Dicembre 2001

CHE MONDO FA

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Puri muslìm
puri amerìki
ALDO BELLO  
 
 

Un sorprendente pudore vieta di farci vedere una sola vita stroncata, di farci ascoltare una sola intervista a un ferito, di proporci un campo lungo del Ground Zero.

 

La sfida di Osama bin Laden era stata chiara: di qua c’è l’Islam, di là tutto il resto. E poiché è scritto nel Corano che a Dio appartengono l’Oriente e l’Occidente, è giunto il momento della resa finale dei conti. La sfida di questo miliardario da età della pietra avrà lunga eco, perché fa leva sull’aggressivo integrismo religioso del sottoproletariato più miserabile (sotto il profilo economico) e frustrato (sotto il profilo storico) dall’Asia Minore alla Cina, dal Marocco all’Indonesia, passando la parola d’ordine – jihad, guerra santa – lungo il ventre molle del pianeta che tinge di Islam le fasce parallele all’equatore. “Tutto il resto” è il deserto di valori coranici abitato dagli infedeli. E’ la Terra di Satana, che si identifica in modo speciale con l’America. E dal momento che l’Europa è schierata con gli americani, è variamente cristiana, e come gli Stati Uniti usa forme più sofisticate, ma non per questo meno micidiali di neocolonialismo, per la proprietà transitiva è anch’essa Terra di Satana. Tutti gli americani. Testualmente: amerìki.
Gli occidentali invocano la legittima difesa. Ogni sura del Corano, sostengono, inizia con: – Tu, il Misericordioso –, parola che contiene la radice di “utero”: un “Dio femmina”, dunque, ha generato il popolo muslìm e ripudia i figli degli altri monoteismi, elevando addirittura al valore di “martirio” l’autodistruzione in nome della distruzione. Ora, oltre alla forza della fede, il martirio non ha mai dimostrato nulla, e meno che mai l’esistenza (e la volontà profetica) di un Dio. La sua mutazione in strumento di morte, escludendo la misericordia, lo traduce in cieca violenza. In oppio del popolo. In delirante forza d’urto che coinvolge civiltà e culture e può preludere alla desertificazione umana del pianeta.
Noi sappiamo che l’11 settembre la storia del mondo ha voltato pagina. Sappiamo quando e come si è aperto il nuovo capitolo, ma non quando né come né dove finirà. Siamo anche consapevoli che si tratterà di un’inedita storia lunga, in termini di guerra e di diplomazia. Cioè, continueranno a morire in tanti, e non tutti colpevoli, per fatale stato di necessità, mentre chi – da una parte e dall’altra – ha in pugno le leve dell’economia, della finanza e delle materie prime dovrà pur prendere coscienza una volta per tutte che in Oriente e in Occidente non potrà esserci pace senza giustizia.
Sono stati onorevoli gli sforzi compiuti dagli amerìki per dimostrare che si tratta di una campagna contro i clan terroristici dei muslìm. Ma la realtà che emerge da scenari di morti ammazzati, da aggressioni, da patti traditi, e da memorie storiche stravolte da relativismi interpretativi, da pregiudizi, da ipocrisie, è sentita da moltissimi come “altro”: come scontro fra continenti culturali e religiosi, civili e sociali che, più che confinare, si sono sempre fronteggiati, in attacco e in difesa, alternativamente, con armi proprie e improprie, e comunque per la vita o per la morte. Tutti abbiamo nel “lago del cuore” un funesto presentimento: eludere la sostanza delle cose per tattiche diplomatico-belliche è un discorso; far finta che quelle cose siano diverse da quelle che sono, col ricorso a trucchi di bassa semantica, può essere l’inizio della fine del mondo.
Il primo dei miei scenari. Galatina. I reparti motorizzati della Wehrmacht si erano ritirati in ordine, senza lasciarsi alle spalle alcuna maceria, senza aver torto un capello a nessuno. Erano risaliti a tarda sera per la bellissima via Lillo ed erano scomparsi tra due fondali di porte serrate (la mia, socchiusa) in cima alla strada lastricata, dove culminava il mio orizzonte visivo di ragazzino di pochi anni e di gran curiosità. E l’indomani, a luce meridiana, erano sopraggiunti soldati diversi, con divise non più grigiastre, ma del colore autunnale delle foglie di platano. Americani: qualcuno di pelle nera, come i protagonisti della Capanna dello zio Tom; e polacchi: con rinascimentali donne-autiste, dai capelli d’un biondo abbagliante. Ci porgevano cioccolata, chewing-gum, sigarette e larghi sorrisi. Ci regalavano la libertà, portata da Paesi lontani, conquistandocela cimitero di guerra dopo cimitero di guerra, croce dopo croce, con incise su ogni croce date di giovinezze bruciate sulla linea polare dai venti ai trent’anni.
Avrei insegnato per un anno a Cassino, e lì avrei scoperto cimiteri e croci ordinate fra prati verde tenero, in anfiteatri di pietra chiara, nel concavo grembo di un acrocoro frugato da un lieve vento australe. Avevo, qui, più o meno la loro età: quella, fermata per sempre; la mia, proiettata oltre. Io vivo e libero, grazie a loro, liberi e caduti.
