Un sorprendente pudore vieta di farci vedere
una sola vita stroncata, di farci ascoltare una sola intervista
a un ferito, di proporci un campo lungo del Ground Zero.
|
|
La sfida di Osama bin Laden era stata chiara: di qua cè
lIslam, di là tutto il resto. E poiché è
scritto nel Corano che a Dio appartengono lOriente e lOccidente,
è giunto il momento della resa finale dei conti. La sfida
di questo miliardario da età della pietra avrà lunga
eco, perché fa leva sullaggressivo integrismo religioso
del sottoproletariato più miserabile (sotto il profilo economico)
e frustrato (sotto il profilo storico) dallAsia Minore alla
Cina, dal Marocco allIndonesia, passando la parola dordine
jihad, guerra santa lungo il ventre molle del pianeta
che tinge di Islam le fasce parallele allequatore. Tutto
il resto è il deserto di valori coranici abitato dagli
infedeli. E la Terra di Satana, che si identifica in modo
speciale con lAmerica. E dal momento che lEuropa è
schierata con gli americani, è variamente cristiana, e come
gli Stati Uniti usa forme più sofisticate, ma non per questo
meno micidiali di neocolonialismo, per la proprietà transitiva
è anchessa Terra di Satana. Tutti gli americani. Testualmente:
amerìki.
Gli occidentali invocano la legittima difesa. Ogni sura del Corano,
sostengono, inizia con: Tu, il Misericordioso , parola
che contiene la radice di utero: un Dio femmina,
dunque, ha generato il popolo muslìm e ripudia i figli degli
altri monoteismi, elevando addirittura al valore di martirio
lautodistruzione in nome della distruzione. Ora, oltre alla
forza della fede, il martirio non ha mai dimostrato nulla, e meno
che mai lesistenza (e la volontà profetica) di un Dio.
La sua mutazione in strumento di morte, escludendo la misericordia,
lo traduce in cieca violenza. In oppio del popolo. In delirante
forza durto che coinvolge civiltà e culture e può
preludere alla desertificazione umana del pianeta.
Noi sappiamo che l11 settembre la storia del mondo ha voltato
pagina. Sappiamo quando e come si è aperto il nuovo capitolo,
ma non quando né come né dove finirà. Siamo
anche consapevoli che si tratterà di uninedita storia
lunga, in termini di guerra e di diplomazia. Cioè, continueranno
a morire in tanti, e non tutti colpevoli, per fatale stato di necessità,
mentre chi da una parte e dallaltra ha in pugno
le leve delleconomia, della finanza e delle materie prime
dovrà pur prendere coscienza una volta per tutte che in Oriente
e in Occidente non potrà esserci pace senza giustizia.
Sono stati onorevoli gli sforzi compiuti dagli amerìki per
dimostrare che si tratta di una campagna contro i clan terroristici
dei muslìm. Ma la realtà che emerge da scenari di
morti ammazzati, da aggressioni, da patti traditi, e da memorie
storiche stravolte da relativismi interpretativi, da pregiudizi,
da ipocrisie, è sentita da moltissimi come altro:
come scontro fra continenti culturali e religiosi, civili e sociali
che, più che confinare, si sono sempre fronteggiati, in attacco
e in difesa, alternativamente, con armi proprie e improprie, e comunque
per la vita o per la morte. Tutti abbiamo nel lago del cuore
un funesto presentimento: eludere la sostanza delle cose per tattiche
diplomatico-belliche è un discorso; far finta che quelle
cose siano diverse da quelle che sono, col ricorso a trucchi di
bassa semantica, può essere linizio della fine del
mondo.
Il primo dei miei scenari. Galatina. I reparti motorizzati della
Wehrmacht si erano ritirati in ordine, senza lasciarsi alle spalle
alcuna maceria, senza aver torto un capello a nessuno. Erano risaliti
a tarda sera per la bellissima via Lillo ed erano scomparsi tra
due fondali di porte serrate (la mia, socchiusa) in cima alla strada
lastricata, dove culminava il mio orizzonte visivo di ragazzino
di pochi anni e di gran curiosità. E lindomani, a luce
meridiana, erano sopraggiunti soldati diversi, con divise non più
grigiastre, ma del colore autunnale delle foglie di platano. Americani:
qualcuno di pelle nera, come i protagonisti della Capanna dello
zio Tom; e polacchi: con rinascimentali donne-autiste, dai capelli
dun biondo abbagliante. Ci porgevano cioccolata, chewing-gum,
sigarette e larghi sorrisi. Ci regalavano la libertà, portata
da Paesi lontani, conquistandocela cimitero di guerra dopo cimitero
di guerra, croce dopo croce, con incise su ogni croce date di giovinezze
bruciate sulla linea polare dai venti ai trentanni.
Avrei insegnato per un anno a Cassino, e lì avrei scoperto
cimiteri e croci ordinate fra prati verde tenero, in anfiteatri
di pietra chiara, nel concavo grembo di un acrocoro frugato da un
lieve vento australe. Avevo, qui, più o meno la loro età:
quella, fermata per sempre; la mia, proiettata oltre. Io vivo e
libero, grazie a loro, liberi e caduti.
Secondo scenario. Nazareth, Chiesa dellAnnunciazione. Sotto
la quale archeologi in saio hanno rimesso in luce antiche dimore
scavate nella roccia calcarea. Compresa quella presumibilmente
di Maria. La casa di Gesù monello. Accanto alla gran
chiesa, uno slargo, per metà proprietà dei francescani,
per laltra metà demanio israeliano. E qui, ottuso segno
della sfida, loccupazione abusiva da parte dei muslìm.
