Dicembre 2001

Scenari per il futuro

Indietro
E le palme
divoreranno gli abeti
Biser
 
 

 

 

 

L’aumento della temperatura muoverà la vegetazione mediterranea verso nord. L’acqua diventerà anche in Europa un bene scarso. I rischi delle fasce costiere eccessivamente industrializzate.
I trend ambientali che disegnano il nostro futuro: nell’ultimo mezzo secolo l’economia globale è cresciuta di sei volte e la produzione di energie (e di emissioni di anidride carbonica conseguenti) si è quadruplicata.

 

Proprio quando sembrava che per l’accordo sul Protocollo di Kyoto non ci fossero più speranze, all’alba di una mattina di luglio, dopo infiniti rinvii e sconsolanti delusioni, si è trovata una compromissione. «Kyoto è salvo», hanno detto in molti. «Ma il prezzo pagato è molto alto», hanno commentato altri. Il “problema ambiente” non è stato del tutto abbandonato. Si ricomincerà da qui.
I negoziati si sono sbloccati quando i Paesi dell’Unione europea hanno deciso di alleggerire il sistema di “compliance”, vale a dire il regolamento delle sanzioni da comminare a quei Paesi che non dovessero rispettare i parametri del Protocollo. Si è deciso infatti di rendere volontaria l’adesione al sistema delle sanzioni, anziché vincolante, come prevedeva la formulazione originale della bozza di compromesso.

Il Giappone ha detto sì, e il negoziato è così giunto a una conclusione.
La struttura giuridica del Protocollo, in sostanza, rimane in piedi: la riduzione delle emissioni di anidride carbonica non sarà basata esclusivamente su interventi di riconversione, ma verrà integrata dai cosiddetti sinks (foreste e boschi che assorbono il biossido di carbonio); i Paesi industrializzati potranno fare uso del commercio (o baratto) di permessi di emissione e di meccanismi di cooperazione internazionale con i Paesi più poveri. E per aiutarli a investire in tecnologie pulite, i Paesi industrializzati si sono impegnati a versare entro il 2005 appena 320 milioni di dollari, molto meno di quanto ipotizzato nelle prime fasi della trattativa.
Insomma, una mezza resa agli Stati Uniti, che di riduzione delle emissioni e di riconversioni non vogliono neanche sentir parlare, in nome del loro sviluppo industriale.

Ma per noi, per l’Europa, quali sono i dati di fatto, e quale la situazione?
Immaginiamo una linea retta che tagli il Mediterraneo da Gibilterra al Bosforo, all’altezza della Sicilia: noi che stiamo al di sopra saremo sempre più bagnati, quelli che si trovano al di sotto sempre più aridi. Ma non pioverà a misura delle nostre necessità. Saranno piogge torrenziali: improvvise, intense, devastanti. Più che altro, alluvioni. Perché una delle conseguenze del riscaldamento dell’atmosfera (previsione per l’Italia: +3° in un secolo) è l’abbreviazione del ciclo dell’acqua, che evaporerà e ricadrà sulla terra in tempi sempre più stretti e in quantità sempre più concentrate. Così copiose, che non ci sarà terreno capace di assorbirle in tempo reale. Ne abbiamo già avuto qualche assaggio, nel nostro Paese che è una frana continua. Che il tempo sia cambiato, possiamo misurarlo tutti con i ricordi personali. Quanto sia cambiato, lo dicono i climatologi. Un primo dato, inoppugnabile: la temperatura sale in maniera costante e l’impennata verso l’alto è cominciata nella seconda metà del secolo scorso con la ricostruzione post-bellica e con il boom economico. E’ stato allora che i combustibili fossili (carbone, petrolio, gas) sono stati bruciati a ritmi sempre più rapidi, per alimentare le centrali elettriche e i motori, le fonderie e il riscaldamento domestico. E’ da allora che è iniziata nell’atmosfera quella concentrazione di un gas naturalmente innocuo – l’anidride carbonica – che però, in dosi eccessive, forma una cappa: l’effetto serra. Perché c’è un altro dato, che viene studiato a sé, anche se strettamente intrecciato all’ambiente: in un secolo, la popolazione mondiale è triplicata. Due miliardi di uomini negli anni Trenta, sei miliardi alla fine del 1900. Divoratori di energia, quando non nei fatti, almeno nelle speranze.
Il clima, ama ripetere il geochimico americano Ray F. Weiss, esperto nell’elaborazione dei modelli climatici, è come una grossa nave: impiega molto tempo a partire, molto tempo a fermarsi. Per questo ci sono voluti decenni per capire che eravamo proprio noi, con le nostre attività, a cambiarlo. La prova provata è nei modelli matematici, dove la variabile “immissione di anidride carbonica nell’atmosfera” è di gran lunga più destabilizzante di variabili naturali come i cicli solari o l’attività vulcanica.
Che cosa ci aspetti, è stato simulato ai computer migliaia di volte ed è in parte già visibile. Sulle Alpi, ad esempio: dal 1850 questi monti hanno perso metà dei loro ghiacci. Nei prossimi cinquant’anni ne perderanno un altro 25 per cento, quasi tutto il resto se ne andrà entro la fine del XXI secolo. Con due tremende conseguenze: l’instabilità dei pendii al di sopra della linea degli alberi, e un brusco cambiamento nel regime dei fiumi. Le montagne riforniscono d’acqua la maggior parte dei corsi fluviali europei – Reno, Rodano, Danubio, e da noi Po, Arno, Tevere –, la cui portata dipende da quanta neve si è accumulata durante l’inverno. Se nevica più tardi e disgela più presto, i fiumi gonfiano a primavera e si svuotano d’estate. E allora ne soffrono l’agricoltura e le reti idriche delle città.
C’è poi lo scenario delle coste, con un innalzamento medio del livello del mare di cinque millimetri l’anno. In realtà, è difficile calcolare anche con approssimazione dati più precisi, dal momento che nel conto entrano, con l’aumento della temperatura, anche i movimenti della crosta terrestre, i venti, le tempeste d’ogni tipo, la circolazione oceanica, i picchi di caldo.
Non sarebbe un ploblema, se le coste fossero libere da insediamenti umani. Invece la popolazione, l’attività economica e la terra fertile sono spesso concentrate nelle fasce costiere.