Secondo scenario. Nazareth, Chiesa dell’Annunciazione. Sotto la quale archeologi in saio hanno rimesso in luce antiche dimore scavate nella roccia calcarea. Compresa quella – presumibilmente – di Maria. La casa di Gesù monello. Accanto alla gran chiesa, uno slargo, per metà proprietà dei francescani, per l’altra metà demanio israeliano. E qui, ottuso segno della sfida, l’occupazione abusiva da parte dei muslìm. I quali, non potendo (ancora) alzare una moschea e un minareto, hanno piantato una gran tenda e attivato un altoparlante. Alle quattro e un quarto di ogni mattina, il primo dei cinque richiami del muezzin, in anticipo sul suono delle campane che, cento minuti dopo, annunciano la prima messa. Pilateschi gli israeliani (fra i due litiganti…), pronti a venire alle mani e brandire armi bianche i musulmani. Allah akbar!, modula il grido. Il pilastro della concezione muslìm della realtà e della stessa rivelazione coranica è l’assoluta Unicità di Dio. La sura CXII è la più esplicita: – Dì: Egli Dio è l’Unico, Dio l’Eterno. Non generò e non fu generato e nessuno Gli è pari –. La passione dell’Unicità che innerva tutto l’Islam e che si manifesta soprattutto nel misticismo, ha condotto i suoi teologi a rifiutare la concezione trinitaria e quindi ad allontanarsi dal Cristianesimo. Ma il muezzin registrato e dispiegato sulla città non fa teologia. Traduce, volgarizzando: – Sia maledetto colui che dice che Dio abbia avuto un figlio –. Per cinque volte al giorno, i cristiani sono serviti.
Terzo scenario. Khyber Pass. La “porta obbligata” per il passaggio dal Pakistan all’Afghanistan si apre su una strada da capogiro. Il Passo è equidistante dalla pakistana Peshawar, città di briganti che in centinaia di officine fabbricano armi automatiche con strumenti di lavoro rudimentali, e dall’afghana Jalalabad, millenaria città sulla via della Seta, e ora dell’Oppio. Kabul, capitale di un Paese di macerie che galleggia su immensi giacimenti di gas e su miniere vergini di oro e di titanio, è poco più in là. A sud è Qandahar, fucina dell’idea talebana. A ovest è Herat, moschea dorata, fortezza superba, suq un giorno brulicante, città di Alessandro il Grande, del Tamerlano, di Gengis Khan, dei Moghul. E degli inglesi, i quali, nel 1842, raggiuntala a marce forzate, da qui iniziarono la ritirata, fino all’umiliante sconfitta che ridusse il pur terribile Esercito dell’Indo (38 mila uomini, 30 mila cammelli, mogli e figli degli ufficiali al seguito, e un vero e proprio battaglione di baldracche a disposizione della fanteria) a pochissimi scampati: il medico William Brydon e 60 ostaggi, con 19 mogli e 22 figli. Per tre volte Londra tentò di assoggettare la terra dei pashtun, e altrettante volte venne travolta. C’era riuscito solo Gengis Khan, che però era stato costretto a distruggere i sistemi irrigui, dando via libera all’avanzata del deserto, e a radere al suolo ogni città, ogni villaggio.
Una leggenda vuole che Allah, dopo aver creato il mondo, con i pezzi rimasti e con i rimasugli di tutte le nazioni formò l’Afghanistan, affidandolo a un coacervo di infide tribù guerriere e ai giganti addormentati (ma pronti al risveglio e allo sterminio) nel cuore impervio dell’Asia. Superbe le montagne, di orrida bellezza i baratri coronati da foreste di abeti e betulle rosse, bradi i fiumi, erratici gli uomini, di naturale ferocia. Qui è l’universo taleban (proiettato dalla natia Peshawar) che punisce i mariti delle giovani donne che osino lavare i panni in riva a un corso d’acqua, vieta la diffusione della musica, impedisce il taglio della barba, l’allevamento di piccioni, i giochi con gli uccelli, i balli nei ricevimenti matrimoniali, la confezione di vestiti femminili e la presa delle misure alle donne, le pettinature all’occidentale, l’esposizione di ritratti, persino il volo degli aquiloni. Mentre rinserra in un sarcofago di lana le donne, vieta loro di studiare, di lavorare, di curarsi, di uscir sole in strada; nega le protesi di legno ai bambini saltati sulle mine, minaccia i medici che se ne fanno carico; lapida le adultere, mentre esercita su larga scala lo stupro; ha aspettative di vita di poco superiore alla metà di quelle occidentali; è per due terzi analfabeta…
Sicché il Khyber Pass non divide soltanto un mondo di case con giardini e trincee con missili a corto raggio da un’area con macerie e campi di mine con altre trincee e artiglierie, ma anche un cielo con aquiloni da un cielo senza aquiloni: un confine invisibile traduce il volo di un dragone di carta colorata in un peccato di idolatria, un gioco in un crimine, contro il quale agisce una ferrugigna “polizia religiosa”. La polizia istituzionale, che veglia sul rispetto della shari’a, o legge coranica, è tutta taleban. I capitribù delle etnie maggioritarie pashtun presiedono i tribunali agropastoralnomadi delle “leggi fondamentali” tramandate oralmente (riassunte nel “pashtunwali”) e spesso prevalenti sulla stessa legge islamica. Ne sono coinvolti non solo i pashtun, stirpe e lingua indoeuropea, ma anche i tagiki, lingua e stirpe iranica, i turkmeni, gli uzbeki e i kirghisi, stirpe e lingua turca, gli hazara, stirpe e lingua mongolica, i baluci, i pendjabi, i sindhi... Nessun altro Paese muslìm poteva essere più adatto di questo, che riesce a federare contrasti di sangue e appartenenza, di essenzialismo e odio, di bellezza e ferocia, per lanciare la sfida neo-califfale al mondo. E non solo a quello occidentale.