I quali, non potendo (ancora) alzare una moschea e un minareto,
hanno piantato una gran tenda e attivato un altoparlante. Alle quattro
e un quarto di ogni mattina, il primo dei cinque richiami del muezzin,
in anticipo sul suono delle campane che, cento minuti dopo, annunciano
la prima messa. Pilateschi gli israeliani (fra i due litiganti
),
pronti a venire alle mani e brandire armi bianche i musulmani. Allah
akbar!, modula il grido. Il pilastro della concezione muslìm
della realtà e della stessa rivelazione coranica è
lassoluta Unicità di Dio. La sura CXII è la
più esplicita: Dì: Egli Dio è lUnico,
Dio lEterno. Non generò e non fu generato e nessuno
Gli è pari . La passione dellUnicità che
innerva tutto lIslam e che si manifesta soprattutto nel misticismo,
ha condotto i suoi teologi a rifiutare la concezione trinitaria
e quindi ad allontanarsi dal Cristianesimo. Ma il muezzin registrato
e dispiegato sulla città non fa teologia. Traduce, volgarizzando:
Sia maledetto colui che dice che Dio abbia avuto un figlio
. Per cinque volte al giorno, i cristiani sono serviti.
Terzo scenario. Khyber Pass. La porta obbligata per
il passaggio dal Pakistan allAfghanistan si apre su una strada
da capogiro. Il Passo è equidistante dalla pakistana Peshawar,
città di briganti che in centinaia di officine fabbricano
armi automatiche con strumenti di lavoro rudimentali, e dallafghana
Jalalabad, millenaria città sulla via della Seta, e ora dellOppio.
Kabul, capitale di un Paese di macerie che galleggia su immensi
giacimenti di gas e su miniere vergini di oro e di titanio, è
poco più in là. A sud è Qandahar, fucina dellidea
talebana. A ovest è Herat, moschea dorata, fortezza superba,
suq un giorno brulicante, città di Alessandro il Grande,
del Tamerlano, di Gengis Khan, dei Moghul. E degli inglesi, i quali,
nel 1842, raggiuntala a marce forzate, da qui iniziarono la ritirata,
fino allumiliante sconfitta che ridusse il pur terribile Esercito
dellIndo (38 mila uomini, 30 mila cammelli, mogli e figli
degli ufficiali al seguito, e un vero e proprio battaglione di baldracche
a disposizione della fanteria) a pochissimi scampati: il medico
William Brydon e 60 ostaggi, con 19 mogli e 22 figli. Per tre volte
Londra tentò di assoggettare la terra dei pashtun, e altrettante
volte venne travolta. Cera riuscito solo Gengis Khan, che
però era stato costretto a distruggere i sistemi irrigui,
dando via libera allavanzata del deserto, e a radere al suolo
ogni città, ogni villaggio.
Una leggenda vuole che Allah, dopo aver creato il mondo, con i pezzi
rimasti e con i rimasugli di tutte le nazioni formò lAfghanistan,
affidandolo a un coacervo di infide tribù guerriere e ai
giganti addormentati (ma pronti al risveglio e allo sterminio) nel
cuore impervio dellAsia. Superbe le montagne, di orrida bellezza
i baratri coronati da foreste di abeti e betulle rosse, bradi i
fiumi, erratici gli uomini, di naturale ferocia. Qui è luniverso
taleban (proiettato dalla natia Peshawar) che punisce i mariti delle
giovani donne che osino lavare i panni in riva a un corso dacqua,
vieta la diffusione della musica, impedisce il taglio della barba,
lallevamento di piccioni, i giochi con gli uccelli, i balli
nei ricevimenti matrimoniali, la confezione di vestiti femminili
e la presa delle misure alle donne, le pettinature alloccidentale,
lesposizione di ritratti, persino il volo degli aquiloni.
Mentre rinserra in un sarcofago di lana le donne, vieta loro di
studiare, di lavorare, di curarsi, di uscir sole in strada; nega
le protesi di legno ai bambini saltati sulle mine, minaccia i medici
che se ne fanno carico; lapida le adultere, mentre esercita su larga
scala lo stupro; ha aspettative di vita di poco superiore alla metà
di quelle occidentali; è per due terzi analfabeta
Sicché il Khyber Pass non divide soltanto un mondo di case
con giardini e trincee con missili a corto raggio da unarea
con macerie e campi di mine con altre trincee e artiglierie, ma
anche un cielo con aquiloni da un cielo senza aquiloni: un confine
invisibile traduce il volo di un dragone di carta colorata in un
peccato di idolatria, un gioco in un crimine, contro il quale agisce
una ferrugigna polizia religiosa. La polizia istituzionale,
che veglia sul rispetto della sharia, o legge coranica, è
tutta taleban. I capitribù delle etnie maggioritarie pashtun
presiedono i tribunali agropastoralnomadi delle leggi fondamentali
tramandate oralmente (riassunte nel pashtunwali) e spesso
prevalenti sulla stessa legge islamica. Ne sono coinvolti non solo
i pashtun, stirpe e lingua indoeuropea, ma anche i tagiki, lingua
e stirpe iranica, i turkmeni, gli uzbeki e i kirghisi, stirpe e
lingua turca, gli hazara, stirpe e lingua mongolica, i baluci, i
pendjabi, i sindhi... Nessun altro Paese muslìm poteva essere
più adatto di questo, che riesce a federare contrasti di
sangue e appartenenza, di essenzialismo e odio, di bellezza e ferocia,
per lanciare la sfida neo-califfale al mondo. E non solo a quello
occidentale.
