LEuropa è la sua storia, che non
è
la storia di unidea che consente
una sola tradizione, ma la storia
di una tradizione che permette le idee più diverse.
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Dopo 140 anni di storia unitaria, e in piena fase di transizione
verso la nuova identità europea, lItalia è diventata
una nazione? O forse è rimasta divisa in tante nazioni, di
volta in volta riconducibili al gioco di almeno due nazioni contrapposte
in senso politico (Italia liberale contro Italia cattolica, Italia
fascista contro Italia antifascista, Italia comunista contro Italia
anticomunista) e in senso geografico (Nord contro Sud)? Il dibattito
sul tema non è risolto, e continua ad essere animato da studiosi
di diverse tendenze storiografiche, che non a caso hanno dirette
ricadute politiche.
Ad esempio, affermare che l8 settembre 43 ha segnato
la morte della Patria, (come scrisse già verso
la fine degli anni Quaranta il giurista sardo Salvatore Satta in
apertura del suo De Profundis, e come di recente hanno sostenuto
Renzo De Felice e il suo allievo Ernesto Galli Della Loggia, non
significa minare le basi di legittimità della Repubblica
nata dopo la seconda guerra mondiale, fondata sullunità
delle forze che avevano partecipato alla Resistenza e sullesclusione
di chi aveva combattuto sul fronte opposto?
Procediamo con ordine. E cominciamo con la vicenda del Mezzogiorno
dItalia. Domanda legittima: e se una parte dellItalia
unita, quella del Nord, fosse fin dallinizio responsabile
di aver delegittimato laltra metà, quella del Sud?
Appena qualche mese fa, lo storico napoletano Paolo Macry non si
è limitato a riecheggiare le tesi note sul dualismo
tra le nazioni italiane, a riformulare recriminazioni
sul noto divario tra il Nord e il Sud, sulla fragilità di
una costruzione statale incapace già allorigine di
infondere nei nuovi italiani il senso dappartenenza a una
Patria comune. Lo storico ha fatto un passo avanti e ha suggerito
lipotesi che proprio la parte dellItalia più
dinamica, che ha maggiormente contribuito allunificazione
della Penisola, abbia ideologicamente costruito limmagine
del Mezzogiorno come alterità radicalizzata.
Che la delegittimazione di un intero pezzo di nazione sia stato
lesito paradossale di una costruzione culturale che ha accentuato
ed estremizzato le divisioni tra le due Italie.
Ha sostenuto Macry che la «costruzione ideologica del Sud
(ferocia brigantesca, illegalismo e camorra, corruzione, ecc.) contribuisce
a giustificare le speciali pratiche politiche, amministrative, legislative
del nuovo Stato». E ancora: «La forte, esagerata immagine
del Sud che caratterizza la storia del Paese sembra nascere da un
giudizio politico, più che da un giudizio culturale e sociologico
(sebbene diventi, poi, anche unimmagine sociologica, culturale
e persino etnica). Viene elaborata e divulgata dallélite
liberale piemontese e dagli esuli del liberalismo meridionale,
assai meno dai viaggiatori e in genere dagli stranieri».
I liberali piemontesi, sembra sostenere Macry, in contrasto con
una tesi prevalente negli studi storici, non si trovarono belle
fatta unimmagine arretrata dellItalia meridionale: quellimmagine
la costruirono come base di un dominio fondato e giustificato dal
dualismo tra Nord e Sud: «E la borghesia liberale italiana
che, nella sua tensione verso i processi di modernizzazione ottocenteschi,
accentua ideologicamente il carattere europeo dellItalia centro-settentrionale
e il carattere africano del Sud, così costruendo
il proprio confine meridionale». Il che significa che lItalia
unita nasce culturalmente come esclusione delegittimante di una
sua parte decisiva, ma confinata per sempre a un rango di inferiorità.
Appena nata, lItalia unita vive già la maledizione
di due nazioni incomunicanti.
Sostiene Paolo Mieli: «L8 settembre è morta la
Patria, quella nata fra le trincee della prima guerra mondiale,
che nel 22 aveva portato allinfarto del sistema precedente».
