Dicembre 2001

IL CORSIVO

Indietro
Boom o booooom?
Aldo Bello
 
 

 

 

 

L’Italia
di quel miracolo
aveva soprattutto
la voglia
di abbandonare
i gironi della vita grama e stracciona che condizionava
ancora metà
del Paese.

 

Dobbiamo prepararci a vivere un secondo boom? Consentitemi di essere pregiudizialmente scettico, nel nome di un principio che un osservatore che sia abituato a verificare scrupolosamente i fatti deve sempre tener presente. Il principio, al limite del paradosso, è: – Cominciamo col negare l’evidenza –. Se, ad esempio, io dispongo di tutti gli elementi probanti che concorrono a risolvere solarmente un caso di omicidio (il corpo della vittima, l’arma del delitto, testimonianze convergenti, la confessione dell’assassino), regola deontologica vuole che metta in dubbio tutto, e che indaghi sul campo fino alla ri-conferma oggettiva dei fatti.
Così per i progetti politici. Per crederci, con opportune riserve, e per non essere soltanto un megafono magari involontario di parte, è necessario che io verifichi giorno dopo giorno la realizzazione dei prerequisiti strutturali e finanziari atti a determinare una fase di forte sviluppo. Fuori da tutto questo, non è boom, è solo propaganda, da una parte, e dall’altra illusione ottico-fisica.
Oltre tutto, è ragionevole porsi una domanda preliminare e una indotta. La prima: – Che cosa fu il boom esploso a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta? –. La seconda: – E’ possibile, e al limite è auspicabile ripetere quel boom, oppure, se proprio boom sarà, dovremo realizzare un modello necessariamente diverso di sviluppo accelerato?
Nel 1959, quando i giornali britannici proclamarono “il miracolo economico italiano”, ne fummo tutti felici. Ci sentimmo più ricchi, da un giorno all’altro. Eravamo finalmente usciti dalla miseria e dalle macerie del dopoguerra. Passo dopo passo, il benessere si era diffuso. Nel “Triangolo industriale” si vivevano tempi di grande euforia. I soldi (e le cambiali) giravano vorticosamente, e molti esportavano i capitali in Svizzera. Anche la piccola borghesia aveva potuto comprare l’utilitaria. Le famiglie andavano al mare, le ragazze ballavano l’hula-hoop e cantavano Piove, Ciao ciao bambina, di Domenico Modugno, cantautore nostrano che aveva anticipato i temi della liberazione da molte sudditanze psicologiche, comportamentali e rituali con la celeberrima Volare e con la rivoluzionaria Libero.