Breve premessa. LIslam riconosce i primi quattro Califfi,
i cosiddetti Ben Guidati, come successori di Maometto:
Abu Bakr, Omar, Othman e Ali, eletti dalla Umma, la comunità
dei fedeli. Col golpe di Muawyya, il Califfato divenne
ereditario e determinò la scissione tra sunniti e sciiti,
a loro volta sfarinati in una galassia di gruppi minori. Il vero
Califfato finì nel 1258 a Baghdad, distrutto dai mongoli.
Quello successivo, Ottomano, fu una finzione giuridico-religiosa,
abbattuta da Ataturk, che spedì in esilio lultimo Sultano-Califfo,
Maometto VI, morto a Sanremo nel 1926.
Ad Abu Bakr, nientemeno, si era rifatto Osama bin Laden, personaggio
quanto mai inquietante. Coltivato dallAmerica al tempo dei
mujhaeddin in guerra contro i sovietici, poi ribelle: ex viveur,
frequentatore dei casinò di Beirut, architetto, votato al
più rigoroso Islam dopo la sconfitta di Mosca, costruttore,
investitore di petrodollari, settimo di 53 fratelli (generati nellharem
paterno), nato a Gedda, in Arabia Saudita, neanche lontanamente
imparentato con la corrottissima dinastia wahabita che domina a
Riad, capace di esprimere pacatamente concetti incendiari, consegnandoli
come precetti fondamentali pensati con una sorta di raggelante understatement
tutto orientale, fondatore di al-Qaeda, la Base, che a sua volta
ha partorito la Shabka, la Sciabica, una rete che aggrega la sanguinaria
galassia degli essenzialisti muslìm, nemico giurato dellImpero
del Male, alfiere della crociata per la restaurazione del Califfato:
solo una figura così poliedrica e complessa poteva assurgere
a bandiera delloltranzismo religioso che ha finito per dividere
anche gli intellettuali occidentali. Da una parte, i seguaci di
Samuel Huntington, il quale, subito dopo la caduta del Muro di Berlino,
annunziò la comparsa di un nuovo conflitto, che nel secolo
XXI ci avrebbe posto contro lIslam. Dallaltra, la scuola
di Bernard-Henry Levy, secondo cui le democrazie vinceranno se rifiuteranno
con tutte le loro forze le semplificazioni manichee della teoria
dello scontro di civiltà. Se ne fa persino un
problema semantico: guai a porre laureola del meraviglioso
prestigio di una guerra fra visioni del mondo.
Guardiamo nel cortile di casa nostra. Guerra, in Italia,
è un tabù: si fa, ma non si dice. Prevalgono leufemismo,
lallusione, la circonlocuzione, ledulcorazione lessicale.
Ma se quella avviata in Afghanistan non è stata guerra, che
cosè stata? I bombardamenti aerei, i lanci di missili,
il fuoco dartiglieria, le distruzioni, il sangue versato e
le risacche di centinaia di migliaia di profughi, che cosa hanno
rappresentato? Quando la guerra era guerra, Marinetti la definiva
«la sola igiene del mondo», e i neutralisti da una parte
e gli interventisti dallaltra scatenavano tumulti, in un clima
di guerra civile quale il Regno dItalia aveva raramente conosciuto
durante i suoi cinquantanni di vita. Oggi, dopo il primo e
il secondo conflitto mondiale, dopo le carneficine, gli sterminii,
gli orrori, un intellettuale che inneggiasse alla guerra come lavacro
purificatore sarebbe pubblicamente interdetto.
Nel 14-15 buona parte del ceto colto impazzì
per la guerra: una guerra estetizzata, sublimata, teorizzata, apertamente
rivendicata da uno spirito magno come Thomas Mann. Adesso la guerra
si esorcizza con basse elucubrazioni semantiche. Dacia Maraini ha
parlato di vendetta, Giuseppe Pontiggia ha invocato
la mediazione. Per riconciliarsi in qualche modo con
la dimensione reale della guerra, per dare un senso diverso al sangue
versato, alle città distrutte, alle vite spezzate, alle opere
darte perdute, la guerra del Kosovo non è stata chiamata
guerra, ma ingerenza umanitaria, intervento etico,
operazione di polizia internazionale, aiuto armato.
Tutto, meno che guerra.
Dopo lattacco alle Twin Towers e la parola passata alle armi,
luso del termine si è piegato a sofisticate controversie
politiche. Giulio Andreotti ha respinto lidea della rappresaglia,
per non elevare i terroristi «al livello dei belligeranti».
Giuliano Ferrara ha precisato: «Si tratta di bollare come
terroristi certi principati che proteggono gli attentatori. Con
le conseguenze del caso: belliche». Non è una pura
e semplice tenzone lessicale. Ma rispetto al 14-15,
un sovrappiù di pudore o di ipocrisia linguistica ha fatto
irruzione nella terminologia politico-militare. Salandra, tanto
per fare un esempio, non esitava ad invocare il principio del sacro
egoismo dellItalia. Oggi, un linguaggio così
crudo sembrerebbe sconveniente. Nel mondo cattolico altro
esempio si è spaccato il capello in quattro, e si
è chiesto che non si avesse a che fare con vendette,
ritorsioni o rappresaglie, (e intanto lineffabile
Comunità di SantEgidio riceveva con onori di capi di
Stato gli sterminatori di cristiani di tutte le latitudini), mentre
papa Benedetto XV con linguaggio incommensurabilmente più
diretto aveva bollato il primo conflitto mondiale come «uninutile
strage».
