Dicembre 2001

IL SARAWAK DI SALGARI E CONRAD

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E Sandokan nacque
sulla rotta per Brindisi
Lello Boda
 
 

 

 

 

Sulla rotta
per Brindisi nacque il nocciolo nucleare dei personaggi
che popolano
i romanzi di Salgari.

 

Dire Sarawak è dire avventura. Questa regione della Malaysia, estesa nella parte nord-occidentale del Borneo, è lo scenario delle imprese narrate dai più celebri romanzi di Emilio Salgari e di Joseph Conrad. Scrittore di fortissima fantasia, di formidabile inventiva, il primo; testimone diretto e grande cantore dell’Impero britannico, il secondo.
Inventore dell’atlante immaginario in cui hanno viaggiato i sogni di tutti gli adolescenti italiani del Novecento, Salgari ambientò nella giungla del Sarawak molte delle gesta di Sandokan, più tardi adattate per il cinema e per la televisione con Kabir Bedi nelle vesti del celebre pirata-condottiero. Ma Salgari, che sul mare e sulle terre impervie e desolate di Mompracem collocò tante vicende, in realtà aveva fatto un unico itinerario marittimo: tre mesi su un mercantile in navigazione tra Venezia e Brindisi. Tanto gli bastò.
Lungo la navigazione, ebbe la possibilità di vedere le foci del Po, le terre del delta, basse e sabbiose, e quelle del Conero, alte e fitte di vegetazione, le aspre coste dell’Abruzzo e quelle, dolci e ondulari, del Molise, fino allo sperone rude del Gargano, alle lunghe spiagge di Manfredonia, e a quelle intermittenti – di rocce e arenili – della Terra di Bari, e infine, quasi confuse tra acque salmastre e acque salate, le coste fino a Brindisi, orlate di paludi e di arcipelaghi di falaschi e di canne, velenose per gli uomini per via dell’anofele, ma a modo loro ispiratrici di avventurosi scenari corsari e di romantiche vicende d’amore. Sulla rotta per Brindisi, dunque, prima ancora che sulla ricerca in testi enciclopedici, botanici, storici, geografici, nacque il nocciolo nucleare dei personaggi che popolano i romanzi di Salgari: l’Estremo Oriente configurato tra lo sbocco del maggior fiume italiano e il porto nel quale culminava la regina delle vie del mondo, l’Appia, con capolinea a Brindisi, città dalle molte lingue, greca, albanese, slava, già allora.

