblico Incanto del Caffè della Compagnia del Commercio Olandese, usando lo pseudonimo “Multatuli” (dal latino: “Io che molto ho sopportato”). Il libro narra le esperienze di un ufficiale coloniale a Giava, Havelaar, un olandese idealista che scopre il sistema di coltivazione forzata di spezie imposto dal suo governo ai contadini indonesiani, e vi si ribella.
Nella sua introduzione alla traduzione inglese, nel 1927, D.H. Lawrence definì quest’opera «particolarmente irritante». E aggiunse: «In apparenza, “Max Havelaar” è un libello o un pamphlet sulla falsariga di “La capanna dello zio Tom”. Invece della pietà per il povero negro, abbiamo la pietà per il povero giavanese oppresso, con lo stesso urgente appello perché le leggi, perché il governo, si muovano. Beh, per gli schiavi negri il governo americano effettivamente si mosse, e “La capanna dello zio Tom” diventò un libro superato. Anche il governo olandese, ci dicono, a Giava si è mosso in favore dei poveri, sull’onda sollevata dal libro di Multatuli. Di conseguenza, “Max Havelaar” è del tutto sorpassato».
Facciamo un passo indietro. Per centinaia di anni, le spezie, (il chiodo di garofano, la noce moscata, il pepe), sono state la causa principale dei conflitti di religione. Erano di valore inestimabile: come conservanti per il cibo, come medicinali, per dar gusto alle pietanze.
Nel 1596 un marinaio olandese della flotta portoghese, Jan Huygen van Linschoten, pubblicò un libro, Viaggio, o Navigazione alle Indie Portoghesi ovvero Indie Orientali, una vera e propria guida della regione, velocemente tradotto in francese, inglese, tedesco e latino. Due anni dopo, attraverso un consorzio di imprenditori olandesi, i Paesi Bassi spedirono una propria flotta verso l’Indonesia. Il primo tentativo finì in disastro: la flotta colò a picco. Ma, gradualmente, un’ondata di navi olandesi dopo l’altra cominciò a raggiungere le isole, spazzando via i portoghesi e portando nei Paesi Bassi un benessere mai visto.
Nacque così il più grande emporio marittimo del mondo, con sede a Batavia (attuale Giakarta). Col tempo, tuttavia, si ebbe bisogno di una forza militare che salvaguardasse il monopolio. L’attività commerciale si trasformò in conquista. Poi, per tenere alti i prezzi sul mercato internazionale, si limitarono le produzioni di spezie. Per questa ragione, all’inizio del ‘700, quasi tutto il popolo delle Isole Banda, produttrici di noce moscata, venne sterminato. Subentrarono gli impiegati europei della Compagnia, che importarono schiavi e prigionieri di guerra per i lavori agricoli. Vennero inoltre arruolati coercitivamente uomini delle Molucche, che avevano il compito di distruggere le piantagioni di chiodi di garofano e di noce moscata della concorrenza. L’isola Buru diventò una savana devastata.

Metà dell’800. In conseguenza delle guerre napoleoniche e del conflitto per Giava, i Paesi Bassi e le Indie Orientali erano entrati in una fase di declino economico. Per incrementare i profitti, si introdusse a Giava un sistema di coltivazione forzata (conosciuto col nome di “cultuurstelsel”), per cui i coltivatori erano obbligati a cedere una parte della loro produzione al governo coloniale. In soli tre anni, così, si invertì la tendenza, e l’economia rifiorì. Giava diventò, in cambio, una catena di montaggio agricola, all’insegna dello sfruttamento intensivo. I contadini furono vincolati per legge ai loro villaggi, e dovevano pagare tasse ingenti. In caso di carestia o di scarsi raccolti, era la fame. Decine di migliaia di famiglie perirono. In questo clima socio-economico e politico, nacque Max Havelaar: non nei Paesi Bassi, ma in Belgio, dove Dekker si era trasferito, a 29 anni, disilluso, dimissionario, e deciso a raccontare la sua verità.
L’Havelaar provocò un vero e proprio terremoto. Così come La capanna dello zio Tom fornì cartucce da sparare al movimento abolizionista americano, questo libro diventò un’arma potente nelle mani del movimento liberale che cominciava a svilupparsi nei Paesi Bassi e intendeva introdurre riforme in Indonesia. E in parte riuscì, visto che indusse all’adozione di una nuova linea politica, la cosiddetta “politica etica”, che intendeva promuovere nelle Indie Olandesi l’irrigazione e l’educazione.
Dopo un impatto modesto, le riforme ebbero sviluppi imprevedibili, compreso quello di saper leggere e scrivere. E tra coloro che lessero l’Havelaar e ne rimasero fortemente influenzati, ci fu Agus Salim, che insieme con altri indonesiani educati all’olandese avviò un movimento per l’emancipazione e la libertà, che condusse nei fatti alla vera e propria rivoluzione degli anni Quaranta. Non nacque soltanto una nuova nazione: diffuse le scintille dell’anticolonialismo anche in Africa, che a sua volta risvegliò altri popoli colonizzati e segnò la fine del dominio coloniale degli europei.
E forse, in un certo senso, non poteva andare diversamente. Dopotutto, gli europei non avevano colonizzato il mondo a causa delle Isole delle Spezie indonesiane? Si direbbe che per l’Indonesia dare inizio e dar fine al processo di colonizzazione e di decolonizzazione era destino.