Moderate erano le nostre classi dirigenti dellepoca, e moderato
e tatticista era Giovanni Giolitti, bestia nera degli intellettuali
interventisti. Per farla finita con la meschinità
delluniverso borghese, con la grettezza dellItalietta,
gli intellettuali videro nella guerra lavventura, luscita
dalla routine, la fonte di rigenerazione di un mondo corrotto e
spento. DAnnunzio vi colse loccasione di una vita: il
trionfo del dannunzianesimo. Un intellettuale severo e supercilioso
come Gaetano Salvemini divenne capofila dellinterventismo
democratico per assestare un colpo mortale al giolittismo che detestava.
Uno scrittore fine come Renato Serra vide nella guerra il «momento
supremo», loccasione ineludibile dellintera esistenza.
Emilio Lussu non sapeva che la guerra da lui invocata sarebbe stata
lorrore descritto poi in Un anno sullaltipiano. LItalia
entrò in un clima di effervescenza che nella storia e nella
memorialistica sarebbe stato ricordato come quello delle radiose
giornate. Secondo Mario Isnenghi, le strade che si popolavano
di esagitati interventisti diventarono una tappa cruciale dell«Italia
in piazza». E fu Benedetto Croce, che della guerra era fiero
avversario da posizioni nobilmente conservatrici, a descrivere nella
Storia dItalia dal 1871 al 1915 «il tumulto dei sentimenti,
luragano delle fantasie, che si disfrenò dappertutto
al disfrenarsi della guerra».
La piazza di allora era interventista, quanto quella emersa dopo
l11 settembre di Manhattan si è sentita neutralista:
ecco unaltra differenza di fondo. E pur vero che
allora la delusione, figlia dellillusione, subentrò
quasi subito, e basta scorrere le memorie di Carlo Emilio Gadda
o di Giovanni Comisso o di Luigi Russo per cogliere lo sgomento
di fronte alle «tempeste dacciaio» descritte da
Ernst Junger, lorrore delle trincee come camminamenti verso
la morte o, al meglio, verso la mutilazione drammaticamente rappresentato
dalle pagine di Erich Maria Remarque, la militarizzazione della
società europea, la morte di massa conseguente alla mobilitazione
totale, la carneficina tecnologica che faceva a pugni con
lideale tardo-cavalleresco di chi vedeva nella guerra il palcoscenico
di unelettrizzante recita.
Oggi, nei dibattiti che non hanno chiamato guerra la guerra, si
è percepita leco di quellantica disillusione,
che solo con il crollo di un regime totalitario nato sul mito della
trincerocrazia e con le distruzioni immani del secondo conflitto
mondiale si sarebbe acuita al punto da fare della guerra e del suo
nome un angosciante tabù.
Sicché son potute fiorire le dispute andreottiane se si debba
considerare belligerante il terrorista e terrorista il belligerante;
o le distinzioni bertinottiane che chiudono allidea della
guerra, ma lasciano intendere che sono possibili reazioni
che, anche se guerra non si chiamano, (del resto, le guerre le fanno
soltanto gli amerìki. O no?), a qualcosa di molto simile
alla guerra possono essere apparentate. Facile liquidare brutalmente
il tutto come frutto di uninestirpabile ipocrisia italica,
perché i tabù hanno radici profonde e non sono soltanto
il prodotto di un tic mentale. Questi tempi sembrano caricarsi di
paure tangibili e di aspettative buie: se guerra non è stata,
non sarà, allora cosè stata, cosa sarà?
Ritorniamo in campo aperto. E alla cronaca. Dietro gli annunci contenuti
nelle videocassette di bin Laden, in cui si invocano la difesa dellIraq,
la cacciata degli amerìki dallArabia Saudita dei Luoghi
Santi e la cancellazione di Israele, cera il progetto di guidare
una rivoluzione per far dissolvere gli Stati arabi e per dar vita
a un nuovo Califfato. Il progetto ha fatto più strada di
quanto sia dato credere. Basta consultare gli archivi dellInterpol
per prenderne atto. La polizia tedesca ha accertato che il gruppo
integrista turco Hilafet Devleti ha come obiettivo la
creazione di un Califfato. Scotland Yard ha registrato
centinaia di ore di conversazione fra gli aderenti al gruppo al-Muhajeroun
che prospettano la nascita di un grande Califfato. In
Asia centrale il Partito della Liberazione Islamica (Hizb-ut-Tahrir)
ha cellule in Uzbekistan, in Kirghizistan, in Tagikistan con lintento
di ristabilire il Khilafat-e-Rashida, il Califfato che
dominò gli arabi dopo la morte di Maometto. Le squadre dellantiterrorismo
indiano hanno recuperato nei covi dei separatisti del Kashmir documenti
che prospettano lavvento di un nuovo Califfo.
Questi gruppi hanno in comune lappartenenza ad al-Qaeda.
La rinascita del Califfato era il cuore del progetto di bin Laden
fin da quando, a metà degli anni Ottanta, aveva fondato con
Abdullah Azzam un palestinese aderente alla Fratellanza Musulmana
il Maktab al-Khidamat (Ufficio di Servizi), che
da Peshawar faceva arrivare in Afghanistan centinaia di volontari
per il jihad contro lArmata Rossa, reclutati grazie a centri
sparsi in mezzo mondo. «Durante i loro viaggi in Afghanistan
recitavano infiammati sermoni racconta Yossef Bodansky, autore
di Luomo che ha dichiarato guerra allAmerica
invocando la lotta contro gli infedeli e i regimi musulmani non
islamici, con lobiettivo di restaurare il Califfato».
