Dicembre 2001

DIVISIONI-DIFFERENZE-IDENTITÀ

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Sud Italia Europa
Marcel de la Grange - Roberto Bersani
 
 

 

 

 

 

L’Europa è la sua storia, che non è
la storia di un’idea che consente
una sola tradizione, ma la storia
di una tradizione che permette le idee più diverse.

 

Dopo 140 anni di storia unitaria, e in piena fase di transizione verso la nuova identità europea, l’Italia è diventata una nazione? O forse è rimasta divisa in tante nazioni, di volta in volta riconducibili al gioco di almeno due nazioni contrapposte in senso politico (Italia liberale contro Italia cattolica, Italia fascista contro Italia antifascista, Italia comunista contro Italia anticomunista) e in senso geografico (Nord contro Sud)? Il dibattito sul tema non è risolto, e continua ad essere animato da studiosi di diverse tendenze storiografiche, che non a caso hanno dirette ricadute politiche.
Ad esempio, affermare che l’8 settembre ‘43 ha segnato la “morte della Patria”, (come scrisse già verso la fine degli anni Quaranta il giurista sardo Salvatore Satta in apertura del suo De Profundis, e come di recente hanno sostenuto Renzo De Felice e il suo allievo Ernesto Galli Della Loggia, non significa minare le basi di legittimità della Repubblica nata dopo la seconda guerra mondiale, fondata sull’unità delle forze che avevano partecipato alla Resistenza e sull’esclusione di chi aveva combattuto sul fronte opposto?

Procediamo con ordine. E cominciamo con la vicenda del Mezzogiorno d’Italia. Domanda legittima: e se una parte dell’Italia unita, quella del Nord, fosse fin dall’inizio responsabile di aver delegittimato l’altra metà, quella del Sud? Appena qualche mese fa, lo storico napoletano Paolo Macry non si è limitato a riecheggiare le tesi note sul “dualismo” tra le “nazioni” italiane, a riformulare recriminazioni sul noto divario tra il Nord e il Sud, sulla fragilità di una costruzione statale incapace già all’origine di infondere nei nuovi italiani il senso d’appartenenza a una Patria comune. Lo storico ha fatto un passo avanti e ha suggerito l’ipotesi che proprio la parte dell’Italia più dinamica, che ha maggiormente contribuito all’unificazione della Penisola, abbia ideologicamente costruito l’immagine del Mezzogiorno come “alterità radicalizzata”. Che la delegittimazione di un intero pezzo di nazione sia stato l’esito paradossale di una costruzione culturale che ha accentuato ed estremizzato le divisioni tra le due Italie.

