LItalia
di quel miracolo
aveva soprattutto
la voglia
di abbandonare
i gironi della vita grama e stracciona che condizionava
ancora metà
del Paese.
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Dobbiamo prepararci a vivere un secondo boom? Consentitemi di essere
pregiudizialmente scettico, nel nome di un principio che un osservatore
che sia abituato a verificare scrupolosamente i fatti deve sempre
tener presente. Il principio, al limite del paradosso, è:
Cominciamo col negare levidenza . Se, ad esempio,
io dispongo di tutti gli elementi probanti che concorrono a risolvere
solarmente un caso di omicidio (il corpo della vittima, larma
del delitto, testimonianze convergenti, la confessione dellassassino),
regola deontologica vuole che metta in dubbio tutto, e che indaghi
sul campo fino alla ri-conferma oggettiva dei fatti.
Così per i progetti politici. Per crederci, con opportune
riserve, e per non essere soltanto un megafono magari involontario
di parte, è necessario che io verifichi giorno dopo giorno
la realizzazione dei prerequisiti strutturali e finanziari atti
a determinare una fase di forte sviluppo. Fuori da tutto questo,
non è boom, è solo propaganda, da una parte, e dallaltra
illusione ottico-fisica.
Oltre tutto, è ragionevole porsi una domanda preliminare
e una indotta. La prima: Che cosa fu il boom esploso a cavallo
fra gli anni Cinquanta e Sessanta? . La seconda: E
possibile, e al limite è auspicabile ripetere quel boom,
oppure, se proprio boom sarà, dovremo realizzare un modello
necessariamente diverso di sviluppo accelerato?
Nel 1959, quando i giornali britannici proclamarono il miracolo
economico italiano, ne fummo tutti felici. Ci sentimmo più
ricchi, da un giorno allaltro. Eravamo finalmente usciti dalla
miseria e dalle macerie del dopoguerra. Passo dopo passo, il benessere
si era diffuso. Nel Triangolo industriale si vivevano
tempi di grande euforia. I soldi (e le cambiali) giravano vorticosamente,
e molti esportavano i capitali in Svizzera. Anche la piccola borghesia
aveva potuto comprare lutilitaria. Le famiglie andavano al
mare, le ragazze ballavano lhula-hoop e cantavano Piove, Ciao
ciao bambina, di Domenico Modugno, cantautore nostrano che aveva
anticipato i temi della liberazione da molte sudditanze psicologiche,
comportamentali e rituali con la celeberrima Volare e con la rivoluzionaria
Libero.
Le gonne erano ancora lunghe, ma in spiaggia chi poteva esibiva
il bikini. Sulle rotonde sul mare si beveva il Campari shakerato.
I giovani dorati viaggiavano in Alfa Romeo spider o in Mg, e portavano
i pullover di cachemire arrotolati sul collo. I pezzi da novanta
arricchiti dalledilizia selvaggia e dalle industrie del boom
ormeggiavano in porto i loro barconi con orchestrina incorporata
e splendide silfidi al seguito, e regalavano alle amanti gran mazzi
di gladioli bianchi e flaconi di Arpège di Lanvin, il profumo
alla moda. Le signore-bene indossavano Biki, Iole Veneziani (che
era di origini pugliesi) e Schubert, ed esibivano i foulard di Pucci.
A Roma imperversava la Dolce Vita. A Venezia, a Positano, a Taormina,
circolavano i primi gay. A Riccione e a Tropea si mangiava la pizza
fino alle due di notte. Alla tv, ancora in bianco e nero e a canale
unico, lo show più seguito era Il Mattatore di Vittorio Gassman.
I divi indigeni più ammirati dalle donne erano Marcello Mastroianni,
Walter Chiari (altro pugliese) e Maurizio Arena. Ma luomo-mito
era Fred Buscaglione: cantava, beveva whisky, mangiava caviale,
fumava Camel. andava a letto allalba e possedeva una favolosa
Thunderbird cabriolet. I vitelloni di provincia pensavano a lui,
e sognavano Marilyn, Sophia, Gina, e Giovanna Ralli. I ragazzini
non potevano fare a meno dei blue jeans originali Levis importati
direttamente dallAmerica dai bancarellai dei mercatini rionali.
Alle feste si beveva Coca-Cola, per i diciotto anni i giovani ricevevano
il primo motorino, la Morini, la Gilera 125 o la Vespa. I contestatori
giravano in Lambretta.
Mentre stava per celebrarsi (ma sottotono) il centenario dellUnità,
lItalia era di moda in tutto il mondo. Le bionde straniere
riempivano alberghi e pensioni e si facevano rimorchiare senza tanta
fatica. Le feste strapaesane coccolavano i nuovi amori, come quello
simbolico fra Paola Ruffo di Calabria e Alberto di Liegi. Cera
attorno tanta felicità, accompagnata da indimenticabili motivi
da night: Tua, di Jula de Palma, metteva i brividi, e si attirava
le ire della Curia vaticana.
