Dicembre 2001

LA LEZIONE DI RENAN

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Fare gli europei
Thierry de Mondrial Direttore Institut français des relations internationales (Ifri)
 
 

Si deve avere
il coraggio
di affermare che la coscienza europea risiede nella parte
illuminata
dell’Europa
che trascinerà
e comanderà
gli altri.

 

L’avvenire delle Nazioni europee è l’Europa. Non l’Europa effimera dei grandi conquistatori, quella di Cesare, degli Absburgo o dei Borbone, di Carlo Magno o di Napoleone, ma l’Europa libera, cementata dal consenso dei suoi componenti quali la storia ci ha trasmesso, l’Europa rispettosa di una diversità culturale che sarà il fondamento della sua cultura, che sarà la sorgente di una fraternità fondata non su un progetto giacobino di uniformazione, ma sulla valorizzazione delle differenze.
Il fenomeno nazionale è recente e non durerà in eterno. Il nazionalismo che si è sviluppato a partire dal secolo degli Illuministi, e soprattutto dopo la Rivoluzione Francese, è un principio ideologico che, come scriveva l’antropologo ceco contemporaneo, Ernst Gellner, «esige che si recuperino l’unità politica e l’unità territoriale».
Il nazionalismo moderno si distingue dalle forme meno rigorose di identificazione in un gruppo per il dovere di subordinazione dei cittadini verso lo Stato, il quale ingloba e rappresenta la nazione, vale a dire il gruppo etnico. Questa subordinazione è assoluta in caso di guerra. Ma le etnie sono raramente “pure”. Il nazionalismo reale ha assunto altri volti. In generale, le masse popolari sono le ultime ad esserne toccate. Molto dopo la Rivoluzione, questa modalità in qualche modo hegeliana di costruzione nazionale è rimasta la regola.
Massimo D’Azeglio, uno dei capi moderati del Risorgimento, poteva esclamare nella prima seduta del Parlamento del Regno d’Italia nuovamente unito: «Noi abbiamo fatto l’Italia e ora dobbiamo fare gli italiani», e poco importava a coloro che discutevano della “questione polacca” che la maggior parte dei cittadini che parlavano polacco non si sentissero nazionalisti. Il maresciallo Pilsudski diceva: «E’ lo Stato che fa le nazioni e non le nazioni che fanno lo Stato».
Indubbiamente, gli intellettuali hanno contribuito alla costruzione della “identità nazionale”. Con loro, soprattutto gli storici. Questione europea e questione nazionale non soltanto sono indissolubilmente legate, ma manifestano due espressioni dello stesso interrogativo geopolitico. Per pensarla correttamente, la cosa migliore è rifarsi a quanto dichiarato da Ernest Renan nella sua celebre conferenza alla Sorbona dell’11 marzo 1882: «Che cos’è la nazione?». L’autore della Storia delle origini del Cristianesimo, allora all’apice della fama, attribuiva grande importanza a questo testo.
Renan procede in tre tempi. In primo luogo, si prodiga per ricostruire, da storico, la genesi del fenomeno nazionale del XIX secolo, risalendo alle invasioni germaniche. Poi diviene politologo e ricerca criteri adatti a fondare l’identità nazionale, arrivando alla conclusione dell’impossibilità di tale modo di procedere. Da qui, il terzo tempo, in cui egli espone la sua teoria personale. La nazione deriva dal connubio di due elementi: il primo appartenente al passato – l’eredità storica comune; il secondo appartenente al presente – la volontà odierna di vivere insieme. Il testo è un manifesto di combattimento. Vi si trovano elementi che risalgono al periodo rivoluzionario (la volontà come fonte dell’identità nazionale), il vocabolario di Michelet (la nazione come un’“anima”, un “principio spirituale”), o, ancora, le idee di Fustel de Coulanges: «Quello che distingue le nazioni – scriveva quest’ultimo – non è la razza o la lingua. Gli uomini sentono in cuor loro di essere uno stesso popolo quando esiste una comunità di idee, di interessi, di sentimenti, di ricordi e di speranze».
