Dicembre 2001

OPINIONI

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Allora aboliamo il mondo
Vanni Oxilia  
 
 

 

 

 

Pensare
che abolendo il G8, cioè il dialogo
tra i maggiori Paesi industrializzati,
il mondo divenga migliore, è un’idea sorprendente.

 

C’è chi si affretta a dichiarare che ora i G8 andrebbero non tanto modificati, quanto aboliti del tutto. E’ come suggerire a chi si accorge di avere un’infezione a un dito che il rimedio più semplice è di tagliarsi il braccio. Le prese di posizione apodittiche, in casi come questo, possono soltanto alimentare il clima di scontro, più che di confronto.
I G5, poi G6, poi G7, oggi G8, nacquero all’indomani della crisi energetica, quando i maggiori Paesi industrializzati sentirono il bisogno di consultarsi su come evitare in futuro che le decisioni di pochi mettessero a rischio lo sviluppo economico e il benessere dei più. Il loro obiettivo è diventato poi la ricerca di punti di convergenza sui principali fatti economici, sociali e politici del momento. Raramente questi vertici hanno portato a storiche e improvvise decisioni operative, ma alle volte hanno dato il via a proposte elaborate in precedenza: così è stato anche a Genova, dove gli Otto hanno reso possibile, autorizzandone il finanziamento, la creazione di un fondo per la lotta contro l’Aids, al quale Kofi Annan stava lavorando da tempo.
Pensare che abolendo il G8, cioè il dialogo tra i maggiori Paesi industrializzati, il mondo divenga migliore, è un’idea così sorprendente che la si può attribuire solo all’emozione, alla giovinezza o all’inconfessato desiderio del tanto peggio tanto meglio. Basti pensare al tempo in cui non c’era alcun dialogo tra le due superpotenze e come quel tempo sia stato pagato con l’incubo dell’olocausto nucleare e con una corsa alle spese militari quale mai si era vista prima. Né si dica che le Nazioni Unite possono prenderne il posto: il Consiglio di sicurezza non è certo un modello di democrazia e l’Assemblea generale dell’Onu è, come Kofi Annan ben sa, l’organo più rissoso e inconcludente del pianeta.
Certamente, il G8 può essere rivisto nel suo formato, esteso ad altri grandi Paesi e ridimensionato drasticamente nel carattere spettacolare di grande circo mediatico. Se ne parla da tempo, e il Primo ministro canadese ha già annunciato che il prossimo summit si terrà in una remota località montana. Ma non illudiamoci: a Seattle si è contestato il Wto; a Göteborg si è contestato un Consiglio europeo; a Nizza, dove la Francia ha dovuto schierare la Legione straniera, si è contestata una conferenza intergovernativa dei Quindici dell’Unione europea. Si può al limite discutere il diritto degli Otto di decidere le cose del mondo, ma non si può discutere il diritto dei capi di governo europei democraticamente eletti di riunirsi per decidere cose che riguardano i loro popoli.
L’obiettivo di questi movimenti non è dunque solo il G8, e neppure solo la globalizzazione, ma qualsiasi forma razionale di governabilità. Ad essere coerenti con loro, dovremmo abolire non soltanto il G8, ma anche l’Europa, e anche i nostri stessi governi.
Rambouillet si ebbe il 15 novembre ‘75: lì nacque il G6 (mancava ancora il Canada). Pochi giorni dopo, a Mosca, al Presidente Leone, in visita ufficiale, i russi chiedevano che cosa fosse accaduto nel celebre castello francese, e che cosa si fosse deciso. Era la Russia di BrezŠnev, della stagnazione comunista, ma anche dell’ultima sfida all’Occidente, dopo il caso Watergate e la sconfitta americana in Viet Nam e il ricatto petrolifero arabo a tutti coloro che consideravano amici di Israele. I russi avrebbero scoperto dopo che a Rambouillet non era accaduto nulla. Eppure, proprio lì i Sei, incluso il Giappone, avevano invertito la tendenza negativa, con la decisione di concordare da allora in poi le grandi scelte strategiche economiche (e, indirettamente, anche politiche): era cominciata la rincorsa delle grandi democrazie industriali verso la vittoria nella guerra fredda.
A Toronto, nell’88, (ultimo G7 di Reagan), era stata affrontata e vinta la crisi di Wall Street, che era stata peggiore di quella del ‘29 (i titoli erano crollati del 22 per cento in un solo giorno), ma erano stati del tutto diversi i rimedi: al posto delle strette monetarie e delle svalutazioni competitive, era stato concordato il sostegno agli investimenti e ai consumi. In questo modo si era evitata una catastrofe sociale analoga, e forse più grave, di quella degli anni Trenta.

A Tokyo, nel ‘93, il preavviso di pericolo. L’allora presidente del Consiglio italiano, Ciampi, consigliò di lasciar da parte ogni forma di compiacimento e di spettacolarità conseguente, e di tornare alla discreta informalità dei vertici precedenti. Non gli si diede ascolto, neanche quando la Russia post-sovietica fu comprimaria (ma Eltsin era stato già presente a Tokyo). Quello di Genova, dunque, era un disastro annunciato.
Istruzioni per il futuro. L’Occidente deve continuare a consultarsi con regolarità, pena il ritorno ai nazionalismi, che non risolvono i problemi né dei Paesi ricchi né di quelli poveri. La formula deve aprirsi, accogliendo i Paesi poveri con regimi rigorosamente democratici. I summit devono abbandonare ogni forma di spettacolarità e tornare a forme di severa austerità.

   
   
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