Breve premessa. L’Islam riconosce i primi quattro Califfi, i cosiddetti “Ben Guidati”, come successori di Maometto: Abu Bakr, Omar, Othman e Ali, eletti dalla Umma, la comunità dei fedeli. Col “golpe” di Muawyya, il Califfato divenne ereditario e determinò la scissione tra sunniti e sciiti, a loro volta sfarinati in una galassia di gruppi minori. Il vero Califfato finì nel 1258 a Baghdad, distrutto dai mongoli. Quello successivo, Ottomano, fu una finzione giuridico-religiosa, abbattuta da Ataturk, che spedì in esilio l’ultimo Sultano-Califfo, Maometto VI, morto a Sanremo nel 1926.
Ad Abu Bakr, nientemeno, si era rifatto Osama bin Laden, personaggio quanto mai inquietante. Coltivato dall’America al tempo dei mujhaeddin in guerra contro i sovietici, poi ribelle: ex viveur, frequentatore dei casinò di Beirut, architetto, votato al più rigoroso Islam dopo la sconfitta di Mosca, costruttore, investitore di petrodollari, settimo di 53 fratelli (generati nell’harem paterno), nato a Gedda, in Arabia Saudita, neanche lontanamente imparentato con la corrottissima dinastia wahabita che domina a Riad, capace di esprimere pacatamente concetti incendiari, consegnandoli come precetti fondamentali pensati con una sorta di raggelante understatement tutto orientale, fondatore di al-Qaeda, la Base, che a sua volta ha partorito la Shabka, la Sciabica, una rete che aggrega la sanguinaria galassia degli essenzialisti muslìm, nemico giurato dell’Impero del Male, alfiere della crociata per la restaurazione del Califfato: solo una figura così poliedrica e complessa poteva assurgere a bandiera dell’oltranzismo religioso che ha finito per dividere anche gli intellettuali occidentali. Da una parte, i seguaci di Samuel Huntington, il quale, subito dopo la caduta del Muro di Berlino, annunziò la comparsa di un nuovo conflitto, che nel secolo XXI ci avrebbe posto contro l’Islam. Dall’altra, la scuola di Bernard-Henry Levy, secondo cui le democrazie vinceranno se rifiuteranno con tutte le loro forze le semplificazioni manichee della teoria dello “scontro di civiltà”. Se ne fa persino un problema semantico: guai a porre “l’aureola del meraviglioso prestigio” di una guerra fra “visioni del mondo”.
Guardiamo nel cortile di casa nostra. “Guerra”, in Italia, è un tabù: si fa, ma non si dice. Prevalgono l’eufemismo, l’allusione, la circonlocuzione, l’edulcorazione lessicale. Ma se quella avviata in Afghanistan non è stata guerra, che cos’è stata? I bombardamenti aerei, i lanci di missili, il fuoco d’artiglieria, le distruzioni, il sangue versato e le risacche di centinaia di migliaia di profughi, che cosa hanno rappresentato? Quando la guerra era guerra, Marinetti la definiva «la sola igiene del mondo», e i neutralisti da una parte e gli interventisti dall’altra scatenavano tumulti, in un clima di guerra civile quale il Regno d’Italia aveva raramente conosciuto durante i suoi cinquant’anni di vita. Oggi, dopo il primo e il secondo conflitto mondiale, dopo le carneficine, gli sterminii, gli orrori, un intellettuale che inneggiasse alla guerra come lavacro purificatore sarebbe pubblicamente interdetto.
Nel ‘14-‘15 buona parte del ceto colto impazzì per la guerra: una guerra estetizzata, sublimata, teorizzata, apertamente rivendicata da uno spirito magno come Thomas Mann. Adesso la guerra si esorcizza con basse elucubrazioni semantiche. Dacia Maraini ha parlato di “vendetta”, Giuseppe Pontiggia ha invocato la “mediazione”. Per riconciliarsi in qualche modo con la dimensione reale della guerra, per dare un senso diverso al sangue versato, alle città distrutte, alle vite spezzate, alle opere d’arte perdute, la guerra del Kosovo non è stata chiamata guerra, ma “ingerenza umanitaria”, “intervento etico”, “operazione di polizia internazionale”, “aiuto armato”. Tutto, meno che guerra.