Gli essenzialisti accusano lOccidente di aver frammentato
il mondo arabo «in tanti piccoli Stati»: è questa
la ferita che al-Qaeda attribuisce al colonialismo degli ultimi
duecento anni e che si propone di rimarginare grazie a un network
di gruppi e organizzazioni che si battono per la creazione di una
società islamica. Primi obiettivi: lEgitto, con laiuto
del locale jihad, e lArabia Saudita, con la complicità
degli Hezbollah, per la conquista di un Paese moderato e delle città
sante della Mecca, di Medina e di Gerusalemme. Lambizione
è di superare i Califfati precedenti, il cui territorio si
estendeva dallAtlantico agli altipiani della Persia, mentre
oggi si scommette su pakistani, kashmiri, indonesiani, filippini
e uguiri cinesi per affacciarsi sullOceano Pacifico, sui Paesi
turcofoni e sullIran e lIraq, per aprirsi la via verso
il Libano e la Palestina, chiavi di volta per la conquista anche
degli emirati petroliferi, e sul Gia algerino per la continuità
territoriale fino allAtlantico. Bottino: le fonti energetiche
e latomica pakistana. Ha detto Akbar Ahmad, preside della
facoltà di Studi Islamici allAmerican University di
Washington: «Forse alcuni ritengono questo scenario inverosimile.
Ma pochi secoli fa qualcuno era già riuscito a tradurlo in
realtà». Strategica, senza dubbio, la preda petrolcratica,
che comprende dieci governi islamici: Iran, Iraq, Arabia, Kuwait,
Emirati Arabi Uniti, Qatar, Libia, Algeria, Nigeria, Indonesia.
Più temibile la prospettiva delle armi atomiche in pugno
agli essenzialisti.
Ancora nel 1900 il Sultanato-Califfato di Costantinopoli imperava
su Damasco, Gerusalemme, Baghdad, Bassora, La Mecca. Quando il primo
conflitto mondiale non era ancora finito, francesi e inglesi si
spartirono il Vicino Oriente (accordi di Sykes-Picot, 1917) e i
trattati di pace del 20-22 tracciarono il copione: gli
alleati sbarazzatisi della Russia, e nel disinteresse americano
insediarono monarchie in Paesi suddivisi arbitrariamente.
Queste suddivisioni saranno fonte delle principali guerre dopo il
45. Ma soprattutto, per restare sul tema attuale, (si rilegga
I sette pilastri della saggezza, di T.E. Lawrence; o si riveda Lawrence
dArabia, del regista David Lean), i britannici scelsero
la tribù dei Bani Saud alleata alla setta puritana
dei wahabiti, contro gli hashemiti, veri e propri discendenti di
Maometto e guardiani dei Luoghi Santi musulmani. A poco a poco,
i Bani Saud conquistarono con la forza e con lastuzia
lintera penisola arabica.
Gli Stati Uniti intervennero dopo gli accordi di Yalta, e cominciarono
a controllare gli idrocarburi con la creazione dellAramco,
prima compagnia petrolifera americano-saudita. In pieno periodo
maccartista e di guerra fredda, il Pakistan del dittatore Zia vendette
agli Usa lidea del muslìm belt: una cintura islamica
di contenimento del comunismo ateo che lAmerica puritana indicava
come il Male. Abbiamo assistito da allora allalleanza continuamente
rafforzata fra puritani amerìki e puritani sauditi. Unarmonia
continuata fino alla Guerra del Golfo, ma non dopo: oggi nessun
musulmano tollera la presenza di una base militare statunitense
nella terra della Mecca e di Medina (e vi è stato un terribile
attentato), e gli oppositori lo fanno sapere al governo saudita.
Che in realtà governo non è, nel senso europeo della
parola: si tratta, in realtà, di fazioni tribali e religiose
che si dilaniano tra loro, anche se tutte insieme finanziano i movimenti
islamici essenzialisti (i diversi jihad, Hamas, la Fratellanza Musulmana,
gli Hezbollah, il Gia, il Fplp
), comprese organizzazioni ufficiali
come la Lega Islamica Mondiale, la Conferenza Islamica, la Banca
Islamica, e i gruppi distributori di milioni di copie (rigorosamente
in lingua araba) del Corano e quelli costruttori di grandi moschee
in varie regioni del mondo, Roma compresa.
Tutti sapevamo che lessenzialismo muslìm è luso
politico dei temi musulmani mobilitati in reazione alla occidentalizzazione,
ritenuta aggressione nei confronti dellidentità arabo-musulmana.
Gioco di parole a parte, è unantica protesta anti-moderna.
Ma su questo punto possiamo constatare che il progetto di creare
uno Stato islamico classico, una società islamica compatta
dal Pacifico allAtlantico, è un fallimento totale,
come ha dimostrato fra laltro il caso Khomeiny in Iran. Certo,
lislamizzazione dal basso è progredita. Ma la nebulosa
al-Qaeda non è costituita da unorganizzazione centralizzata
in pugno ai teo-paranoici studenti talebani, non è composta
di militanti di una stessa patria, di unidentica regione musulmana,
e neanche di uno stesso rito; e non recluta poveri e diseredati,
ma ingegneri e gente istruita, e coordina gruppi molto diversi e
servizi statali che non possono confessare i loro aiuti
clandestini e assidui.
