Dicembre 2001

GOVERNARE LO SVILUPPO TRA NEPOTISMO E RINNOVAMENTO

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Le zone d’ombra
del potere
Claudio Alemanno
 
 

 

 

 

Il Paese non ha
ancora introiettato il concetto di mercato,
che è stato
combattuto
da marxisti
e cattolici e ha finito per assumere
l’immagine di
un’isola del peccato.

 

Se non è finita, la nostra Belle Epoque è profondamente ferita dopo gli attentati di New York e di Washington. Ma i venti di guerra e la tensione internazionale non possono far passare sotto silenzio i problemi interni. Nel Paese resta forte la domanda di diversità, che non può essere sospesa o disattesa. Tuttavia l’avvio di una stagione di riforme, ancora possibile nella eccezionalità del momento, rischia di risultare sterile se non si interviene sulle procedure e non si ha cura di innovare cultura e formazione della classe dirigente (la genteel society, fattore strategico nel governo dello sviluppo pensato in termini di liberismo costituzionale).
E’ difficile coniugare un’economia “nuova” con forme arcaiche di tutela e di organizzazione. Già nel 1972 il banchiere umanista Raffaele Mattioli aveva creato una “Associazione per lo studio della formazione della classe dirigente dell’Italia unita” che aveva il compito di studiare i comportamenti di tutti coloro che erano impegnati nella «gestione degli affari del Paese». Il progetto non decollò per la morte di Mattioli.
Adesso il tema acquista nuovo spessore per la progressiva erosione della mediazione politica e per l’accresciuta qualità richiesta al fattore umano nei cambiamenti sollecitati dalla new economy.

Una recente graduatoria sulla crescita del fatturato delle imprese europee, elaborata dall’Associazione Growth Plus, vede il nostro Paese all’ultimo posto con 56 imprese classificate (49 al Nord, 7 al Centro, nessuna al Sud, tutte di dimensione medio-grande). Si attendono dunque serie riforme strutturali, essendo esaurita la possibilità di utilizzare il tradizionale binomio svalutazione-esportazione.