Dopo l’attacco alle Twin Towers e la parola passata alle armi, l’uso del termine si è piegato a sofisticate controversie politiche. Giulio Andreotti ha respinto l’idea della rappresaglia, per non elevare i terroristi «al livello dei belligeranti». Giuliano Ferrara ha precisato: «Si tratta di bollare come terroristi certi principati che proteggono gli attentatori. Con le conseguenze del caso: belliche». Non è una pura e semplice tenzone lessicale. Ma rispetto al ‘14-‘15, un sovrappiù di pudore o di ipocrisia linguistica ha fatto irruzione nella terminologia politico-militare. Salandra, tanto per fare un esempio, non esitava ad invocare il principio del “sacro egoismo” dell’Italia. Oggi, un linguaggio così crudo sembrerebbe sconveniente. Nel mondo cattolico – altro esempio – si è spaccato il capello in quattro, e si è chiesto che non si avesse a che fare con “vendette”, “ritorsioni” o “rappresaglie”, (e intanto l’ineffabile Comunità di Sant’Egidio riceveva con onori di capi di Stato gli sterminatori di cristiani di tutte le latitudini), mentre papa Benedetto XV con linguaggio incommensurabilmente più diretto aveva bollato il primo conflitto mondiale come «un’inutile strage».
Moderate erano le nostre classi dirigenti dell’epoca, e moderato e tatticista era Giovanni Giolitti, bestia nera degli intellettuali interventisti. Per farla finita con la “meschinità” dell’universo borghese, con la “grettezza” dell’Italietta, gli intellettuali videro nella guerra l’avventura, l’uscita dalla routine, la fonte di rigenerazione di un mondo corrotto e spento. D’Annunzio vi colse l’occasione di una vita: il trionfo del dannunzianesimo. Un intellettuale severo e supercilioso come Gaetano Salvemini divenne capofila dell’interventismo democratico per assestare un colpo mortale al giolittismo che detestava. Uno scrittore fine come Renato Serra vide nella guerra il «momento supremo», l’occasione ineludibile dell’intera esistenza. Emilio Lussu non sapeva che la guerra da lui invocata sarebbe stata l’orrore descritto poi in Un anno sull’altipiano. L’Italia entrò in un clima di effervescenza che nella storia e nella memorialistica sarebbe stato ricordato come quello delle “radiose giornate”. Secondo Mario Isnenghi, le strade che si popolavano di esagitati interventisti diventarono una tappa cruciale dell’«Italia in piazza». E fu Benedetto Croce, che della guerra era fiero avversario da posizioni nobilmente conservatrici, a descrivere nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915 «il tumulto dei sentimenti, l’uragano delle fantasie, che si disfrenò dappertutto al disfrenarsi della guerra».
La piazza di allora era interventista, quanto quella emersa dopo l’11 settembre di Manhattan si è sentita neutralista: ecco un’altra differenza di fondo. E’ pur vero che – allora – la delusione, figlia dell’illusione, subentrò quasi subito, e basta scorrere le memorie di Carlo Emilio Gadda o di Giovanni Comisso o di Luigi Russo per cogliere lo sgomento di fronte alle «tempeste d’acciaio» descritte da Ernst Junger, l’orrore delle trincee come camminamenti verso la morte o, al meglio, verso la mutilazione drammaticamente rappresentato dalle pagine di Erich Maria Remarque, la militarizzazione della società europea, la morte di massa conseguente alla “mobilitazione totale”, la carneficina tecnologica che faceva a pugni con l’ideale tardo-cavalleresco di chi vedeva nella guerra il palcoscenico di un’elettrizzante recita.
Oggi, nei dibattiti che non hanno chiamato guerra la guerra, si è percepita l’eco di quell’antica disillusione, che solo con il crollo di un regime totalitario nato sul mito della trincerocrazia e con le distruzioni immani del secondo conflitto mondiale si sarebbe acuita al punto da fare della guerra e del suo nome un angosciante tabù.
Sicché son potute fiorire le dispute andreottiane se si debba considerare belligerante il terrorista e terrorista il belligerante; o le distinzioni bertinottiane che chiudono all’idea della “guerra”, ma lasciano intendere che sono possibili reazioni che, anche se guerra non si chiamano, (del resto, le guerre le fanno soltanto gli amerìki. O no?), a qualcosa di molto simile alla guerra possono essere apparentate. Facile liquidare brutalmente il tutto come frutto di un’inestirpabile ipocrisia italica, perché i tabù hanno radici profonde e non sono soltanto il prodotto di un tic mentale. Questi tempi sembrano caricarsi di paure tangibili e di aspettative buie: se guerra non è stata, non sarà, allora cos’è stata, cosa sarà?