Morte, tuttavia, è una metafora: nel senso che non significa
che la Patria sia morta per sempre, ma che per molti anni, dopo
quel giorno, non cè stato, anche per il modo in cui
il Paese è rinato nel 45, un comune sentire dallestrema
destra allestrema sinistra. «Da allora, ci sono state
più patrie, più modi di intendere la Patria: il modo
di un comunista degli anni 50 non aveva niente a che vedere
con quello di Giovanni Malagodi, Mario Scelba, Alcide De Gasperi.
Forse solo negli ultimi anni, seppure in modo stentato, questi valori
condivisi cominciano ad esistere, lItalia comincia ad esser
capace di dividersi, con una destra e una sinistra che si mandano
reciprocamente allopposizione e che rimangono insieme nello
stesso Paese, senza porre un pregiudizio di legittimità».
In realtà, gli ideali della Resistenza non potevano essere
il collante di una Patria condivisa. Fondamentale, su questo tema,
il lavoro di De Felice, secondo il quale la vulgata antifascista
era portatrice di equivoci non chiariti: una parte degli italiani,
dopo aver combattuto contro il fascismo, in nome degli stessi ideali
riteneva di dover continuare a battersi contro le dittature della
seconda metà del secolo; per unaltra metà di
italiani, invece, la lotta antifascista voleva dire unalleanza
di ferro proprio con quei regimi, e chi li attaccava passava per
uno intenzionato a rompere lunità nata dalla Resistenza,
uno che quasi volesse far rivivere il regime mussoliniano. La vulgata
antifascista era il modo di pensare di questi ultimi. Fra le due
posizioni non era possibile alcuna conciliazione.
Per quel che riguarda lidentità, secondo Mieli essa
«si costruisce quando le divisioni sono rispettate, perché
ognuno considera che laltro sia riconducibile a valori comuni.
In queste condizioni il sistema riesce a produrre una maggioranza
e una minoranza, una destra e una sinistra che si alternano al governo».
Lidentità nazionale, pertanto, è quella in nome
della quale si resta uniti, pur essendo divisi. «Il momento
dellessere divisi è fondamentale»: invece, da
noi il modo stesso in cui era stata condotta lUnità
venne subito contestato, a sinistra (da Mazzini, ancora prima che
nascesse il movimento operaio) come a destra (dai cattolici). Queste
opposte contestazioni non consentirono allo Stato italiano di vivere
il suo primo mezzo secolo in una situazione in cui fosse possibile
dividersi, pur restando uniti. Ecco che cosa caratterizza
il sistema italiano: invece di esaltare il momento della divisione
proficua, si è elaborata una teoria in parte esplicita e
in parte implicita, per cui il Paese vive di continue emergenze.
La divisione è vista come un grande nemico. Sicché,
completare il percorso dellidentità nazionale vuol
dire entrare in Europa con la consapevolezza che occorre rinunciare
a usare luno contro laltro larma della delegittimazione.
Italia una, nessuna, centomila? Risponde lo storico Massimo L.
Salvadori: «In uno Stato non vi può essere più
di una nazione: se ce ne sono due, vuol dire che non esiste una
nazione italiana. In realtà, lelemento
caratterizzante di tutta la storia dItalia dallUnità
in avanti è la difficoltà strutturale non superata,
e a mio avviso non superabile di costituire una nazione.
Per questo, anche lespressione storia nazionale
è nel nostro caso impropria: si può parlare di storia
italiana, ossia storia di una nazione che non è mai
riuscita a diventare tale».
Comè potuto accadere? Si può partire dalla risposta
di Renan alla domanda che cosè una nazione:
è la volontà di vivere insieme nonostante tutte le
divisioni secondarie. Noi siamo rimasti, evidentemente, al livello
delle divisioni primarie. Sostiene Salvadori che fin dallinizio
la nazione italiana è nata svuotata: «I cattolici definiscono
usurpatore lo Stato sabaudo; a questa contestazione
politica si aggiungono quella sociale del movimento operaio e quella
criminale del brigantaggio nel Mezzogiorno. LItalia liberale
non riesce a coinvolgere le classi subalterne e crolla, fra il 19
e il 22, con una crisi di regime, che rivela lincapacità
di trovare un comun denominatore».