Ma per attivare uno sviluppo making sense and making money occorre valutare equilibri e squilibri della crescita nell’ultimo mezzo secolo, bisogni e valori che danno oggi identità alla nostra società civile. Per rendere praticabile un impegno corale di comportamenti individuali e collettivi, superando alcune espressioni di storica arretratezza, dalle paratie classiste alla logica dei modelli spartitori imposti dalle maggioranze politiche. L’attuazione della legge sulle grandi opere è un esempio concreto di questa esigenza. Il libro bianco del Touring Club Italiano, Un paese spaesato, traccia una radiografia agghiacciante sullo stato del paesaggio. Elaborata da geologi, urbanisti, giuristi, naturalisti, sottolinea l’urgenza di nuove sinergie tra pubblico e privato, capaci di produrre una progettualità pluritematica con finalità strettamente interrelate. Evidenziando la necessità di definire nel pre-politico i valori fondamentali da porre a presidio della comunità politica (non tutto è catalogabile nel processo di legittimazione o delegittimazione politica, antico e attuale vizio nazionale).
Si parla sempre più spesso di banca etica e di marchio etico per la produzione industriale (l’Avvocato Agnelli lo indica tra le priorità necessarie). Questi nuovi valori economici sono perseguibili se contestualmente si coltiva il concetto di “dirigenza etica”. Cioè l’esercizio di responsabilità personali con motivazioni che abbiano come snodo centrale e misura di riferimento il cittadino-consumatore-risparmiatore, la sua vita, la sua dignità e la sua libertà (istanze riconosciute dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea). Da non confondere con i codici di autodisciplina, astratti itinerari disseminati di trappole per funzionari scrupolosi. Da praticare come testimonianza di una religione civile, diversa dal credo di appartenenza, senza cedere alla tentazione quotidiana di coniugare l’ovvio con la retorica. Ciò che è efficiente non è più sufficiente.
E’ un monito che viene anche dalla tragedia americana, rendendo evidenti i limiti dell’illusione occidentale del progresso tecnologico.
Si attendono sostanziali contributi al deprezzamento dell’umanesimo inumano espresso dal fondamentalismo di mercato e all’affermazione di quel “capitalismo naturale” che, privilegiando la tutela dell’ecosistema, rende vivibile e percorribile la terza rivoluzione industriale (al declino dell’era dell’acciaio, del petrolio e del silicio si accompagna lo sviluppo di tecnologie alternative-fibre di carbonio, fibre ottiche, propellenti all’idrogeno, energia solare, ecc.). Passando dal primato della produttività del lavoro, in un modello con risorse illimitate, al primato della produttività delle risorse, nel modello emergente delle scarsità. Con determinazione e senza traumi, ma con il ripudio del silenzio, facile sostegno del potere costituito che ha dell’innovazione un concetto mercantile di breve periodo.
Non s’intende qui promuovere un ritorno al mondo francescano, visto che diventa sempre più difficile vedere in giro un saio. Si vuole solo evidenziare la necessità di strategie economiche in cui la “dirigenza” si eserciti su nuovi orizzonti valoriali, centrati su una forte caratterizzazione sociale e sulla ricerca e l’impiego di parametri interdisciplinari nell’analisi economica (una precondizione dello sviluppo).
Nel lungo periodo ciò significa che la governabilità del sistema deve privilegiare gli interessi della gente, non quelli immediati del business. L’assenza di una riflessione etica implica l’accentuazione di forme estreme di egocentrismo dovute, con buona probabilità, a un difetto di conoscenza più che all’assenza di solidarietà.
E’ noto il deficit di cultura di governo che in Italia investe le istituzioni e il mondo degli affari. Conflitto di interessi, moralità pubblica, rispetto della legalità, trasparenza nei rapporti finanziari e nella gestione societaria sono tematiche di diritto e di costume che riguardano tutte le sfere della politica, dell’economia e delle istituzioni. Investono direttamente le pratiche attuative dello sviluppo e indicano il vero spartiacque tra un’era crepuscolare e una di rinnovamento (la Transparency International, autorevole organizzazione mondiale che controlla l’andamento della corruzione nei vari Paesi, ha espresso ancora giudizio negativo sull’Italia. Su 10 punti ne ha assegnati 5,5 a Namibia, Estonia, Taiwan, contro i 9,9 della Finlandia, i 9,5 della Danimarca, i 9,4 della nuova Irlanda).
Cose non nuove se già Cavour nella fase formativa dello Stato unitario sentiva la necessità di affermare: «Che furfanti saremmo se facessimo per noi le cose che siamo pronti a fare per l’Italia» (Elogio dell’uomo politico di Frederik S. Oliver). Ma cose sicuramente nuove e importanti per istituzioni che oggi hanno responsabilità internazionali di primo piano (Nato, G-8, Wto, formazione della futura Europa).
Fatti nuovi richiedono nuove opinioni, recita un vecchio adagio inglese ispiratore della realpolitik. Emerge un modello complesso di “Società relazionale” che a livello internazionale crea un intreccio sempre più fitto di rapporti commerciali, finanziari e culturali. Un fatto nuovo che mal sopporta il precariato della governabilità, sia essa di centro o di periferia, internazionale, regionale o locale.