Ritorniamo in campo aperto. E alla cronaca. Dietro gli annunci contenuti nelle videocassette di bin Laden, in cui si invocano la difesa dell’Iraq, la cacciata degli amerìki dall’Arabia Saudita dei Luoghi Santi e la cancellazione di Israele, c’era il progetto di guidare una rivoluzione per far dissolvere gli Stati arabi e per dar vita a un nuovo Califfato. Il progetto ha fatto più strada di quanto sia dato credere. Basta consultare gli archivi dell’Interpol per prenderne atto. La polizia tedesca ha accertato che il gruppo integrista turco “Hilafet Devleti” ha come obiettivo la “creazione di un Califfato”. Scotland Yard ha registrato centinaia di ore di conversazione fra gli aderenti al gruppo “al-Muhajeroun” che prospettano la nascita di un “grande Califfato”. In Asia centrale il Partito della Liberazione Islamica (Hizb-ut-Tahrir) ha cellule in Uzbekistan, in Kirghizistan, in Tagikistan con l’intento di ristabilire il “Khilafat-e-Rashida”, il Califfato che dominò gli arabi dopo la morte di Maometto. Le squadre dell’antiterrorismo indiano hanno recuperato nei covi dei separatisti del Kashmir documenti che prospettano l’avvento di un “nuovo Califfo”. Questi gruppi hanno in comune l’appartenenza ad al-Qaeda.

La rinascita del Califfato era il cuore del progetto di bin Laden fin da quando, a metà degli anni Ottanta, aveva fondato con Abdullah Azzam – un palestinese aderente alla Fratellanza Musulmana – il “Maktab al-Khidamat” (Ufficio di Servizi), che da Peshawar faceva arrivare in Afghanistan centinaia di volontari per il jihad contro l’Armata Rossa, reclutati grazie a centri sparsi in mezzo mondo. «Durante i loro viaggi in Afghanistan recitavano infiammati sermoni – racconta Yossef Bodansky, autore di L’uomo che ha dichiarato guerra all’America – invocando la lotta contro gli infedeli e i regimi musulmani non islamici, con l’obiettivo di restaurare il Califfato». Gli essenzialisti accusano l’Occidente di aver frammentato il mondo arabo «in tanti piccoli Stati»: è questa la ferita che al-Qaeda attribuisce al colonialismo degli ultimi duecento anni e che si propone di rimarginare grazie a un network di gruppi e organizzazioni che si battono per la creazione di una società islamica. Primi obiettivi: l’Egitto, con l’aiuto del locale jihad, e l’Arabia Saudita, con la complicità degli Hezbollah, per la conquista di un Paese moderato e delle città sante della Mecca, di Medina e di Gerusalemme. L’ambizione è di superare i Califfati precedenti, il cui territorio si estendeva dall’Atlantico agli altipiani della Persia, mentre oggi si scommette su pakistani, kashmiri, indonesiani, filippini e uguiri cinesi per affacciarsi sull’Oceano Pacifico, sui Paesi turcofoni e sull’Iran e l’Iraq, per aprirsi la via verso il Libano e la Palestina, chiavi di volta per la conquista anche degli emirati petroliferi, e sul Gia algerino per la continuità territoriale fino all’Atlantico. Bottino: le fonti energetiche e l’atomica pakistana. Ha detto Akbar Ahmad, preside della facoltà di Studi Islamici all’American University di Washington: «Forse alcuni ritengono questo scenario inverosimile. Ma pochi secoli fa qualcuno era già riuscito a tradurlo in realtà». Strategica, senza dubbio, la preda petrolcratica, che comprende dieci governi islamici: Iran, Iraq, Arabia, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Libia, Algeria, Nigeria, Indonesia. Più temibile la prospettiva delle armi atomiche in pugno agli essenzialisti.

Ancora nel 1900 il Sultanato-Califfato di Costantinopoli imperava su Damasco, Gerusalemme, Baghdad, Bassora, La Mecca. Quando il primo conflitto mondiale non era ancora finito, francesi e inglesi si spartirono il Vicino Oriente (accordi di Sykes-Picot, 1917) e i trattati di pace del ‘20-‘22 tracciarono il copione: gli alleati – sbarazzatisi della Russia, e nel disinteresse americano – insediarono monarchie in Paesi suddivisi arbitrariamente. Queste suddivisioni saranno fonte delle principali guerre dopo il ‘45. Ma soprattutto, per restare sul tema attuale, (si rilegga I sette pilastri della saggezza, di T.E. Lawrence; o si riveda “Lawrence d’Arabia”, del regista David Lean), i britannici scelsero la tribù dei Bani Sa’ud alleata alla setta puritana dei wahabiti, contro gli hashemiti, veri e propri discendenti di Maometto e guardiani dei Luoghi Santi musulmani. A poco a poco, i Bani Sa’ud conquistarono con la forza e con l’astuzia l’intera penisola arabica.