Ha sostenuto Macry che la «costruzione ideologica del Sud (ferocia brigantesca, illegalismo e camorra, corruzione, ecc.) contribuisce a giustificare le speciali pratiche politiche, amministrative, legislative del nuovo Stato». E ancora: «La forte, esagerata immagine del Sud che caratterizza la storia del Paese sembra nascere da un giudizio politico, più che da un giudizio culturale e sociologico (sebbene diventi, poi, anche un’immagine sociologica, culturale e persino etnica). Viene elaborata e divulgata dall’élite liberale “piemontese” e dagli esuli del liberalismo meridionale, assai meno dai viaggiatori e in genere dagli stranieri».
I liberali piemontesi, sembra sostenere Macry, in contrasto con una tesi prevalente negli studi storici, non si trovarono bell’e fatta un’immagine arretrata dell’Italia meridionale: quell’immagine la costruirono come base di un dominio fondato e giustificato dal dualismo tra Nord e Sud: «E’ la borghesia liberale italiana che, nella sua tensione verso i processi di modernizzazione ottocenteschi, accentua ideologicamente il carattere europeo dell’Italia centro-settentrionale e il carattere “africano” del Sud, così costruendo il proprio confine meridionale». Il che significa che l’Italia unita nasce culturalmente come esclusione delegittimante di una sua parte decisiva, ma confinata per sempre a un rango di inferiorità. Appena nata, l’Italia unita vive già la maledizione di due nazioni incomunicanti.
Sostiene Paolo Mieli: «L’8 settembre è morta la Patria, quella nata fra le trincee della prima guerra mondiale, che nel ‘22 aveva portato all’infarto del sistema precedente». Morte, tuttavia, è una metafora: nel senso che non significa che la Patria sia morta per sempre, ma che per molti anni, dopo quel giorno, non c’è stato, anche per il modo in cui il Paese è rinato nel ‘45, un comune sentire dall’estrema destra all’estrema sinistra. «Da allora, ci sono state più patrie, più modi di intendere la Patria: il modo di un comunista degli anni ‘50 non aveva niente a che vedere con quello di Giovanni Malagodi, Mario Scelba, Alcide De Gasperi. Forse solo negli ultimi anni, seppure in modo stentato, questi valori condivisi cominciano ad esistere, l’Italia comincia ad esser capace di dividersi, con una destra e una sinistra che si mandano reciprocamente all’opposizione e che rimangono insieme nello stesso Paese, senza porre un pregiudizio di legittimità».
In realtà, gli ideali della Resistenza non potevano essere il collante di una Patria condivisa. Fondamentale, su questo tema, il lavoro di De Felice, secondo il quale la vulgata antifascista era portatrice di equivoci non chiariti: una parte degli italiani, dopo aver combattuto contro il fascismo, in nome degli stessi ideali riteneva di dover continuare a battersi contro le dittature della seconda metà del secolo; per un’altra metà di italiani, invece, la lotta antifascista voleva dire un’alleanza di ferro proprio con quei regimi, e chi li attaccava passava per uno intenzionato a rompere l’unità nata dalla Resistenza, uno che quasi volesse far rivivere il regime mussoliniano. La vulgata antifascista era il modo di pensare di questi ultimi. Fra le due posizioni non era possibile alcuna conciliazione.
Per quel che riguarda l’identità, secondo Mieli essa «si costruisce quando le divisioni sono rispettate, perché ognuno considera che l’altro sia riconducibile a valori comuni. In queste condizioni il sistema riesce a produrre una maggioranza e una minoranza, una destra e una sinistra che si alternano al governo». L’identità nazionale, pertanto, è quella in nome della quale si resta uniti, pur essendo divisi. «Il momento dell’essere divisi è fondamentale»: invece, da noi il modo stesso in cui era stata condotta l’Unità venne subito contestato, a sinistra (da Mazzini, ancora prima che nascesse il movimento operaio) come a destra (dai cattolici). Queste opposte contestazioni non consentirono allo Stato italiano di vivere il suo primo mezzo secolo in una situazione in cui fosse possibile “dividersi”, pur restando uniti. Ecco che cosa caratterizza il sistema italiano: invece di esaltare il momento della divisione proficua, si è elaborata una teoria in parte esplicita e in parte implicita, per cui il Paese vive di continue emergenze. La divisione è vista come un grande nemico. Sicché, completare il percorso dell’identità nazionale vuol dire entrare in Europa con la consapevolezza che occorre rinunciare a usare l’uno contro l’altro l’arma della delegittimazione.