La globalizzazione, tema ingombrante e insidioso della modernità, fa crescere insieme ricchezza e disuguaglianza, ponendo seri problemi di giustizia redistributiva. Come tutte le rivoluzioni, attenta all’autorità dei governi, senza produrre ancora forme visibili di globalizzazione governata (più esattamente, senza produrre un’area giuridica globalizzata).
Tuttavia, dopo i massacri dell’11 settembre, è doveroso registrare una battuta d’arresto. Di fronte ad un’inedita, grande alleanza contro l’islamismo radicale, i movimenti delle persone e dei capitali diventano più difficili per ragioni di sicurezza.
Paradossalmente una nuova, possibile coalizione politica può rallentare il processo di coesione economica (i soci hanno ancora interessi molto diversi, soprattutto quando si cerca di disegnare una nuova mappa del potere petrolifero).
In Italia le tensioni provocate dalla ricerca geopolitica di nuove aree d’influenza si aggiungono ai nostri mali endemici, avendo un Nord in cui il particolare prevale sull’universale e un Sud in cui l’antico sentimento del tragico continua a coniugarsi al singolare, mentre la collettività avverte l’inquietudine e il disagio dell’esclusione. Si evidenzia nei fatti un vissuto di costante incomunicabilità che stenta a dare corpo a formule leggibili di codificazione nazionale (anche il traguardo dell’uguaglianza digitale finisce per accrescere le differenze sociali perché premia i più informati e scolarizzati).

Queste quotidiane condizioni di disagio, fortemente limitative delle politiche di sviluppo, richiedono a livello di management istituzionale e aziendale un’accresciuta sensibilità verso la promozione di aree omogenee, coordinate da “regole” che implicano un patto sociale condiviso. Sovente si commette l’errore di ritenere che questo tema competa alla dialettica politico-legislativa. Certamente le leggi sono necessarie ma in larga misura le “regole” in questione hanno valenza aggregante e forte impatto sul costume, perciò appartengono al momento pre-politico di cui fa parte la cultura di governo (le funzioni possono variare ma dipendono sempre dalla qualità del funzionario). “C’est le ton qui fait la musique”! Anche a legislazione invariata.
Oltre alle questioni di merito esistono importanti questioni di metodo, soprattutto quando l’economia globale veste i panni di un potere trasversale che provoca fenomeni crescenti di relativismo giuridico e normativo, evidenziando l’usura delle leggi nazionali e internazionali (un meta-potere, sostiene Ulrick Beck, che riduce l’autonomia dei governi a vantaggio di nuovi centri di potere non rappresentativi).
Il Paese non ha ancora introiettato il concetto di mercato, che da noi non ha mai avuto buona accoglienza. E’ stato combattuto da marxisti e cattolici e ha finito per assumere l’immagine di un’isola del peccato, di un Club per gli affari dei ricchi. Ora la globalizzazione lo ha eletto giudice supremo cambiando, con l’eclisse dell’onnipotenza statale, le direttrici della politica e della storia. Non siamo più agli albori di questo fenomeno. Ci siamo tutti dentro, imbrigliati nei sofismi liberisti e nelle maglie della protesta antiglobal (anche se la possibilità d’imporsi all’opinione internazionale come soggetto politico è molto frustrata dai toni romantici del nichilismo esistenzialista e dalle procedure di guerriglia urbana che prevalgono nel movimento, ancora lontano dal definire un suo statuto di universalità).
Le nuove circostanze ampliano di fatto la sfera delle libertà economiche e ciò richiede aggiornamenti sostanziali e valori etici all’impegno della classe dirigente, apprezzata più per la capacità di creare valore, meno per l’abilità nel tessere sottotraccia trame di potere (si legga la carta dei valori di Federmanager che dà una definizione del manager del terzo millennio).
Così, nel progressivo radicamento della devolution, è normale che si affermi una forte dialettica tra autorità centrali e periferiche, ma è compito della classe dirigente (soprattutto del core business della Pubblica Amministrazione) dare testimonianza di protagonismo sinergico e preservare dal declino il concetto di Nazione, inteso come identità di cultura, lingua, costumi e tradizioni.
Certamente l’utopia di un potere assoluto della meritocrazia, con il lavoratore che licenzia il datore di lavoro, non è ancora a portata di mano.
Perciò un dibattito franco e civile su qualità e autonomia della classe dirigente resta attuale e centrale nelle nuove strategie di crescita, nella ridefinizione di ruoli ed equilibri dell’ordine economico e istituzionale, nell’articolazione di nuovi scenari di democrazia conseguenti alla destrutturazione dell’apparato statale.