Gli Stati Uniti intervennero dopo gli accordi di Yalta, e cominciarono a controllare gli idrocarburi con la creazione dell’Aramco, prima compagnia petrolifera americano-saudita. In pieno periodo maccartista e di guerra fredda, il Pakistan del dittatore Zia vendette agli Usa l’idea del muslìm belt: una “cintura islamica” di contenimento del comunismo ateo che l’America puritana indicava come il Male. Abbiamo assistito da allora all’alleanza continuamente rafforzata fra puritani amerìki e puritani sauditi. Un’armonia continuata fino alla Guerra del Golfo, ma non dopo: oggi nessun musulmano tollera la presenza di una base militare statunitense nella terra della Mecca e di Medina (e vi è stato un terribile attentato), e gli oppositori lo fanno sapere al governo saudita. Che in realtà governo non è, nel senso europeo della parola: si tratta, in realtà, di fazioni tribali e religiose che si dilaniano tra loro, anche se tutte insieme finanziano i movimenti islamici essenzialisti (i diversi jihad, Hamas, la Fratellanza Musulmana, gli Hezbollah, il Gia, il Fplp…), comprese organizzazioni ufficiali come la Lega Islamica Mondiale, la Conferenza Islamica, la Banca Islamica, e i gruppi distributori di milioni di copie (rigorosamente in lingua araba) del Corano e quelli costruttori di grandi moschee in varie regioni del mondo, Roma compresa.
Tutti sapevamo che l’essenzialismo muslìm è l’uso politico dei temi musulmani mobilitati in reazione alla “occidentalizzazione”, ritenuta aggressione nei confronti dell’identità arabo-musulmana. Gioco di parole a parte, è un’antica protesta anti-moderna. Ma su questo punto possiamo constatare che il progetto di creare uno Stato islamico classico, una società islamica compatta dal Pacifico all’Atlantico, è un fallimento totale, come ha dimostrato fra l’altro il caso Khomeiny in Iran. Certo, l’islamizzazione dal basso è progredita. Ma la nebulosa al-Qaeda non è costituita da un’organizzazione centralizzata in pugno ai teo-paranoici studenti talebani, non è composta di militanti di una stessa patria, di un’identica regione musulmana, e neanche di uno stesso rito; e non recluta poveri e diseredati, ma ingegneri e gente istruita, e coordina gruppi molto diversi e servizi “statali” che non possono confessare i loro aiuti clandestini e assidui.
Tutto questo può offrirci un’opportunità unica. Più che continuare a contrapporre Occidente e Islam, è necessario cominciare a ritenere gli arabi veri e propri occidentali, poiché il loro sistema di pensiero è greco-biblico, e i musulmani hanno recepito il sistema capitalistico come una sorta di “etica protestante islamica”. L’Oriente, molto probabilmente, comincia con l’India. Le più alte autorità religiose musulmane devono prendere le distanze dai puri muslìm, come gli occidentali devono prendere le distanze dai puri amerìki. Gli uni e gli altri, a ben pensarci, parlano lo stesso linguaggio: – In God we trust –. Come dire: Dio (il nostro Dio) è con noi.

Ci son cose non dette, o non messe bene a fuoco, nella pur vasta gamma di riflessioni sull’oltraggio che ha sfregiato l’America e sconvolto il mondo. Nel momento in cui sono decollati gli aerei statunitensi, si è parlato dell’inizio di una terza guerra mondiale, una strana guerra imminente, o potenziale, ma contro ignoti. In realtà, frammentata in tanti conflitti regionali, questa era cominciata quindici anni fa. Le prime avvisaglie si erano manifestate già durante il crollo del comunismo, nel duro conflitto caucasico tra azeri islamici e armeni cristiani. Poi, subito dopo il crollo, abbiamo visto i serbi ortodossi scontrarsi nei Balcani con gli slavi e gli albanesi islamici. Quindi siamo stati spettatori degli attentati terroristici subiti da Mosca e dell’endemico conflitto armato in Cecenia. Dopo di che, abbiamo assistito a una sintomatica e premonitoria metamorfosi negli scontri tra arabi ed ebrei in Medio Oriente: la seconda intifada palestinese ha mandato in soffitta il lancio dei sassi e ha adottato il tremendo lancio di uomini-bomba contro obiettivi non militari.
Tutti questi eventi di guerra, di guerriglia e di terrorismo, che si sono propagati in varie regioni del mondo, hanno avuto e hanno in comune due caratteristiche precise: il genocidio e la religione. Le pulsioni genocide frammiste a quelle confessionali, da parte cristiana non meno che da quella musulmana, erano presenti nei massacri del Caucaso, della Bosnia, del Kosovo. La volontà dello sterminio indiscriminato, con connotazione a sfondo religioso, è stata quella che ha accomunato Manhattan ai Balcani e al Vicino Oriente. I precedenti possiamo ritrovarli a Vukovar, a Grozny, a Srebreniça, a Sarajevo. Sono i precedenti di una guerra mondiale senza confini, alimentata dagli odii di religione e di razza, che oggi vede nelle sette essenzialiste dell’Islam un’avanguardia mortuaria, ma che – è bene ricordarlo – aveva arruolato nei suoi eserciti anche molti cristiani. Non a caso le pressioni internazionali esercitate sulla Serbia per l’estradizione di Slobodan Milosevic sembrano essersi ripetute, tali e quali, con la richiesta di consegna di Osama bin Laden. Da un genocida all’altro, si potrebbe osservare con distaccata equanimità. Da un oblio all’altro, si potrebbe dire, al tempo stesso, rispolverando la memoria di un Saddam Hussein che trafficava armi con i serbi nei giorni in cui le “Tigri” dello sterminatore Arkan scannavano gli eredi del Maometto balcanico.