Tutto questo può offrirci unopportunità unica.
Più che continuare a contrapporre Occidente e Islam, è
necessario cominciare a ritenere gli arabi veri e propri occidentali,
poiché il loro sistema di pensiero è greco-biblico,
e i musulmani hanno recepito il sistema capitalistico come una sorta
di etica protestante islamica. LOriente, molto
probabilmente, comincia con lIndia. Le più alte autorità
religiose musulmane devono prendere le distanze dai puri muslìm,
come gli occidentali devono prendere le distanze dai puri amerìki.
Gli uni e gli altri, a ben pensarci, parlano lo stesso linguaggio:
In God we trust . Come dire: Dio (il nostro Dio) è
con noi.
Ci son cose non dette, o non messe bene a fuoco, nella pur vasta
gamma di riflessioni sulloltraggio che ha sfregiato lAmerica
e sconvolto il mondo. Nel momento in cui sono decollati gli aerei
statunitensi, si è parlato dellinizio di una terza
guerra mondiale, una strana guerra imminente, o potenziale, ma contro
ignoti. In realtà, frammentata in tanti conflitti regionali,
questa era cominciata quindici anni fa. Le prime avvisaglie si erano
manifestate già durante il crollo del comunismo, nel duro
conflitto caucasico tra azeri islamici e armeni cristiani. Poi,
subito dopo il crollo, abbiamo visto i serbi ortodossi scontrarsi
nei Balcani con gli slavi e gli albanesi islamici. Quindi siamo
stati spettatori degli attentati terroristici subiti da Mosca e
dellendemico conflitto armato in Cecenia. Dopo di che, abbiamo
assistito a una sintomatica e premonitoria metamorfosi negli scontri
tra arabi ed ebrei in Medio Oriente: la seconda intifada palestinese
ha mandato in soffitta il lancio dei sassi e ha adottato il tremendo
lancio di uomini-bomba contro obiettivi non militari.
Tutti questi eventi di guerra, di guerriglia e di terrorismo, che
si sono propagati in varie regioni del mondo, hanno avuto e hanno
in comune due caratteristiche precise: il genocidio e la religione.
Le pulsioni genocide frammiste a quelle confessionali, da parte
cristiana non meno che da quella musulmana, erano presenti nei massacri
del Caucaso, della Bosnia, del Kosovo. La volontà dello sterminio
indiscriminato, con connotazione a sfondo religioso, è stata
quella che ha accomunato Manhattan ai Balcani e al Vicino Oriente.
I precedenti possiamo ritrovarli a Vukovar, a Grozny, a Srebreniça,
a Sarajevo. Sono i precedenti di una guerra mondiale senza confini,
alimentata dagli odii di religione e di razza, che oggi vede nelle
sette essenzialiste dellIslam unavanguardia mortuaria,
ma che è bene ricordarlo aveva arruolato nei
suoi eserciti anche molti cristiani. Non a caso le pressioni internazionali
esercitate sulla Serbia per lestradizione di Slobodan Milosevic
sembrano essersi ripetute, tali e quali, con la richiesta di consegna
di Osama bin Laden. Da un genocida allaltro, si potrebbe osservare
con distaccata equanimità. Da un oblio allaltro, si
potrebbe dire, al tempo stesso, rispolverando la memoria di un Saddam
Hussein che trafficava armi con i serbi nei giorni in cui le Tigri
dello sterminatore Arkan scannavano gli eredi del Maometto balcanico.
Devono prendere le distanze i religiosi moderati, ma anche gli uomini
di cultura. Dico cultura, e non discuto sullIslam di dieci
secoli fa, non metto in discussione la sua grandezza, limportanza,
lo splendore e gli effetti sulla cultura europea. Si deve discutere
su ciò che lIslam è oggi in se stesso, in relazione
al mondo moderno e in rapporto al contesto laico degli Immortali
Principii.
Nel passato, il mondo arabo-musulmano fu punto di raccordo fra culture
e civiltà dellOriente e dellOccidente. Fu centro
di trasmissione di informazioni che contribuirono a rinvigorire
lesangue universo euro-mediterraneo. Circa Averroè,
ha scritto Carlo Alfonso Nallino: «Molte delle sue opere filosofiche
furono prestissimo tradotte in latino direttamente dallarabo
o mediante versioni ebraiche, ed esercitarono notevole influenza
su Alberto Magno e San Tommaso dAquino [
]. Invece nel
mondo arabo non ebbe grande risonanza; la sua fine coincise con
la decadenza degli studi filosofici musulmani [
]; i testi
arabi delle sue opere a base dei libri aristotelici sono in massima
parte perduti». Dunque, sopravvive ad Averroè soltanto
ciò che è stato salvato dagli infedeli.
Egli è stato integrato nel patrimonio della cultura europea,
insieme a ciò che resta di Avicenna. E insieme alla filosofia,
stesso destino ebbero, nel mondo islamico, la medicina (autoctona,
in parte) e lastronomia (derivata dagli studi mesopotamici),
la geometria (derivata dalla cultura dellIndo), e le altre
scienze. In Storia dei popoli dellIslam - LIslam dellimmobilismo,
Sergio Noja ha scritto: «In Oriente la medicina del Rinascimento
europeo e le sue nuove conoscenze in campo anatomico e fisiologico,
se si eccettua la tardiva ricezione di Paracelso nel secolo XVI
ad opera di un arabo di Aleppo, non ebbero, col passare dei secoli,
alcuna risonanza».
