Dicembre 2001

LE DUE ITALIE

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Ma l’Ocse resta scettica
b. s.
 
 

 

 

 

Il Sud rappresenta
un formidabile
mercato: se crolla
la domanda
di consumi,
le ripercussioni
si avvertiranno
in tutta la Penisola.

 

L’Italia è il “Paese delle differenze” e la frattura fra regioni ricche e povere è in crescita. Lo afferma l’Ocse nel “Territorial outlook” recentemente presentato a Parigi: un accurato atlante delle tendenze dell’aumento dell’occupazione e della distribuzione del reddito per ciascuno dei Paesi industrializzati, che risulta sezionato per regioni. L’organismo internazionale sottolinea che «la ripartizione nazionale della ricchezza mostra chiaramente due Italie: un Nord con un Pil per abitante superiore alla media nazionale e un Sud con valori nettamente inferiori».
In particolare, l’Ocse evidenzia il forte divario Nord-Sud per quanto riguarda la dinamica dell’occupazione nell’ultimo decennio: «Con una disoccupazione così rilevante e con una riduzione relativa dell’offerta di lavoro, il riequilibrio territoriale è compromesso, almeno nel medio termine». Un dualismo che ci porteremo appresso a lungo, dunque, con un Nord nel quale si distinguono Lombardia, Emilia-Romagna, Trentino-Alto Adige e Val d’Aosta, dove «la localizzazione delle grandi imprese, la dinamica dei distretti industriali e la crescita del settore turistico mostrano l’alto livello del Pil per abitante».
Se si confrontano i livelli del Pil per abitante, nonché i tassi di occupazione, emerge invece la dicotomia tra un Nord in crescita e un Sud in declino. Tra il 1993 e il 1998, la Calabria, alcune aree della Basilicata, la Campania e la Sicilia hanno registrato una riduzione del 6 per cento del tasso di occupazione. «Con una disoccupazione che supera il 15 per cento e si estende fino al 25 per cento circa per la Calabria e per la Sicilia, le regioni meridionali nel loro complesso accumulano gli handicap».

Ma un’occasione per discutere dell’Italia e dei suoi problemi strutturali è venuta anche dalla presentazione dell’outlook congiunturale recentemente pubblicato dall’Ocse. Vi si sofferma a lungo sulla questione previdenziale e sui problemi del crescente invecchiamento della popolazione, che costituiscono uno degli approfondimenti contenuti nel Rapporto, nel quale si dà conto di un esercizio di previsioni al 2050, elaborato da ciascun Paese industrializzato sulla base di ipotesi governative tutto sommato “ottimistiche”: un buon tasso di crescita, una maggiore partecipazione al lavoro da parte delle donne, una ripresa della natalità, oltre agli effetti delle riforme già realizzate. E con tutto ciò per l’Italia la spesa previdenziale sul Pil appare destinata a crescere rispetto al livello attuale di circa tre-quattro punti percentuali di Pil. Senza contare il fatto che, al momento di fare previsioni a lungo termine, non è il caso di fidarsi della possibilità di una maggiore crescita o di maggiori flussi migratori.
Che fare, allora? «Uno degli elementi fondamentali da adottare per la riforma dei sistemi pensionistici è l’innalzamento dell’età pensionabile, perché di fronte alle prospettive di invecchiamento della popolazione è necessario intervenire ex ante, invece che ex post».
Per questo, «oggi è necessario prendere il toro per le corna e, quindi, pensare a riforme delle pensioni che tengano conto delle raccomandazioni fondamentali dell’Ocse. Mettere cioè in moto un sistema creato su tre pilastri: quello pubblico di base, una componente a capitalizzazione che deve essere obbligatoria per i lavoratori dipendenti, e una parte affidata a un sistema di fondi pensione volontari, che preveda invece libertà di adesione».

E di fronte alla “devolution” che cosa rischia il Sud? C’è chi sostiene che, dal momento che un progetto di riforma non si fa con gli slogan, e dal momento che i criteri di finanziamento, i percorsi esecutivi e le vere finalità non sono resi noti, a pagare il conto sarà ancora una volta il Mezzogiorno. Una premessa: fondare una riforma federalista sul trasferimento di competenze è un modo antiquato di affrontare il problema. L’Italia non è all’anno zero. Nella scorsa legislatura le regioni hanno ottenuto poteri da cui la Scozia, tanto citata e portata ad esempio da Bossi, è lontanissima: basti pensare che il governo inglese può riappropriarsi in qualsiasi momento delle competenze.
Il problema vero è quali garanzie si offrono al Sud. La solidarietà non è un’elemosina concessa dalla parte privilegiata del Paese: è il fondamento di ogni democrazia e di tutti i sistemi federali conosciuti. Quel che rischia il Mezzogiorno è evidente. Ma rischia anche il Nord. Il Sud rappresenta un formidabile mercato: se crolla la domanda di consumi, le ripercussioni si avvertiranno in tutta la Penisola.
Si parla tanto di “autonomia fiscale”. Allora, sarebbe bene cominciare anche a pianificare una ripartizione del debito pubblico, visto che le rendite finanziarie sono al 90 per cento al Nord.

   
   
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