Devono prendere le distanze i religiosi moderati, ma anche gli uomini di cultura. Dico cultura, e non discuto sull’Islam di dieci secoli fa, non metto in discussione la sua grandezza, l’importanza, lo splendore e gli effetti sulla cultura europea. Si deve discutere su ciò che l’Islam è oggi in se stesso, in relazione al mondo moderno e in rapporto al contesto laico degli “Immortali Principii”.
Nel passato, il mondo arabo-musulmano fu punto di raccordo fra culture e civiltà dell’Oriente e dell’Occidente. Fu centro di trasmissione di informazioni che contribuirono a rinvigorire l’esangue universo euro-mediterraneo. Circa Averroè, ha scritto Carlo Alfonso Nallino: «Molte delle sue opere filosofiche furono prestissimo tradotte in latino direttamente dall’arabo o mediante versioni ebraiche, ed esercitarono notevole influenza su Alberto Magno e San Tommaso d’Aquino […]. Invece nel mondo arabo non ebbe grande risonanza; la sua fine coincise con la decadenza degli studi filosofici musulmani […]; i testi arabi delle sue opere a base dei libri aristotelici sono in massima parte perduti». Dunque, sopravvive ad Averroè soltanto ciò che è stato salvato dagli “infedeli”. Egli è stato integrato nel patrimonio della cultura europea, insieme a ciò che resta di Avicenna. E insieme alla filosofia, stesso destino ebbero, nel mondo islamico, la medicina (autoctona, in parte) e l’astronomia (derivata dagli studi mesopotamici), la geometria (derivata dalla cultura dell’Indo), e le altre scienze. In Storia dei popoli dell’Islam - L’Islam dell’immobilismo, Sergio Noja ha scritto: «In Oriente la medicina del Rinascimento europeo e le sue nuove conoscenze in campo anatomico e fisiologico, se si eccettua la tardiva ricezione di Paracelso nel secolo XVI ad opera di un arabo di Aleppo, non ebbero, col passare dei secoli, alcuna risonanza».
Lo stesso fenomeno si verificò per tutti i campi della cultura e dello spirito umano, ad eccezione dell’interpretazione coranica dei dottori della Legge. Così, mentre la cultura europea seppe rinnovarsi incessantemente studiando, assimilando, conservando e sviluppando molto del buono che avevano le altre civiltà, il contrario si registrò, a partire dal 1400, nel mondo islamico e orientale in genere.
Ma oggi è cambiato questo atteggiamento agnostico nei confronti della cultura occidentale da parte degli intellettuali arabi? I temi che ci angosciano attualmente non sono assenti nel dibattito in corso tra gli intellettuali musulmani, e le posizioni di alcuni di loro meriterebbero maggiore attenzione. Già all’inizio degli anni Ottanta l’ex ministro della cultura tunisino Habib Boularès affermava: «In effetti, oggi l’Islam fa paura. E’ innegabile. Ma si tratta di qualcosa di fatale, di un destino ineluttabile? Il problema che sta di fronte al musulmano non è facile. Alle note difficoltà legate allo sviluppo, si aggiunge il peso della tradizione e la pervasività della religione […]. Lo sforzo maggiore è quello di coloro che rifiutano le posizioni estreme, tentando da oltre un secolo di realizzare una modernizzazione che non comporti né uno sradicamento né l’isolamento dai propri simili».
Un altro tunisino, lo storico Mohamed Talbi, ha affermato: «Sta qui il principale ostacolo con cui l’intellighenzia arabo-musulmana si deve confrontare. Quando non è cortigiana, quest’intellighenzia corre gravi rischi. Il “mal pensante” può essere appeso a una corda, decapitato con una sciabola o ridotto a brandelli da una bomba artigianale. Nel migliore dei casi, è condannato al carcere […]. Nel dialogo tra gli universi culturali, l’Occidente, forte e libero, deve ricordarsi […] che ogni attentato contro lo spirito in uno specifico universo culturale è anche un attentato contro lo spirito di tutti gli universi culturali».
Si dirà: i maghrebini parlano così perché sono occidentalizzati. Allora andiamo all’altro capo dell’Africa. L’egiziano Fahmi Huwaydi si è espresso chiaramente a proposito delle modalità con cui l’Islam concede agli altri monoteisti alcuni diritti, mantenendoli però in uno stato di sostanziale subalternità: «Lo “statuto di protezione” ha finito per dar luogo a pratiche riprovevoli e incompatibili con lo spirito dell’Islam, le quali hanno aperto la strada a degradanti umiliazioni […]. I territori dove vivono i musulmani devono restare proprietà dei musulmani e dei non-musulmani, senza che nessuno domini o goda di preferenze, poiché l’unica superiorità che un uomo può vantare su un altro risiede soltanto nella sua pietà e nel suo retto comportamento».