Lo stesso fenomeno si verificò per tutti i campi della cultura
e dello spirito umano, ad eccezione dellinterpretazione coranica
dei dottori della Legge. Così, mentre la cultura europea
seppe rinnovarsi incessantemente studiando, assimilando, conservando
e sviluppando molto del buono che avevano le altre civiltà,
il contrario si registrò, a partire dal 1400, nel mondo islamico
e orientale in genere.
Ma oggi è cambiato questo atteggiamento agnostico nei confronti
della cultura occidentale da parte degli intellettuali arabi? I
temi che ci angosciano attualmente non sono assenti nel dibattito
in corso tra gli intellettuali musulmani, e le posizioni di alcuni
di loro meriterebbero maggiore attenzione. Già allinizio
degli anni Ottanta lex ministro della cultura tunisino Habib
Boularès affermava: «In effetti, oggi lIslam
fa paura. E innegabile. Ma si tratta di qualcosa di fatale,
di un destino ineluttabile? Il problema che sta di fronte al musulmano
non è facile. Alle note difficoltà legate allo sviluppo,
si aggiunge il peso della tradizione e la pervasività della
religione [
]. Lo sforzo maggiore è quello di coloro
che rifiutano le posizioni estreme, tentando da oltre un secolo
di realizzare una modernizzazione che non comporti né uno
sradicamento né lisolamento dai propri simili».
Un altro tunisino, lo storico Mohamed Talbi, ha affermato: «Sta
qui il principale ostacolo con cui lintellighenzia arabo-musulmana
si deve confrontare. Quando non è cortigiana, questintellighenzia
corre gravi rischi. Il mal pensante può essere
appeso a una corda, decapitato con una sciabola o ridotto a brandelli
da una bomba artigianale. Nel migliore dei casi, è condannato
al carcere [
]. Nel dialogo tra gli universi culturali, lOccidente,
forte e libero, deve ricordarsi [
] che ogni attentato contro
lo spirito in uno specifico universo culturale è anche un
attentato contro lo spirito di tutti gli universi culturali».
Si dirà: i maghrebini parlano così perché sono
occidentalizzati. Allora andiamo allaltro capo dellAfrica.
Legiziano Fahmi Huwaydi si è espresso chiaramente a
proposito delle modalità con cui lIslam concede agli
altri monoteisti alcuni diritti, mantenendoli però in uno
stato di sostanziale subalternità: «Lo statuto
di protezione ha finito per dar luogo a pratiche riprovevoli
e incompatibili con lo spirito dellIslam, le quali hanno aperto
la strada a degradanti umiliazioni [
]. I territori dove vivono
i musulmani devono restare proprietà dei musulmani e dei
non-musulmani, senza che nessuno domini o goda di preferenze, poiché
lunica superiorità che un uomo può vantare su
un altro risiede soltanto nella sua pietà e nel suo retto
comportamento».
Aggiunge il siriano Buhran Ghalioun: «Rifiutare la relazione
tra testo e storia, equivale a dimenticare che i musulmani, prima
di essere credenti, sono degli esseri viventi, degli uomini, dei
gruppi storici che agiscono, a dispetto della loro credenza particolare,
come tutti gli altri gruppi, in funzione di interessi e di aspirazioni
che si vanno rinnovando. Nel caso contrario, bisogna accettare la
tesi che, a differenza di altri popoli, il comportamento individuale
e politico dei musulmani obbedisca direttamente e unicamente alla
fede e a idee pure. Una tale società non può continuare
ad esistere in alcun luogo».
Ciò che deve spaventarci è lassenza di condizioni
favorevoli allo sviluppo di un siffatto dibattito allinterno
della maggior parte dei Paesi musulmani, come denuncia un altro
maghrebino, Yadh Ben Achour: «La situazione culturale, economica
e politica attuale del mondo arabo fa sì che sia impossibile
parlare della religione come di un fenomeno sociale [
]. Il
risultato è che ogni discorso sulla società, sulla
religione, sul diritto suppone preventivamente una sorta di autocensura
di chi parla o scrive. Il massimo di libertà che ci si può
permettere è far finta di niente, cercare di cavarsela con
giochi di parole, o correre il rischio della scomunica o della condanna
a morte. E dunque un dibattito quasi impossibile, perché
mancano due condizioni indispensabili allobiettività:
laccordo sugli strumenti danalisi e lautonomia
di giudizio [
]. Lintellettuale se ne rende conto e sa
che, impegnandosi nella ricerca, è condannato a perdere la
propria innocenza. E quindi del tutto naturale che
non essendo ogni intellettuale necessariamente un eroe in
tali condizioni non tutto venga detto e che il discorso dellintellettuale
a proposito della religione, del diritto, della politica, sia diplomatico,
fatto di silenzi, di prudenza e di furbizie. Sia, in definitiva,
un discorso corrotto».
Cè dunque chi è capace di sviluppare una seria
autocritica, senza addossare ogni responsabilità ai soliti
nemici esterni. Al di là della crisi politica e sociale,
il mondo musulmano stesso attraversa oggi la sua più grande
crisi religiosa. Così come la mancanza di un pensiero politico
critico va di pari passo con lo strapotere dello Stato, la mancanza
di unautorità legittima religiosa fa perdere il controllo
sulle forze spirituali della religione. Solo in questo senso, e
soltanto per il campo dello spirito, si potrebbe giustificare il
ritorno del Califfato in un Islam devastato dallaccumulazione
di esigenze disordinate e contraddittorie.