L’impatto del clima sulla salute non è meno drammatico: caldo e umidità moltiplicano i “vettori” di malattie infettive, come le zanzare e gli acari, e aumentano la concentrazione di tutte le sostanze che infastidiscono le vie respiratorie. Ci saranno sempre più malattie respiratorie o legate ai colpi di calore, e sempre meno malattie da raffreddamento.
Anche gli animali e le piante risentiranno dello stress climatico: dell’aumento diretto della temperatura e dei suoi effetti indiretti, come l’umidità del suolo, gli incendi, la presenza di erbivori e di parassiti.
Ma non entrerà in azione l’evoluzione, selezionando gli individui più adatti al nuovo habitat? No. Si è già visto, con grande sorpresa, che gli adattamenti evolutivi sono molto rari. Le piante non mutano caratteri, ma si distribuiscono diversamente. Salgono verso il nord.
Arrivano le palme, ci abbandonano gli abeti. E Darwin va a cuccia.


Dieci anni di contrasti tra Europa e Stati Uniti

1992 - Rio de Janeiro. Si chiama “Earth Summit” la prima conferenza sull’ambiente organizzata dall’Onu. Si parla di riscaldamento della Terra, si fissa un obiettivo: ridurre le emissioni dei gas ad effetto serra ai livelli del 1990 entro il 2000. Gli Stati Uniti si oppongono.

1997 - Kyoto. Cinque anni dopo, la concentrazione nell’atmosfera dei gas ad effetto serra è aumentata e la scadenza per riportarla ai livelli 1990 è differita di dieci anni. L’emergenza è evidente, l’impegno indispensabile. 180 Paesi firmano il Protocollo di Kyoto. Ma poi quasi nessuno lo ratifica.

1998 - Buenos Aires. Le emissioni di anidride carbonica crescono. Nella conferenza argentina si discute del “come” applicare l’accordo di Kyoto. Nessuno vuol toccare il vero nodo, cioè l’uso forsennato dei combustibili fossili, così si discute di “meccanismi flessibili” e di “commercio di quote”.

2000 - L’Aja. La rottura tra Stati Uniti ed Europa si consuma a novembre: gli americani, i più grandi divoratori di energia del pianeta, accettano soltanto “meccanismi flessibili” e ne inventano di sempre nuovi. L’Unione europea si irrigidisce. Pochi mesi dopo, il neo-presidente Bush afferma: Kyoto è morto.

2001 - Bonn. Un mini-accordo salva il Protocollo. L’Europa, sebbene accusata di eccessive concessioni, vara le misure anche senza gli Stati Uniti. L’appuntamento è per fine anno, a Marrakech.

I punti chiave dell’intesa di Bonn

Riconversione industriale: la via maestra alla riduzione delle emissioni di gas serra è lasciata nel vago. Si torna a discutere di energia nucleare.

Meccanismi flessibili: nella contabilità nazionale di inquinamento/disinquinamento entrano anche il commercio delle “quote di emissione di gas” tra chi brucia più e chi brucia meno combustibili fossili. Entrano anche i progetti di cooperazione internazionale con i Paesi in via di sviluppo, per fornire tecnologie pulite.

Sinks: le foreste, intese come serbatoi di compensazione, (le piante inspirano biossido di carbonio ed espirano ossigeno), diventano una delle colonne portanti per la riduzione dell’anidride carbonica nell’atmosfera. Nella prima versione del Protocollo di Kyoto, la riforestazione contava come “disinquinante” in maniera limitata. Nel nuovo accordo, il ricorso a nuovi boschi è più largo. Anche se non si parla del vero rischio: abbattere le vecchie foreste e piantarne di nuove, perché le piante giovani assorbono più anidride carbonica. Magari con monocolture a crescita rapida.

Finanziamenti: il Fondo aiuti ai Paesi in via di sviluppo diventa a contribuzione volontaria. L’Unione europea si impegna a versare, entro il 2005, la somma di 700 miliardi.

Rispetto degli impegni: un altro dei punti critici. Nel Protocollo di Kyoto si prevedevano sanzioni legali per quei Paesi che non avessero rispettato gli impegni assunti. Ora si parla di generiche azioni di monitoraggio, con sanzioni non obbligatorie né automatiche.

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000