Il miracolo nacque nel 1958 e tramontò nel 1961.
Durò soltanto quattro anni. E fu impossibile dimenticarlo.
Anche perché, come scrisse Valerio Castronovo, quel miracolo
fece sì che lItalia «riducesse sensibilmente
i suoi divari di partenza con Inghilterra, Germania e Francia e
sopravanzasse belgi, olandesi e svedesi, che lavevano preceduta
in passato».
Le premesse, fra laltro, venivano da lontano. Tra il 50
e il 61, infatti, laumento annuo del Pil era stato del
6,7 per cento, e grosso modo negli stessi anni a fronte di un aumento
dei salari del 46,9 per cento cera stata una supercrescita
della produttività dell84 per cento. Fu proprio grazie
a questo enorme divario che si rese possibile una forte espansione
degli investimenti della grande industria, insieme con un exploit
senza precedenti delle esportazioni.
Erano gli anni in cui lindustria italiana copiava
dagli Stati Uniti le tecnologie fordiste, ed erano anche gli anni
della scoperta dei primi giacimenti Agip in Val Padana e del Piano
Sinigaglia per lacciaio di Stato. Gli anni di Cortemaggiore
e dellItalsider. Se aggiungiamo la stabilità monetaria
Oscar alla lira nel 1960 e un quadro politico abbastanza
solido, il miracolo è più che spiegato.
Le analogie con i nostri giorni, a volerle cercare, ci sono, e vanno
al di là della sola stabilità politica. Da più
parti, ma soprattutto dal Quirinale e da Via Nazionale, ascoltiamo
linvito pressante a importare le tecnologie davanguardia
della new economy e dellinformatica. Così come si sostiene
la necessità della realizzazione di grandi opere, che se
non sono paragonabili a quelle del dopoguerra, poco ci manca, visto
che dovrebbero riguardare strade, ferrovie, energia, acqua, aeroporti,
porti, ponti unici al mondo, in un contesto di pace sociale da ricercare
non attraverso la concertazione, ma utilizzando meccanismi di share
economy, caratterizzati da un forte legame tra incremento dei salari
e innalzamento della produttività delle imprese.
Detto questo, le differenze tra leconomia del terzo millennio
e quella del dopoguerra non possono essere taciute. A partire dal
modello einaudiano-degasperiano di allora, adesso insidiato da tentazioni
thatcheriane; e a proseguire con i processi di globalizzazione che
rendono molto più vulnerabili oggi rispetto ai tempi
del lancio del Mercato comune europeo uneconomia come
quella italiana.
E profondamente cambiata, poi, la posizione competitiva della
nostra industria: il modello di specializzazione produttiva italiana
appare superato, e ciò rende difficile un nuovo boom delle
esportazioni. Gli addetti ai lavori, inoltre, invitano a non dimenticare
come in quegli anni lItalia non avesse ancora accumulato il
suo pachidermico debito pubblico e quindi potesse permettersi interventi
di politica economica (le infrastrutture) e industriale (i piani
di settore), oggi improponibili.
Non va dimenticato, infine, un dato strettamente sociologico: lItalia
di quel miracolo era giovane, aveva tanti figli, e aveva soprattutto
la voglia di abbandonare i gironi della vita grama e stracciona
che, boom o non boom, condizionava ancora più di metà
Paese. Tutto, per questi giovani, era estero: Torino
come Sciaffusa, Milano come Moulouse, Genova come Düsseldorf.
Ora, non più. I figli e i nipoti laureati e specializzati
di quei pioneri hanno per patria lEuropa, affollano i centri
di ricerca americani, investono i loro guadagni alla Borsa di Londra.
E neanche il Sud è più quello di mezzo secolo fa.
E sempre indietro, e comunque in corsa affannosa. Ma ha preso
coscienza, almeno nelle componenti politiche e intellettuali di
maggior caratura, delle micidiali patologie provocate dallassistenzialismo,
e diffida, nello stesso tempo, dei programmi economico-finanziari
presentati come panacea dogni male: sta imparando a far da
sé, e, quel che conta di più, comincia a valutare
e a giudicare, comportandosi di conseguenza. Stiano attenti, quelli
che annunciano e magari realizzano il boom: considerino
che il Sud può mettersi in guardia, cominciando col negare
levidenza, se questa ridurrà il quadro dello sviluppo
alla solita Italia privilegiata. Perché il Mezzogiorno ha
mandato a memoria la storia, e non ha nessuna voglia di riviverla.
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