Secondo lo storico, una Patria, nel senso che ha questa parola in
Inghilterra e in Francia, da noi non è mai nata, e di conseguenza
non poteva morire: l8 settembre è paragonabile a Caporetto,
un campanello dallarme molto grave che dimostrò come
lItalia liberale fosse allo sfacelo: da una parte il generale
Cadorna, che giustificava la disfatta parlando di sciopero
militare e addossando la colpa ai socialisti; dallaltra
i socialisti che accoglievano a sputi i soldati di ritorno dal fronte:
«Nel 43 è morta la Patria fascista, il progetto
fascista di Patria. Così come adesso è crollato il
progetto di costruire una Patria sui valori dellantifascismo
e della Resistenza: lillusione che su queste basi il Paese
potesse tenere è durata poco, fino al 48,
quando la perenne divisione si riproduce sotto le forme di unItalia
comunista contrapposta a unanticomunista. Dalletà
liberale a quella fascista alla prima Repubblica, la storia si ripete:
tre regimi che crollano, tutti e tre mono-oligopolistici, privi
di alternative in quanto tendono a considerare gli schieramenti
avversari come minacce per lo Stato. In queste condizioni, quale
identità nazionale si può mai creare?».
Il problema dellidentità italiana è superato
dai fatti? Cioè: gli Stati nazionali tra ventanni non
avranno realmente più senso, perché si andrà
verso la formazione di entità sovranazionali, continentali?
Il nostro Risorgimento è stato il parto di una minoranza
che per ragioni storiche indipendenti dalla sua volontà non
ha potuto creare un sistema politico aperto a tutti gli attori,
allinterno del quale tutti si potessero confrontare. Non è
un caso che anche agli inizi lalternativa tra destra e sinistra
sia stata inficiata dal fenomeno del trasformismo: questa, lopinione
di Ernesto Galli Della Loggia. Secondo il quale a complicare le
cose si mise anche la Chiesa cattolica: «Anche se nellOttocento,
da Manzoni a Gioberti, abbiamo avuto grandi intellettuali disposti
a capire le istanze liberali, il Non Expedit pronunciato
da Pio IX e la conseguente astensione cattolica hanno avuto un peso
determinante: io non ti riconosco in quanto Stato italiano, io non
ti riconosco in quanto cattolico. Ecco uno dei modi in cui si è
articolata la delegittimazione dellavversario politico».
Tornando al problema Sud. Sin dallinizio, conferma Galli Della
Loggia, una parte del Paese ha considerato il Mezzogiorno una palla
al piede; questo pregiudizio al Sud ha avuto il suo corrispettivo
nel sentirsi oggetto di conquista. Non dimentichiamo che subito
dopo lUnità cè stato un fenomeno di grandi
dimensioni, come il brigantaggio. Dunque, delegittimazione, ma anche
(con un neologismo appena entrato nel linguaggio degli storici)
divisività. Anche sulla base della questione meridionale,
dopo lUnità si cominciò a parlare di Paese reale,
cioè la società che non veniva rappresentata nelle
istituzioni, contrapposto al Paese legale, cioè lo Stato
nato per liniziativa politica di unavanguardia. Risolvere
il problema del Sud poteva significare, dunque, solo superare il
problema della delegittimazione e della divisività conseguente:
grande utopia, di fronte alle delegittimazioni reciproche della
politica italiana e persino della politica internazionale, fino
alla fine della Guerra Fredda. Non a caso il problema è stato
sollevato soltanto dopo la caduta del Muro di Berlino e quando è
stato creato in Italia un sistema elettorale maggioritario, che
dovrebbe consentire lalternanza tra due schieramenti.
Ma sulla delegittimazione e sulla divisività si sono innestati
altri elementi negativi per il Mezzogiorno? Ed è il Sud una
terra compatta e uniforme nella cultura, nei costumi, nellantropologia
comportamentale? E le differenze, che si possono tuttora cogliere
nel continente Sud, come del resto nellItalia del Centro e
in quella del Nord, se non sono considerate strumentalmente escludenti,
non sono invece una ricchezza, come accade in tanti Paesi europei,
che pure si considerano singole Patrie, unite poi a tutti gli effetti,
e non soltanto nei momenti di emergenza?