Non si può disconoscere che la classe politica abbia prodotto sostanziali innovazioni organizzative, surrogando i tradizionali pensatoi di partito con strutture esterne più agili. Mutuando l’esperienza di prestigiose think tanks americane come l’Heritage Foundation o la Brookings Institution, sono state create Fondazioni e Associazioni che in concorso con centri universitari hanno il compito di mettere a punto i progetti più impegnativi. Ma restano i buchi neri delle categorie storiche utilizzate per interpretare la realtà, delle metodologie adottate nel lavoro di ricerca e della cultura di governo, ampiamente omologata alle logiche di regime.
L’analisi economica risulta proiettata verso studi specialistici e approfondimenti settoriali (domina l’idea di un progresso lineare), mentre dalla new economy, dalla tecnologia dell’informazione e dalle problematiche ambientali arrivano sollecitazioni per nuove filosofie gestionali e forti motivazioni di ricerca interdisciplinare (anche la recente riforma universitaria sembra incoraggiare i tradizionali steccati tra facoltà umanistiche e scientifiche).
Nell’economia reale l’integrazione tra tecniche finanziarie e nuove tecnologie accresce la collaborazione tra istituzioni finanziarie e imprese. Mentre le strategie dell’innovazione disegnano percorsi di competitività che, ponendosi sempre più chiaramente a livello di macroregioni europee e mondiali, sollecitano istanze nuove d’integrazione formativa e conoscitiva (per le responsabilità operative sono sempre più richiesti i global executives). Non a caso l’ultimo Nobel per l’economia è stato assegnato a tre americani studiosi delle “asimmetrie informative” nelle relazioni tra i diversi attori dell’economia (Michael Spence, George A. Akerlof, Joseph Stiglitz).
Non si possono più ostentare successi prodotti dal modello renano, lombardo o bretone. Sono in atto mutamenti radicali che implicano nuove responsabilità anche nell’esercizio delle professioni e dovrebbero perciò sollecitare l’interesse degli ordini professionali. L’internazionalizzazione dei mercati induce avvocati, ingegneri, commercialisti e altre figure professionali a fare riferimento a studi esteri con frequenza crescente. La Fifa (Federazione italiana del terziario avanzato - Confindustria) ha valutato per il 2000 un deficit commerciale del settore del 50% rispetto all’anno precedente (mentre i primi cento studi legali inglesi nello stesso periodo hanno fatturato 18 mila miliardi di lire, di cui il 30% conseguito all’estero). Proprio nel settore legale, a fronte di una sovraesposizione del diritto amministrativo (sconosciuto al mondo anglosassone) si fa notare una marcata sottovalutazione, delle tematiche di diritto internazionale e comparato, con carenze gravi per la pianificazione di strategie d’impatto economico-giuridico sul territorio (si avverte ad esempio la necessità di conoscere il diritto serbo, croato, albanese, per dare attualità e impulsi nuovi ai servizi d’impresa).
Il valore aggiunto dell’information technology risulta inoltre superiore per chi lo utilizza rispetto a chi lo produce e ciò consente di prevedere maggiore autonomia e potere negoziale per gli addetti alle libere professioni (dovrebbero intensificarsi i rapporti fiduciari di tipo orizzontale). Se incoraggiata, questa prospettiva potrebbe avere rilevanza per una diversa gestione del sistema-Paese, producendo una governabilità meno soggetta alla gerarchia verticale, all’influenza della politica istituzionalizzata.