Mi sembra che per l’Europa si possa seguire passo passo l’iter di Renan e arrivare alle stesse conclusioni. Non è difficile ripercorrere la genesi del fenomeno europeo, dall’Impero romano ai cataclismi del XX secolo. Non è difficile identificare dei criteri dell’essere europei e rifiutarli. Non è difficile trovare la soluzione: l’Europa è la risultante di una tensione tra un presente, un voler vivere insieme da inventare, creare, e un passato che funziona come una miniera di ricordi comuni da interpretare o reinterpretare costantemente.
Renan non esita a fare l’elogio dell’oblio. «L’oblio», afferma, «e io aggiungerei anche l’errore storico, sono un fattore essenziale della formazione della nazione». Anche in questo caso si potrebbe sostituire “Europa” a “nazione”. Certo, un discorso siffatto non è politicamente corretto in un’epoca di “dovere della memoria” o di “pentimento”, ma vale la pena meditarci.
Non si tratta, d’altronde, di costruire sulla menzogna: Walter Scott “ha costruito” la nazione scozzese su territori intrisi del sangue di popoli e di re. L’Europa si costruisce su territori intrisi del sangue delle nazioni. Il progetto nazionale del XIX secolo è sfuggito ai suoi demiurghi e ha subìto una degenerazione. Oggi è necessario riprenderlo, ma ponendolo al posto giusto: l’Europa, non più la Nazione.
«La coscienza di una nazione – scriveva ancora Renan, questa volta nella Riforma intellettuale e morale – risiede nella parte illuminata della nazione, che trascina e comanda gli altri. La civilizzazione all’origine è stata un’opera aristocratica, l’opera di una cerchia ristretta (nobili e preti), che l’hanno imposta perché i democratici facevano appello alla forza e all’impostura; la conservazione della civilizzazione è parimenti un’opera aristocratica». L’essenziale, per lui, era sviluppare lo spirito e l’aristocrazia dell’intelligenza.
Ai giorni nostri è difficile impiegare un simile linguaggio. Eppure si deve avere il coraggio di affermare, trasponendo una volta di più, che la coscienza europea risiede nella parte illuminata dell’Europa che trascinerà e comanderà gli altri. Non certo per costrizione, ma con la forza della convinzione e dell’evidenza e con quello che gli specialisti chiamano l’ingranaggio istituzionale. La libera circolazione e la moneta unica riusciranno a fare di più per popolarizzare l’Europa nei primi decenni del nuovo secolo di quanto sia stato realizzato peraltro dopo il Trattato di Roma. Quanto alle istituzioni, per parlare in maniera più precisa, noi ci troviamo per l’Europa al punto in cui si trovava la Francia quando Guizot e altri si interrogavano sul regime rappresentativo.
Spetta ancora alle élites intellettuali proporre soluzioni sagge e perseguibili e alle élites politiche convincere i loro popoli ad accettarle. Tutto questo, ovviamente, richiederà molto tempo e comporterà tentativi ed errori. Le grandi opere si edificano grazie ad una volontà protratta nel tempo. Noi facciamo l’Europa, ci restano da fare gli europei.
L’avvenire della Francia è l’Europa. Eppure molti dei nostri concittadini hanno timore di questa prospettiva e, lungi dal vedere un progresso, temono una capitolazione davanti a forze oscure. Di questa paura scorgo la causa più profonda nell’impatto sempre rilevante del nazionalismo della fine del XIX secolo, spesso mascherato con l’aggettivo “repubblicano” e che contrassegna l’acme dell’ideologia giacobina. Affinché la Francia sia all’altezza del suo avvenire, cioè che essa assuma pienamente un ruolo motore nell’edificazione europea, è necessario che i francesi scoprano la compiutezza della storia, allargando il loro orizzonte di spazio e di tempo. Allora metteranno l’idea nazionale al suo giusto posto e potranno dire, insieme a Victor Hugo: «Quello che la Francia ha d’ammirevole è che essa è destinata a morire, ma a morire come gli dèi, attraverso la trasfigurazione. La Francia diventerà l’Europa».

   
   
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