LEuropa può esserci utile, con una risposta esemplare.
Agli inizi degli anni 50, nel corso di un colloquio, Krusciov
chiese allallora ministro degli Esteri della Gran Bretagna,
Harold Macmillan, in che cosa credesse lOccidente. E Macmillan
rispose: «LOccidente crede al Cristianesimo».
Difficile dargli torto, da un punto di vista storico. Infatti, «ad
eccezione del razionalismo greco, nulla ha esercitato un così
forte influsso nella storia delle idee in Occidente quanto il Cristianesimo
e le lunghe controversie e lotte al suo interno»: parola di
Popper. Tantè che gli stessi valori laici (libertà,
uguaglianza, solidarietà, giustizia, diritti umani, rispetto
degli altri) è innegabile che abbiano una forte ascendenza
cristiana. E tuttavia dobbiamo anche ricordare che le lotte tra
cristiani nel passato hanno dilaniato le popolazioni europee. Scismi,
eresie, guerre di religione sono nodi della storia dEuropa.
Dunque: lEuropa non ha ununica fede religiosa. Non possiede
ununica visione del mondo filosofica: sin dallantichità,
la filosofia si è nutrita di contrasti, anche molto forti.
Il dissenso è stato ed è la sua vita. LEuropa
non ha avuto ununica tradizione artistica. Sistemi economici
anche accanitamente contrapposti lhanno divisa. Le contrade
del Continente sono state intrise dal sangue versato in nome delle
idee politiche più diverse. Ma allora, stando così
le cose, dovè che è rintracciabile il destino
unitario dellEuropa di cui ha parlato Braudel? Che cosa fa
dellEuropa una realtà dissimile dalle altre? In ultima
analisi, che cosa perimetra e fonda la cosiddetta Casa comune
europea?
Molti intellettuali, a più riprese, hanno sottolineato il
fatto che lEuropa non ha una filosofia unica, una fede unica,
ununica morale. E hanno visto in ciò la debolezza dellOccidente.
Tuttavia, ha scritto Popper, «io reputo questidea fondamentalmente
errata. Dovremmo essere orgogliosi di non possedere ununica
idea, bensì molte idee, buone e cattive, di non avere una
sola fede, ununica religione, quanto piuttosto parecchie fedi,
buone e cattive. E un segno della superiore energia dellOccidente
il fatto che ce lo possiamo permettere. Lunità dellOccidente
su ununica idea, su ununica fede, su ununica religione,
sarebbe la fine dellOccidente, la nostra capitolazione, il
nostro assoggettamento incondizionato allidea totalitaria».
LEuropa è la sua storia, che non è la storia
di unidea che consente una sola tradizione, ma la storia di
una tradizione che permette le idee più diverse. Non è
la storia di una prigione mentale, ma la storia (talvolta dolorosa,
talaltra impazzita) della provincia del mondo che ha conosciuto
la fioritura più varia e ricca di idee (buone e cattive),
spesso in contrasto tra loro. Ed è proprio questo ciò
che distingue lEuropa e la sua storia dalla storia di altre
culture. Queste idee (pluralismo e tolleranza, basi della società
aperta, da una parte, regole del metodo scientifico, dallaltra)
sono tratti dellidentità europea, linee portanti della
tradizione europea. LEuropa, dunque, è razionale quando
è pluralista, ed è pluralista quando è razionale.
Una consapevolezza, questa, che va da Strabone (il quale parlava
dellEuropa come di una «nazione dai cento volti»),
a Santo Stefano, re dUngheria, che nei Monita ai suoi eredi
avvertiva che «unius linguae uniusque moris regnum fragile
est», a Montesquieu, a Dawson, ad Altiero Spinelli, a Chabod.
E pensando che, col tempo, questo continente diventerà sempre
più multietnico e multiculturale, riteniamo anche che si
configurerà come il bene per tutti più prezioso. Serve,
una lezione del genere, per far capire le ragioni del Mezzogiorno,
mosaico di popoli, di lingue, di culture, perché cessino
delegittimazione e divisività?
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