Dicembre 2001

PROSPETTIVE

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L’alternativa è il declino
Alfredo Recanatesi
 
 

 

 

 

Un generale declino, che fa capo
alla natura stessa
del nostro sistema produttivo,
fatto in larghissima prevalenza di piccole imprese.

 

Un’ampia parte delle “Considerazioni” del Governatore Fazio è dedicata alla gestione della cosa pubblica. E’ la parte più tradizionale e più seguita sia perché in anni ancora recenti il risanamento finanziario rivestiva una cruciale rilevanza ai fini della partecipazione alla moneta unica, sia perché il settore pubblico aveva effettivamente un peso dominante e invadente sul sistema economico, sia infine perché, con il potere che aveva di determinare la politica monetaria, Bankitalia aveva un’influenza considerevole, talvolta decisiva, sul corso delle vicende politiche.
Ciò nondimeno, e malgrado l’interesse aggiuntivo dovuto alla transizione da una legislatura all’altra, questa parte delle riflessioni ha avuto poco di nuovo da dire. Era già acquisito che da un anno a questa parte i conti pubblici tendessero a deragliare dallo stretto e ripido percorso tracciato dagli impegni europei; che, di conseguenza, di spazio per ridurre ulteriormente la pressione fiscale per il momento non ce n’è; era già acquisito che ragioni demografiche imporranno di rimettere mano al sistema previdenziale.

Meno scontata è, invece, la parte dedicata alle imprese; non del tutto nuova, ma certo meno tradizionale. Qui è stato sottolineato come la perdita di competitività sui mercati internazionali sia essenzialmente riconducibile alla tipologia e qualità dei prodotti: «Influisce la limitata presenza del nostro sistema nella produzione di beni ad alta tecnologia». Beni, la cui domanda cresce nel mondo ad un ritmo doppio di quello degli altri beni, e la cui quota sul totale delle esportazioni negli ultimi dieci anni è rimasta stazionaria all’8 per cento in Italia, mentre è salita dal 13 al 19 per cento nell’Unione europea e dal 26 al 29 per cento negli Stati Uniti.
Detto in altri termini: perché noi italiani dovremmo mantenere un livello di vita più elevato dei coreani, dei brasiliani o dei rumeni, se nel mondo offriamo cose che anche loro sono capaci di offrire?
Ecco delineato il problema non solo della competitività, ma di un più generale declino, che fa capo alla natura stessa del nostro sistema produttivo, fatto in larghissima prevalenza di piccole imprese, poco propense ad investire in qualità e in innovazione, sia per carenza di mezzi finanziari, sia per un’impostazione strategica nella quale i rischi della ricerca mal si conciliano con l’asservimento dell’impresa agli interessi familiari. Con una disperante aggravante. Fatte salve le esigenze di consenso e di concertazione, le soluzioni ai problemi posti dalla gestione della cosa pubblica, quali un disavanzo superiore alle previsioni, una spesa previdenziale troppo elevata, le rigidità dei mercati, ci sono, si conoscono: si tratta di applicarle.
Ma i problemi che derivano dalla micro-imprenditorialità, ossia da un fenomeno che ancor prima di essere economico è una nostra peculiare e radicata connotazione sociale, come possono essere affrontati e risolti? Questo non lo sa nessuno. E le analisi confermano che, se non si risolvono, mantenere il passo dei Paesi più avanzati sarà difficile e, forse, impossibile.

Se il Distretto muore

s. b.

Il vero e proprio vincolo alla crescita dell’economia nazionale è costituito dal nanismo delle imprese italiane, (cui il Distretto industriale, com’è stato osservato, pone rimedio solo parzialmente); dall’assoluta parsimonia con cui le aziende investono in ricerca e sviluppo (lo 0,56 per cento del Prodotto interno lordo, ossia un terzo rispetto alla media europea e un quarto rispetto agli Stati Uniti); dalla conseguente incapacità di incorporare, con l’innovazione, maggiore valore aggiunto e di aggredire i settori tecnologicamente avanzati.
L’ultima della lunga serie di rampogne che da tempo sferza il sistema produttivo nazionale, denunciandone le inadempienze, riecheggia ancora dalla Banca d’Italia, in parallelo con quanto è stato dimostrato, prove alla mano, che in nessuna parte del mondo c’è un imprenditore disposto ad investire in un habitat ostile, per carenza dei prerequisiti: che dappertutto vengono predisposti dalla mano pubblica.

Da queste prese di posizione emerge che l’incapacità di costruire lo sviluppo sulle tecnologie più innovative non è un destino per le imprese italiane, ma è l’inevitabile conseguenza della mancanza di lungimiranza della politica. Queste affermazioni sono costruite per deduzioni comparate.
In scena, ancora oggi, vanno infatti le “case story” di aree che soltanto venticinque anni fa (ma in Germania e in Taiwan soltanto sette-dieci anni fa) erano caratterizzate da insediamenti industriali tradizionali, e di città a vocazione amministrativa (come Washington), che oggi sono diventate “Distretti di eccellenza” mondiale nei settori di punta, intendendosi per “Distretto” un’area vocata ad una certa attività, che fa di una conoscenza diffusa sul territorio e di strette interrelazioni con le istituzioni locali suoi punti di grande forza.

Infatti, che cosa aveva consentito alla Germania (e in questo ambito alla Renania-Westfalia) di diventare numero uno in Europa nel campo delle biotecnologie umane in soli sette anni; a Washington di trasformarsi da città sostanzialmente amministrativa (come del resto quasi tutte le capitali) in terza regione al mondo per le biotecnologie e in prima per l’information technology e per Internet; a Tolosa di conquistare la leadership europea nell’aeronautica e nell’aerospaziale (ma anche nelle scienze della salute); o a Taiwan in uno dei primi centri asiatici dell’elettronica? Dietro tutti questi casi di trasformazioni straordinarie che hanno saputo attrarre fiumi di capitali, valanghe di insediamenti industriali di grandi e piccole dimensioni, moltiplicare in curva esponenziale occasioni e posti di lavoro, e, in ultima analisi, fare da volano ad una crescita robustissima dell’economia, ci sono certamente le avventure personali di centinaia di imprenditori; ma, per ammissione degli stessi protagonisti, nulla sarebbe stato possibile se, a monte, il potere politico non avesse creato le precondizioni: sul piano finanziario, con cospicui programmi di investimenti in ricerca; sul piano delle risorse umane, con università al passo con i tempi, con scuole di alta specializzazione, e con grandi istituti di formazione scientifica di primissimo ordine.
In modo spontaneo (come negli Stati Uniti con gli investimenti della Difesa, e con le grandi Agenzie federali di ricerca, pubbliche e private), o con scelte lungimiranti e con un’attenta programmazione da parte dei governi nazionali o locali (come in Francia, in Germania e a Taiwan), e con una stretta collaborazione tra pubblico e privato, si sono concentrati denaro e sforzi formativi su obiettivi specifici: e gli obiettivi sono stati centrati.
Inutile chiedere l’impossibile alle imprese nell’Italia che vede la ricerca pubblica quasi inesistente, e per di più distribuita a pioggia; e dove l’università, con rare e pregevoli eccezioni, rischia di trasformarsi in esamificio.

 

   
   
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