Anche il management aziendale versa in condizioni di eccessivo ossequio verso una proprietà che nonostante le privatizzazioni continua ad essere di Stato, familiare o a struttura rigida, governata dai patti di sindacato (i fondi pensione, le public companies e l’azionariato popolare hanno grandi difficoltà a farsi largo). Le famiglie italiane detengono un quarto dei titoli trattati in Borsa, ma al mercato si continua a credere poco. E’ da condividere un giudizio recente di Le Monde: «... la Penisola sta trasformando il suo capitalismo... ma è priva di nuovi imprenditori». Produce più investitori finanziari (impegnati soprattutto nei flussi di capitali di breve periodo) che veri imprenditori, avallando una diarchia tra mondo bancario, sempre più chiuso in un recinto autarchico, e mondo industriale, sempre più esposto al rischio delle incursioni estere e al controllo di pochi e noti gruppi nazionali.
In un’economia fortemente personalizzata si fanno sentire tutti i limiti dovuti all’assenza di un management libero e di un capitale libero. Uno stato di fatto che, in assenza di un mercato dei manager, penalizza la formazione e la progressione di carriera della categoria. Meno “interna”, gestita dagli uffici del personale, e più “esterna”, con forme nuove di mobilità interaziendale, costruita secondo criteri soggettivi di pianificazione.
Sul piano della ricerca gli studi di organizzazione, management e analisi dei processi decisionali si esercitano sempre più sull’interazione tra obiettivi complementari e concorrenti e avvertono maggiore sensibilità verso la psicologia cognitiva e le valutazioni empiriche dei comportamenti economici (torna in primo piano il pensiero di Herbert Simon e la sua teoria delle decisioni razionali fondate sull’intreccio dei saperi).

Grande attenzione viene anche riservata al “glocalismo” (studio degli eventi globali e relativo impatto locale), evidenziando l’utilità di introdurre nel dialogo impresa-sindacato le tematiche più care alla Società civile (salute, ambiente, diritti dei consumatori). Avendo chiaro l’obiettivo di perseguire in ogni contesto la compatibilità tra economia dei flussi ed economia dei luoghi, per non lasciare spazi territoriali ai margini del benessere e della democrazia.
Mentre si concentra il potere economico, l’analisi economica si interiorizza, scoprendo importanti connessioni tra i diritti della persona (individuali e collettivi) e il mercato, termini apparentemente contraddittori nell’equazione classica dell’economia liberale. Il nostro timore è che di fronte al fervore rinascimentale che anima il governo, la gestione dello sviluppo segua percorsi distorsivi già visti (si pensi ai poli industriali e ai danni che hanno causato al Mezzogiorno). Anche per l’immobilismo di una classe dirigente che non ha un alto livello di credibilità (il suo maggiore capitale) e non appare sufficientemente motivata ad assolvere in autonomia quei compiti di vigilanza e impegno propositivo che le sono richiesti in una moderna democrazia industriale.
E’ facile passare dal brodo ai cappelletti, più difficile è passare dai cappelletti al brodo. Per produrre governance. Oltre i riti del government, intrappolati in un arcipelago di tatticismi politici imposti dalla frammentazione del potere. Facendo vivere nei cittadini l’illusione di non dovere sperare solo nella extraterritorialità.

Nota bibliografica

Per saperne di più sul comportamento amministrativo nel nuovo cosmopolitismo, sulle questioni culturali, istituzionali, etiche prodotte dalla globalizzazione:

– Herbert Simon, Il comportamento amministrativo, Feltrinelli, 1999.
– Sebastiano Maffettone, Etica pubblica, Il Saggiatore, 2001.
– Amartya K. Sen, Lo sviluppo è libertà, Feltrinelli, 2000.
– Jürgen Habermas, La costellazione post-nazionale, Feltrinelli, 2000.
– Ulrich Beck, I rischi della libertà, Il Mulino, 2000.
– Paul Hawken - Amory Lovins - L. Hunter Lovins, Natural Capitalism, Fist Back Bay paperback edition, october 2000.

   
   
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