Le gonne erano ancora lunghe, ma in spiaggia chi poteva esibiva il bikini. Sulle rotonde sul mare si beveva il Campari shakerato. I giovani dorati viaggiavano in Alfa Romeo spider o in Mg, e portavano i pullover di cachemire arrotolati sul collo. I pezzi da novanta arricchiti dall’edilizia selvaggia e dalle industrie del boom ormeggiavano in porto i loro barconi con orchestrina incorporata e splendide silfidi al seguito, e regalavano alle amanti gran mazzi di gladioli bianchi e flaconi di Arpège di Lanvin, il profumo alla moda. Le signore-bene indossavano Biki, Iole Veneziani (che era di origini pugliesi) e Schubert, ed esibivano i foulard di Pucci.
A Roma imperversava la Dolce Vita. A Venezia, a Positano, a Taormina, circolavano i primi gay. A Riccione e a Tropea si mangiava la pizza fino alle due di notte. Alla tv, ancora in bianco e nero e a canale unico, lo show più seguito era Il Mattatore di Vittorio Gassman. I divi indigeni più ammirati dalle donne erano Marcello Mastroianni, Walter Chiari (altro pugliese) e Maurizio Arena. Ma l’uomo-mito era Fred Buscaglione: cantava, beveva whisky, mangiava caviale, fumava Camel. andava a letto all’alba e possedeva una favolosa Thunderbird cabriolet. I vitelloni di provincia pensavano a lui, e sognavano Marilyn, Sophia, Gina, e Giovanna Ralli. I ragazzini non potevano fare a meno dei blue jeans originali Levi’s importati direttamente dall’America dai bancarellai dei mercatini rionali. Alle feste si beveva Coca-Cola, per i diciotto anni i giovani ricevevano il primo motorino, la Morini, la Gilera 125 o la Vespa. I contestatori giravano in Lambretta.
Mentre stava per celebrarsi (ma sottotono) il centenario dell’Unità, l’Italia era di moda in tutto il mondo. Le bionde straniere riempivano alberghi e pensioni e si facevano rimorchiare senza tanta fatica. Le feste strapaesane coccolavano i nuovi amori, come quello simbolico fra Paola Ruffo di Calabria e Alberto di Liegi. C’era attorno tanta felicità, accompagnata da indimenticabili motivi da night: Tua, di Jula de Palma, metteva i brividi, e si attirava le ire della Curia vaticana.
Il “miracolo” nacque nel 1958 e tramontò nel 1961. Durò soltanto quattro anni. E fu impossibile dimenticarlo. Anche perché, come scrisse Valerio Castronovo, quel miracolo fece sì che l’Italia «riducesse sensibilmente i suoi divari di partenza con Inghilterra, Germania e Francia e sopravanzasse belgi, olandesi e svedesi, che l’avevano preceduta in passato».
Le premesse, fra l’altro, venivano da lontano. Tra il ‘50 e il ‘61, infatti, l’aumento annuo del Pil era stato del 6,7 per cento, e grosso modo negli stessi anni a fronte di un aumento dei salari del 46,9 per cento c’era stata una supercrescita della produttività dell’84 per cento. Fu proprio grazie a questo enorme divario che si rese possibile una forte espansione degli investimenti della grande industria, insieme con un exploit senza precedenti delle esportazioni.
Erano gli anni in cui l’industria italiana “copiava” dagli Stati Uniti le tecnologie fordiste, ed erano anche gli anni della scoperta dei primi giacimenti Agip in Val Padana e del Piano Sinigaglia per l’acciaio di Stato. Gli anni di Cortemaggiore e dell’Italsider. Se aggiungiamo la stabilità monetaria – Oscar alla lira nel 1960 – e un quadro politico abbastanza solido, il miracolo è più che spiegato.
Le analogie con i nostri giorni, a volerle cercare, ci sono, e vanno al di là della sola stabilità politica. Da più parti, ma soprattutto dal Quirinale e da Via Nazionale, ascoltiamo l’invito pressante a importare le tecnologie d’avanguardia della new economy e dell’informatica. Così come si sostiene la necessità della realizzazione di grandi opere, che se non sono paragonabili a quelle del dopoguerra, poco ci manca, visto che dovrebbero riguardare strade, ferrovie, energia, acqua, aeroporti, porti, ponti unici al mondo, in un contesto di pace sociale da ricercare non attraverso la concertazione, ma utilizzando meccanismi di share economy, caratterizzati da un forte legame tra incremento dei salari e innalzamento della produttività delle imprese.

Detto questo, le differenze tra l’economia del terzo millennio e quella del dopoguerra non possono essere taciute. A partire dal modello einaudiano-degasperiano di allora, adesso insidiato da tentazioni thatcheriane; e a proseguire con i processi di globalizzazione che rendono molto più vulnerabili oggi – rispetto ai tempi del lancio del Mercato comune europeo – un’economia come quella italiana.
E’ profondamente cambiata, poi, la posizione competitiva della nostra industria: il modello di specializzazione produttiva italiana appare superato, e ciò rende difficile un nuovo boom delle esportazioni. Gli addetti ai lavori, inoltre, invitano a non dimenticare come in quegli anni l’Italia non avesse ancora accumulato il suo pachidermico debito pubblico e quindi potesse permettersi interventi di politica economica (le infrastrutture) e industriale (i piani di settore), oggi improponibili.
Non va dimenticato, infine, un dato strettamente sociologico: l’Italia di quel miracolo era giovane, aveva tanti figli, e aveva soprattutto la voglia di abbandonare i gironi della vita grama e stracciona che, boom o non boom, condizionava ancora più di metà Paese. Tutto, per questi giovani, era “estero”: Torino come Sciaffusa, Milano come Moulouse, Genova come Düsseldorf. Ora, non più. I figli e i nipoti laureati e specializzati di quei pioneri hanno per patria l’Europa, affollano i centri di ricerca americani, investono i loro guadagni alla Borsa di Londra.
E neanche il Sud è più quello di mezzo secolo fa. E’ sempre indietro, e comunque in corsa affannosa. Ma ha preso coscienza, almeno nelle componenti politiche e intellettuali di maggior caratura, delle micidiali patologie provocate dall’assistenzialismo, e diffida, nello stesso tempo, dei programmi economico-finanziari presentati come panacea d’ogni male: sta imparando a far da sé, e, quel che conta di più, comincia a valutare e a giudicare, comportandosi di conseguenza. Stiano attenti, quelli che annunciano – e magari realizzano – il boom: considerino che il Sud può mettersi in guardia, cominciando col negare l’evidenza, se questa ridurrà il quadro dello sviluppo alla solita Italia privilegiata. Perché il Mezzogiorno ha mandato a memoria la storia, e non ha nessuna voglia di riviverla.

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000