Italia una, nessuna, centomila? Risponde lo storico Massimo L. Salvadori: «In uno Stato non vi può essere più di una nazione: se ce ne sono due, vuol dire che non esiste una “nazione italiana”. In realtà, l’elemento caratterizzante di tutta la storia d’Italia dall’Unità in avanti è la difficoltà strutturale – non superata, e a mio avviso non superabile – di costituire una nazione. Per questo, anche l’espressione “storia nazionale” è nel nostro caso impropria: si può parlare di “storia italiana”, ossia storia di una nazione che non è mai riuscita a diventare tale».
Com’è potuto accadere? Si può partire dalla risposta di Renan alla domanda “che cos’è una nazione”: è la volontà di vivere insieme nonostante tutte le divisioni secondarie. Noi siamo rimasti, evidentemente, al livello delle divisioni primarie. Sostiene Salvadori che fin dall’inizio la nazione italiana è nata svuotata: «I cattolici definiscono “usurpatore” lo Stato sabaudo; a questa contestazione politica si aggiungono quella sociale del movimento operaio e quella criminale del brigantaggio nel Mezzogiorno. L’Italia liberale non riesce a coinvolgere le classi subalterne e crolla, fra il ‘19 e il ‘22, con una crisi di regime, che rivela l’incapacità di trovare un comun denominatore».
Secondo lo storico, una Patria, nel senso che ha questa parola in Inghilterra e in Francia, da noi non è mai nata, e di conseguenza non poteva morire: l’8 settembre è paragonabile a Caporetto, un campanello d’allarme molto grave che dimostrò come l’Italia liberale fosse allo sfacelo: da una parte il generale Cadorna, che giustificava la disfatta parlando di “sciopero militare” e addossando la colpa ai socialisti; dall’altra i socialisti che accoglievano a sputi i soldati di ritorno dal fronte: «Nel ‘43 è morta la Patria fascista, il progetto fascista di Patria. Così come adesso è crollato il progetto di costruire una Patria sui valori dell’antifascismo e della Resistenza: l’illusione che su queste basi il Paese potesse “tenere” è durata poco, fino al ‘48, quando la perenne divisione si riproduce sotto le forme di un’Italia comunista contrapposta a un’anticomunista. Dall’età liberale a quella fascista alla prima Repubblica, la storia si ripete: tre regimi che crollano, tutti e tre mono-oligopolistici, privi di alternative in quanto tendono a considerare gli schieramenti avversari come minacce per lo Stato. In queste condizioni, quale identità nazionale si può mai creare?».
Il problema dell’identità italiana è superato dai fatti? Cioè: gli Stati nazionali tra vent’anni non avranno realmente più senso, perché si andrà verso la formazione di entità sovranazionali, continentali?

Il nostro Risorgimento è stato il parto di una minoranza che per ragioni storiche indipendenti dalla sua volontà non ha potuto creare un sistema politico aperto a tutti gli attori, all’interno del quale tutti si potessero confrontare. Non è un caso che anche agli inizi l’alternativa tra destra e sinistra sia stata inficiata dal fenomeno del trasformismo: questa, l’opinione di Ernesto Galli Della Loggia. Secondo il quale a complicare le cose si mise anche la Chiesa cattolica: «Anche se nell’Ottocento, da Manzoni a Gioberti, abbiamo avuto grandi intellettuali disposti a capire le istanze liberali, il “Non Expedit” pronunciato da Pio IX e la conseguente astensione cattolica hanno avuto un peso determinante: io non ti riconosco in quanto Stato italiano, io non ti riconosco in quanto cattolico. Ecco uno dei modi in cui si è articolata la delegittimazione dell’avversario politico».
Tornando al problema Sud. Sin dall’inizio, conferma Galli Della Loggia, una parte del Paese ha considerato il Mezzogiorno una palla al piede; questo pregiudizio al Sud ha avuto il suo corrispettivo nel sentirsi oggetto di conquista. Non dimentichiamo che subito dopo l’Unità c’è stato un fenomeno di grandi dimensioni, come il brigantaggio. Dunque, delegittimazione, ma anche (con un neologismo appena entrato nel linguaggio degli storici) divisività. Anche sulla base della questione meridionale, dopo l’Unità si cominciò a parlare di Paese reale, cioè la società che non veniva rappresentata nelle istituzioni, contrapposto al Paese legale, cioè lo Stato nato per l’iniziativa politica di un’avanguardia. Risolvere il problema del Sud poteva significare, dunque, solo superare il problema della delegittimazione e della divisività conseguente: grande utopia, di fronte alle delegittimazioni reciproche della politica italiana e persino della politica internazionale, fino alla fine della Guerra Fredda. Non a caso il problema è stato sollevato soltanto dopo la caduta del Muro di Berlino e quando è stato creato in Italia un sistema elettorale maggioritario, che dovrebbe consentire l’alternanza tra due schieramenti.

