Dicembre 2001

EUROPA POLITICA E TURBOLENZE INTERNAZIONALI

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I costi del ritardo
Marino Delgado  
 
 

 

 

 

E’ sempre
più evidente che la mancanza di unione politica si traduce
in minore crescita, minore produzione, minori consumi,
minore occupazione.

 

Se i cittadini dei Paesi che hanno adottato l’euro si rendessero conto di quanto comincia a costare il loro ritardo di una qualche forma di unione politica, probabilmente premerebbero con maggior forza e con più cognizione di causa sui rispettivi governi per indurli ad adottare iniziative in questo senso o per trattenerli dal resistervi. La mancanza di una qualche forma di unione politica rappresentativa, infatti, è responsabile del fatto che l’economia europea è in balia della situazione internazionale, ne subisce le conseguenze senza alcuna possibilità di compensarle, come pure sarebbe possibile. Come sarebbe possibile, appunto, se vi fosse un’autorità politica che, forte di un mandato popolare, potesse gestire in funzione espansiva la politica economica e finanziaria dell’intera area.

Fin da quando si cominciò a prospettare un’unione monetaria fu avanzata l’obiezione delle difficoltà che si sarebbero poste nel mantenerla in assenza di un’unione politica. La contro-obiezione fu che, proprio in quanto l’unione politica incontrava resistenze difficilmente superabili, l’unione monetaria poteva essere un éscamotage per imporla con la forza degli eventi. Ora che questa forza degli eventi diventa evidente e cogente, però, sembra si sia dimenticato che questo passaggio, quello che avrebbe reso costosa per la vita di tutti gli europei la mancanza di unione politica, era parte integrante di un disegno la cui logica postulava e postula che l’Unione economica e monetaria sia obiettivo intermedio verso quello finale di un’unione di ordine superiore.
Il costo della non-unione è l’impossibilità per l’Europa di reagire al deterioramento delle condizioni attuali e prospettiche dell’economia.
Il prezzo che si sta pagando in termini di stagnazione, disoccupazione, contrazione del reddito, crisi settoriali, e nel prossimo futuro anche in termini di deterioramento delle finanze pubbliche, è elevato e si delinea ancor più pesante. I governi ne sono consapevoli, così come lo sono della responsabilità che si vanno assumendo per il fatto che, tra le grandi aree economiche del mondo, viene meno l’unica, l’Europa appunto, che avrebbe la possibilità non solo di crescere, ma anche di alleviare le difficoltà degli stessi Stati Uniti e dell’intera economia mondiale. Ne sono consapevoli, e perciò premono sulla Banca centrale europea perché sia questa a fare qualcosa, perché riduca i tassi. La Bce – non senza ragione, questa volta – sostiene che i tassi sono adeguati e che non è certo il costo del denaro a deprimere il clima economico. E’ opinione diffusa che l’unico sostegno in grado di contrastare la stagnazione può essere dato da consumi e investimenti pubblici che compensino la caduta di quelli privati. Ma questo sostegno non può essere realizzato perché la spesa dei governi non può derogare agli angusti e severi limiti imposti dal patto di stabilità.

Ed ecco, allora, che tutti ora, ma soltanto ora, fanno a gara nel denigrare quel patto, sottolinearne la masochistica illogicità, perorarne una revisione, sostenerne il superamento una volta realizzata, come è stata realizzata, l’unione monetaria. Rispetto alla difesa pregiudiziale e assoluta di quel patto è già un passo avanti, ma occorre farne un altro ancora.
Il patto di stabilità c’è in quanto serve ad impedire che la moneta unica, ossia un unico mercato della moneta, induca il governo di un Paese ad indebitarsi a spese dei Paesi partner (assorbendo capitali dall’unico mercato e spingendo verso l’alto i tassi). Perché occorre questo impedimento, che non esiste in nessun’altra area monetaria? La risposta sta nel fatto che non esiste altra area monetaria fatta da più poteri politici sovrani e, dunque, priva di un potere politico rappresentativo di ordine superiore. Avviene continuamente che all’interno di un Paese sia la politica monetaria sia quella fiscale trasferiscano ricchezza da una parte ad un’altra di esso, ma ciò avviene nel nome e per conto di un interesse generale del Paese che il potere politico rappresenta e garantisce sulla base di un mandato elettorale. Siccome in Europa non c’è un potere politico che abbia ricevuto il mandato popolare di individuare e perseguire l’interesse generale, non c’è un potere che possa realizzare manovre finanziarie o fiscali che, seppure col fine di servire quell’interesse generale, impongano costi e distribuiscano benefici in una misura che non potrà mai essere incontestabilmente dimostrata come perequata per regioni, settori, categorie. Di conseguenza, anche quando manovre di sostegno della domanda, come quelle decisamente e massicciamente realizzate negli Stati Uniti, siano riconosciute quasi unanimemente come necessarie, esse sono ugualmente irrealizzabili non perché impedite dal patto di stabilità, ma perché non c’è un’autorità politica che se ne faccia carico, che se ne assuma la responsabilità e che, in definitiva, faccia decadere i motivi di quel patto.
E’ sempre più evidente che la mancanza di unione politica si traduce in minore crescita, minore produzione, minori consumi, minore occupazione. Ma nessun governo esprime questa conclusione. Se ne guarda bene. E’ più facile, e anche più comodo, specie per Germania e Francia, dove fra non molto si dovrà votare, esorcizzare questa impotenza, lanciando la palla sulla Banca centrale europea.

   
   
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