Ultimo scenario. New York. Novembre 87. Gianfranco Langatta
si presentò alla reception e mi fece chiamare: «Sono
le due di notte, e fa venti gradi sotto zero», mi difesi.
«Non nevica, è il vento dei Grandi Laghi, copriti come
puoi», incalzò. Scesi a malincuore. Camminavamo veloci,
il bavero tirato su, si respirava unaria affilata, attorno
ai pennacchi di vapore degli sfogatoi del riscaldamento si assiepavano
ubriachi rumorosi, infagottati in lunghi pastrani di lana grezza.
In cima alla Quinta Strada un agente, controllati i nostri passaporti,
si sentì in dovere di avvisarci che fino alla Tredicesima
eravamo a New York, da lì alla Ventitreesima eravamo nelle
mani della polizia, oltre saremmo stati soltanto nelle mani di Dio.
Perfettamente nero, il cielo; o meglio, i poligoni di cielo che
sembravano incardinati alle terrazze dei grattacieli, chiudendo
lispida Manhattan in unalgida ellisse di cristallo.
Sembrava respirare profondamente, la città. Anche sul fronte
del porto, dove sonnecchiava una portaerei monumento della
seconda guerra mondiale; e tra i free stores dai nomi familiari
(Il Triestino, Il Romano
) con le insegne a luci intermittenti;
o fra le finestre ancora accese su piani molto distanti
di uffici insonni.
Il sangue rallentava il suo flusso, avrebbe voluto coagulare, e
si dovevano battere i piedi sul selciato, ogni tanto, fin quasi
a sentire scricchiolare le giunture, per rimetterlo in circolo.
Non sentivo le labbra, il naso, i lobi, i tendini si arrugginivano,
unimprudenza non aver comprato un qualche dannato indumento
che mi preservasse dalle abissali escursioni termiche newyorchesi.
Ma la successiva destinazione era prevista in Giappone, poi in Vietnam,
che farsene, laggiù, dove le previsioni davano quaranta gradi
sopra zero? Allora, di corsa, movimenti larghi delle braccia, brevi
soste, roteazione oraria e antioraria del busto, piegamento dei
gomiti
«Da diventare matti», dissi. Langatta rideva in dialetto
leccese, a Manhattan non vola nulla, diceva, hanno fregato le rotte
agli uccelli, per aria passano solo gli elicotteri e la tua fantasia,
allora di che ti lamenti?
Dellandare senza conoscere la meta. E del non vedere colori
giustapposti, in un universo geometrico pietrificato, chiuso nella
sua totalizzante verticalità. Del camminare e correre senza
sapere perché. E del sentirmi annullato nella mia misura
fisica da quelle incommensurabili piramidi deserte che sommavano
gelo a gelo. Del silenzio privo di senso, in quellora disumana,
unora da fredde macchine automatiche, i computer che controllavano
e regolavano il polso del pianeta in una via contigua, quella Wall
Street che, emblematicamente, comincia sul greto di un fiume e culmina
sul cancello di un cimitero
«E di Pomodoro», disse improvvisamente Langatta,
indicandomi la scultura sferica che dominava il centro della piazza
grande. Alle spalle, due costruzioni basse, per quel che basso può
significare a New York: due parallelepipedi di vetro e acciaio che
aprivano lintrigante fondale con gli aculei gemelli delle
Twin Towers. Altissime, queste, parallele e lievemente piegate in
avanti, verso la sfera, perché locchio potesse coglierne
larmoniosa continuità dalla radice alla vetta; non
incombenti, però, e a modo loro snelle e quasi gentili come
eccentrici minareti, con lineamenti scontornati da uno straordinario
baluginio. In cima, infatti, equidistante, bianco come solo lui
sa essere bianco, il disco perfetto della luna piena.
«Ne valeva la pena?». Era la piazza che De Chirico mancò,
che avrei ritrovato fra le imponenti architetture della Grande Mela
dipinte da Tonino Caputo: ma queste tra il grigio e lazzurro,
metallizzati comunque, quella invece colta sul momento, nellincantevole
illusione ottica dellinsieme, come unico assolo
in un folgorante pentagramma. La sola New York come interno,
fra Avenues che sono piste di decollo e Streets irrispettose che
le tagliano ad angoli radenti. La sola latitudine urbana con unemblematicità
esplicitamente premeditata. Altro che, se era valsa la pena.
Hanno chiamato la piazza, dopo che le Towers sono state trafitte,
Ground Zero. Implosa la ribalta, è paesaggio
desolato: luogo senza nome, di macerie e di morte. Deserto privo
di palmizi che diano una pur remota opportunità di scampo.
Ci sono seimila croci, dicono questa pietosa bugia per esorcizzare
lagguato dei puri muslìm contro i puri amerìki.
E un sorprendente pudore vieta di farci vedere una sola vita stroncata,
di farci ascoltare una sola intervista a un ferito, di proporci
non dico uno zoom, ma almeno un campo lungo del Ground Zero. In
quel recinto violato, fra quei grovigli di acciaio disarticolato,
è finito il sogno dell(oltre)frontiera dellAmerica.
Ora si è preso atto che la realtà può superare
ogni fantasia. Come richiama alla mente la parafrasi bogartiana
che una mano impietosa ha tracciato sullo zoccolo di un murale dalle
parti di Brooklyn, bruciante avviso ai naviganti del Mondo sempre
meno Nuovo: E la vita, cioè la storia, bellezza!
|