Ma sulla delegittimazione e sulla divisività si sono innestati altri elementi negativi per il Mezzogiorno? Ed è il Sud una terra compatta e uniforme nella cultura, nei costumi, nell’antropologia comportamentale? E le differenze, che si possono tuttora cogliere nel continente Sud, come del resto nell’Italia del Centro e in quella del Nord, se non sono considerate strumentalmente escludenti, non sono invece una ricchezza, come accade in tanti Paesi europei, che pure si considerano singole Patrie, unite poi a tutti gli effetti, e non soltanto nei momenti di emergenza?
L’Europa può esserci utile, con una risposta esemplare. Agli inizi degli anni ‘50, nel corso di un colloquio, Krusciov chiese all’allora ministro degli Esteri della Gran Bretagna, Harold Macmillan, in che cosa credesse l’Occidente. E Macmillan rispose: «L’Occidente crede al Cristianesimo». Difficile dargli torto, da un punto di vista storico. Infatti, «ad eccezione del razionalismo greco, nulla ha esercitato un così forte influsso nella storia delle idee in Occidente quanto il Cristianesimo e le lunghe controversie e lotte al suo interno»: parola di Popper. Tant’è che gli stessi valori laici (libertà, uguaglianza, solidarietà, giustizia, diritti umani, rispetto degli altri) è innegabile che abbiano una forte ascendenza cristiana. E tuttavia dobbiamo anche ricordare che le lotte tra cristiani nel passato hanno dilaniato le popolazioni europee. Scismi, eresie, guerre di religione sono nodi della storia d’Europa.
Dunque: l’Europa non ha un’unica fede religiosa. Non possiede un’unica visione del mondo filosofica: sin dall’antichità, la filosofia si è nutrita di contrasti, anche molto forti. Il dissenso è stato ed è la sua vita. L’Europa non ha avuto un’unica tradizione artistica. Sistemi economici anche accanitamente contrapposti l’hanno divisa. Le contrade del Continente sono state intrise dal sangue versato in nome delle idee politiche più diverse. Ma allora, stando così le cose, dov’è che è rintracciabile il destino unitario dell’Europa di cui ha parlato Braudel? Che cosa fa dell’Europa una realtà dissimile dalle altre? In ultima analisi, che cosa perimetra e fonda la cosiddetta “Casa comune europea”?
Molti intellettuali, a più riprese, hanno sottolineato il fatto che l’Europa non ha una filosofia unica, una fede unica, un’unica morale. E hanno visto in ciò la debolezza dell’Occidente. Tuttavia, ha scritto Popper, «io reputo quest’idea fondamentalmente errata. Dovremmo essere orgogliosi di non possedere un’unica idea, bensì molte idee, buone e cattive, di non avere una sola fede, un’unica religione, quanto piuttosto parecchie fedi, buone e cattive. E’ un segno della superiore energia dell’Occidente il fatto che ce lo possiamo permettere. L’unità dell’Occidente su un’unica idea, su un’unica fede, su un’unica religione, sarebbe la fine dell’Occidente, la nostra capitolazione, il nostro assoggettamento incondizionato all’idea totalitaria».
L’Europa è la sua storia, che non è la storia di un’idea che consente una sola tradizione, ma la storia di una tradizione che permette le idee più diverse. Non è la storia di una prigione mentale, ma la storia (talvolta dolorosa, tal’altra impazzita) della provincia del mondo che ha conosciuto la fioritura più varia e ricca di idee (buone e cattive), spesso in contrasto tra loro. Ed è proprio questo ciò che distingue l’Europa e la sua storia dalla storia di altre culture. Queste idee (pluralismo e tolleranza, basi della società aperta, da una parte, regole del metodo scientifico, dall’altra) sono tratti dell’identità europea, linee portanti della tradizione europea. L’Europa, dunque, è razionale quando è pluralista, ed è pluralista quando è razionale. Una consapevolezza, questa, che va da Strabone (il quale parlava dell’Europa come di una «nazione dai cento volti»), a Santo Stefano, re d’Ungheria, che nei Monita ai suoi eredi avvertiva che «unius linguae uniusque moris regnum fragile est», a Montesquieu, a Dawson, ad Altiero Spinelli, a Chabod. E pensando che, col tempo, questo continente diventerà sempre più multietnico e multiculturale, riteniamo anche che si configurerà come il bene per tutti più prezioso. Serve, una lezione del genere, per far capire le ragioni del Mezzogiorno, mosaico di popoli, di lingue, di culture, perché cessino delegittimazione e divisività?

   
   
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