Furono i cinque continenti, i due poli e i sette mari a ruotare attorno alla scrivania, dove la sua inesauribile immaginazione si coniugò per trent’anni con appassionati saccheggi di atlanti, di stampe e di racconti di viaggio. La sua infaticabile penna percorse l’intero globo. Ma fu nella giungla malese (rifratta dalle boschive coste italiane viste dalla rotta adriatica percorsa in cabotaggio) che Salgari toccò la maggiore intensità narrativa.
Sarawak, terra dal fascino sorprendente. Sebbene gareggi con l’Amazzonia nel processo di disboscamento, condotto qui da industrie giapponesi e coreane del Sud, è terra ancora in gran parte coperta da una fitta foresta pluviale, tagliata da fiumi gonfi e limacciosi. E’ uno dei polmoni della Terra. Una selva umida che vanta una delle maggiori biodiversità: ogni dieci chilometri quadrati, contiene millecinquecento tipi di piante da fiore, settecentocinquanta specie di alberi, centoventicinque specie di mammiferi, quattrocento specie di uccelli, centocinquanta specie di farfalle. Per trovare qualche cosa di simile o approssimativamente simile, è necessario fare il confronto con l’isola-continente del Madagascar. La catena montuosa – oltre duemila metri di quota – che delimita la frontiera tra Sarawak e Kalimantan (il Borneo indonesiano) è foderata da una delle foreste più impenetrabili del mondo, ancora vergine, con tribù nomadi di cui ancora oggi sappiamo poco o nulla.
E’ nel fitto buio della giungla del Borneo che cerca oblio e riscatto il marinaio disertore, protagonista di Lord Jim, il capolavoro di Joseph Conrad (1857-1924), che ispirò l’omonimo film del 1965 di Richard Brooks con Peter O’Toole. Capitano di lungo corso e scrittore in lingua inglese – nonostante le origini polacche – Conrad navigò per vent’anni. Nel 1887-88 batté l’arcipelago malese ed esplorò il Sarawak. La rielaborazione di queste esperienze diventò la materia narrativa di una prosa velata dalle malie e dalle fascinazioni dei mari d’Oriente. I celeberrimi romanzi della Malesia (La follia di Almayer, Un reietto delle isole, Il salvataggio, e soprattutto Lord Jim) stanno a testimoniarlo.
Per scoprire il Sarawak del mito e i suoi più maestosi paesaggi naturali, si lascia la costa per il Mulu National Park, nel cuore del Borneo. Per arrivarci, l’aereo sorvola per oltre due ore un’intricata foresta umida, venata dal serpeggiare di fiumi bradi. La grande attrazione del Parco è la rete di caverne, raggiungibili in piroga o con agevoli passeggiate su passerelle di legno tra alberi torreggianti segnalate con targhe, come in un giardino botanico. Perché il Mulu National Park è un’importantissima riserva per flora e per fauna: comprende otto tipi di foreste che, fra l’altro, includono centosettanta varietà di orchidee selvatiche.
Si visita la Deer Cave, la maggiore grotta del mondo, secondo il Guinnes dei primati: un antro lungo ottocento e alto centoventisette metri, illuminato da gigantesche finestre naturali e popolato da due milioni di pipistrelli. Poco prima del tramonto, questi escono dalla caverna, formando una linea continua e sinuosa che oscura il cielo per un’ora. E’ la più nota di una lunga serie di caverne. Le altre, anch’esse spettacolari, sono le contigue Wind Cave e Clear Water Cave: le si raggiunge in un’ora di piroga sul fiume Mulu e le si visita grazie ad una rete di scalette metalliche che disegnano una gimcana tra stalattiti e stalagmiti. A Clear Water, usciti dalla caverna, ci si può rinfrescare nuotando in una pozza d’acqua profonda tre metri.
A metà strada tra la base del Parco e Clear Water, si può sostare in un villaggio Penan, in riva al fiume. I Penan sono uno degli ultimi popoli di cacciatori-raccoglitori nomadi, hanno sempre vissuto in simbiosi con la foresta, non praticano l’agricoltura e non conoscono la proprietà privata della terra. In questo villaggio, il governo malese tenta di renderli stanziali grazie ad una scuola e ad attività artigianali. Impresa controversa. I Penan hanno sempre vissuto in improvvisati ripari di rami e di frasche, a lato di selve di sago (una palma dal cui midollo ricavano farina alimentare): vi trascorrono al massimo due settimane, per poi riprendere la caccia (con frecce velenose scagliate dalle cerbottane) a maiali selvatici, cervi, scimmie, leopardi nebulosi e orsi neri. Oggi, abitano in baracche di legno e lamiera e sopravvivono confezionando borse e stuoie di ratan intrecciato che vendono ai turisti. Ridotti a meno di quattromila individui, sono la tribù più smarrita e senza futuro del Borneo.
Diversamente dai Penan, gli altri gruppi etnici del Sarawak (come gli Iban o gli Orang-Ulu) godono di buona salute, hanno discreti rapporti e alcune affinità con la maggioranza Malay che domina la Malaysia. E hanno imparato a vendere la loro etno-diversità ai visitatori desiderosi di esperienze esotiche.
A un’ora di canoa dalla base del Parco, in direzione opposta a Clear Water, si raggiunge una longhouse Iban. Situate sulle rive dei fiumi, sono case-villaggio lunghe fino a duecento metri, nelle quali convivono decine di famiglie, che è come dire centinaia di persone. Sono comuni a diverse genti del Borneo. Versando un obolo (tutto il mondo è paese!), vi si può trascorrere la notte su una stuoia. E’ il modo migliore per osservare (nell’arco delle ventiquattr’ore) ritmi e stili di vita dei popoli della giungla. I gruppi tribali rappresentano la maggioranza dei quattrocentomila abitanti del Sarawak. Si trovano longhouse su palafitte anche nei dintorni di Kuchung, capoluogo della regione.

Appoggiata sull’ansa del fiume, Sarawak è una città indolente quanto ordinata. Con barche colorate da insegne pubblicitarie che funzionano da traghetti, con grattacieli che si specchiano nell’acqua, con palme, flamboyant e frangipani che profumano l’aria e ombreggiano il lungo-fiume, con canoe che a sera gareggiano sullo sfondo di tramonti infuocati. E’ una città multiculturale, dove convivono in pace razze, tradizioni e religioni diverse, con negozi indiani che si mescolano ai colorati templi dei cinesi confuciani, con monaci buddhisti che passeggiano all’ombra di moschee e di templi sikh, con le minigonne delle residenti occidentali che fanno a pugni con i chador delle musulmane. E con edifici – come Forte Margherita e la Square Tower – che ricordano i tempi romantici di James Brooke, il primo rajah bianco, il pioniere del colonialismo britannico nel Borneo. Un personaggio che, appunto, sembra uscito dalla penna di Salgari, anche se realmente esistito. Una figura, chissà!, immaginata lungo quell’unica, fatale rotta da Venezia a Brindisi, che accese la fantasia di uno scrittore da lume di candela che ha stimolato curiosità, voglia di conoscere, desiderio di informarsi e di viaggiare di intere generazioni.

   
   
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