Lo strappo della borghesia

L’invenzione più grande del millennio appena concluso? Il poeta, e irriducibile marxista-leninista Edoardo Sanguineti non ha dubbi: «Un avvento: quello della borghesia». Un avvento che si può collocare intorno al 1200, con i nuovi mercanti, con i primi banchieri, con l’alba delle imprese artigianali: perché è da allora che si mise in movimento quel processo di straordinario sviluppo che, per tappe successive e lungo percorsi accidentati, quindi mai in linea retta, ci ha portato a quella che definiamo globalizzazione, al dominio del mercato e delle sue regole.
Un processo che oggi appare irreversibile è giunto a compimento. Nel suo Manifesto, alla metà dell’Ottocento, Karl Marx sosteneva che «la borghesia plasma il mondo a sua immagine e somiglianza», parafrasando la proposizione biblica di Dio che crea l’uomo. Ma è stata la borghesia a liquidare il feudalesimo, a promuovere le rivoluzioni americana e francese, a volere la rivoluzione industriale, a provocare prima e a demolire poi quello che si definiva il socialismo realizzato, e a riprodursi con straordinaria vitalità, fino all’omologazione (e omogeneizzazione) dei nostri giorni, al trionfo irresistibile del capitalismo, delle montagne di denaro che si spostano alla velocità di un colpo sul mouse del computer. Pochi anni fa parlavamo di imprese multinazionali, adesso è il mondo che è diventato una multinazionale.
Se vogliamo, il primo testimone della presenza, della penetrazione e della diffusione della borghesia è Dante Alighieri. Il quale ci accompagna, nella Divina Commedia, all’appuntamento con una data simbolica, e oggi particolarmente significativa: l’inizio del 1300, quindi la fine di un secolo, e la vigilia del primo Giubileo. Dante è nemico del papa Bonifacio VIII, che colloca nell’Inferno, e che poi disonora nel Paradiso, davanti a San Pietro. Si scaglia contro la mercificazione, il dominio del denaro (il fiorino di allora può essere paragonato all’odierno dollaro), l’avarizia. Dante, nella sua grandezza intellettuale e creativa, si comporta però da rabbioso e intransigente fideista: un atteggiamento tipico di chi soffre, e paga, in un mondo che non riconosce più e che probabilmente lo spaventa. Se è profeta, però, non azzecca la profezia, anche se è testimone essenziale perché sente, e ci fa sentire, che si è giunti a una svolta epocale. Ma più o meno negli stessi anni un altro grande della letteratura, Giovanni Boccaccio, scrittore decisamente borghese, nelle sue Novelle esalta il ruolo dell’avventura terrena, e diventa il primo, autentico cantore della secolarizzazione.
Certamente, non si può rifare la storia a rovescio su basi puramente ipotetiche, ma possiamo comunque ritrovare lo spartiacque in uno scritto di Jacques Le Goff, Il tempo della Chiesa e il tempo del mercante, con il tempo circolare delle campane che dettano il ritmo naturale, contro il tempo orizzontale, imposto dal ritmo dello sviluppo e del denaro. L’invenzione del Millennio, dunque, è la parentesi che si apre con i mulini a vento e si chiude con lo sbarco sulla luna. Sono conquiste ottenute con la tecnologia, con la ricerca, con la scienza, con l’organizzazione della società e del lavoro, che il tempo circolare delle campane non avrebbe mai potuto materializzare. Ma l’avanzare baldanzoso della borghesia non ha portato soltanto invenzioni e scoperte. Ha messo definitivamente in discussione il nostro narcisismo.
Un tempo l’uomo si sentiva il centro dell’universo, perché si pensava che tutto ruotasse intorno alla Terra. Poi si è scoperto che la Terra ruota attorno al Sole, e infine siamo stati ridotti ad essere gli abitanti di un pianeta periferico, e su di esso, di conseguenza, è diventato periferico anche l’uomo. Ci credevamo una specie eletta per volere degli Dèi, ma oggi non è necessario essere darwiniani per capire che siamo solo e semplicemente una specie più avanzata delle altre. Anche nel rapporto con gli animali stiamo velocemente cambiando. Dio non è morto, la nostra fortuna è dunque di non essere restati orfani.
Sotto il profilo psicanalitico, infine. Dall’inizio del ‘900 non è più l’Io che gestisce fondamentalmente il destino dell’individuo, ma sono le forze dell’inconscio. Che – interpretazione riattualizzata – sono frutto del soffio, della scintilla, della vita che ci è stata donata.
Ecco. Ogni passaggio è una tappa, e su ogni tappa ritroviamo l’impronta della borghesia (del pensiero borghese). Lasciamo pure da parte i computer e Internet, e limitiamoci a pensare alla grandezza della “macchina moderna”, a quella che per prima ha liberaro le braccia dell’uomo dal compito di produrre energia. Pensiamo come, fino a poco tempo fa, anche se con qualche imperfezione, si parlasse della fabbrica (altra invenzione-conquista della borghesia) come luogo di conflitti sociali. Adesso siamo arrivati al compimento. Si potrà procedere a correzioni, aggiustamenti, ma quello che all’inizio non era un progetto ha dimostrato di esserlo alla fine. Ci piaccia, oppure no.

   
   
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