Aggiunge il siriano Buhran Ghalioun: «Rifiutare la relazione tra testo e storia, equivale a dimenticare che i musulmani, prima di essere credenti, sono degli esseri viventi, degli uomini, dei gruppi storici che agiscono, a dispetto della loro credenza particolare, come tutti gli altri gruppi, in funzione di interessi e di aspirazioni che si vanno rinnovando. Nel caso contrario, bisogna accettare la tesi che, a differenza di altri popoli, il comportamento individuale e politico dei musulmani obbedisca direttamente e unicamente alla fede e a idee pure. Una tale società non può continuare ad esistere in alcun luogo».
Ciò che deve spaventarci è l’assenza di condizioni favorevoli allo sviluppo di un siffatto dibattito all’interno della maggior parte dei Paesi musulmani, come denuncia un altro maghrebino, Yadh Ben Achour: «La situazione culturale, economica e politica attuale del mondo arabo fa sì che sia impossibile parlare della religione come di un fenomeno sociale […]. Il risultato è che ogni discorso sulla società, sulla religione, sul diritto suppone preventivamente una sorta di autocensura di chi parla o scrive. Il massimo di libertà che ci si può permettere è far finta di niente, cercare di cavarsela con giochi di parole, o correre il rischio della scomunica o della condanna a morte. E’ dunque un dibattito quasi impossibile, perché mancano due condizioni indispensabili all’obiettività: l’accordo sugli strumenti d’analisi e l’autonomia di giudizio […]. L’intellettuale se ne rende conto e sa che, impegnandosi nella ricerca, è condannato a perdere la propria innocenza. E’ quindi del tutto naturale che – non essendo ogni intellettuale necessariamente un eroe – in tali condizioni non tutto venga detto e che il discorso dell’intellettuale a proposito della religione, del diritto, della politica, sia diplomatico, fatto di silenzi, di prudenza e di furbizie. Sia, in definitiva, un discorso corrotto».
C’è dunque chi è capace di sviluppare una seria autocritica, senza addossare ogni responsabilità ai soliti nemici esterni. Al di là della crisi politica e sociale, il mondo musulmano stesso attraversa oggi la sua più grande crisi religiosa. Così come la mancanza di un pensiero politico critico va di pari passo con lo strapotere dello Stato, la mancanza di un’autorità legittima religiosa fa perdere il controllo sulle forze spirituali della religione. Solo in questo senso, e soltanto per il campo dello spirito, si potrebbe giustificare il ritorno del Califfato in un Islam devastato dall’accumulazione di esigenze disordinate e contraddittorie.

Ultimo scenario. New York. Novembre ‘87. Gianfranco Langatta si presentò alla reception e mi fece chiamare: «Sono le due di notte, e fa venti gradi sotto zero», mi difesi. «Non nevica, è il vento dei Grandi Laghi, copriti come puoi», incalzò. Scesi a malincuore. Camminavamo veloci, il bavero tirato su, si respirava un’aria affilata, attorno ai pennacchi di vapore degli sfogatoi del riscaldamento si assiepavano ubriachi rumorosi, infagottati in lunghi pastrani di lana grezza. In cima alla Quinta Strada un agente, controllati i nostri passaporti, si sentì in dovere di avvisarci che fino alla Tredicesima eravamo a New York, da lì alla Ventitreesima eravamo nelle mani della polizia, oltre saremmo stati soltanto nelle mani di Dio.
Perfettamente nero, il cielo; o meglio, i poligoni di cielo che sembravano incardinati alle terrazze dei grattacieli, chiudendo l’ispida Manhattan in un’algida ellisse di cristallo. Sembrava respirare profondamente, la città. Anche sul fronte del porto, dove sonnecchiava una portaerei – monumento della seconda guerra mondiale; e tra i free stores dai nomi familiari (Il Triestino, Il Romano…) con le insegne a luci intermittenti; o fra le finestre ancora accese – su piani molto distanti – di uffici insonni.
Il sangue rallentava il suo flusso, avrebbe voluto coagulare, e si dovevano battere i piedi sul selciato, ogni tanto, fin quasi a sentire scricchiolare le giunture, per rimetterlo in circolo. Non sentivo le labbra, il naso, i lobi, i tendini si arrugginivano, un’imprudenza non aver comprato un qualche dannato indumento che mi preservasse dalle abissali escursioni termiche newyorchesi. Ma la successiva destinazione era prevista in Giappone, poi in Vietnam, che farsene, laggiù, dove le previsioni davano quaranta gradi sopra zero? Allora, di corsa, movimenti larghi delle braccia, brevi soste, roteazione oraria e antioraria del busto, piegamento dei gomiti…
«Da diventare matti», dissi. Langatta rideva in dialetto leccese, a Manhattan non vola nulla, diceva, hanno fregato le rotte agli uccelli, per aria passano solo gli elicotteri e la tua fantasia, allora di che ti lamenti?
Dell’andare senza conoscere la meta. E del non vedere colori giustapposti, in un universo geometrico pietrificato, chiuso nella sua totalizzante verticalità. Del camminare e correre senza sapere perché. E del sentirmi annullato nella mia misura fisica da quelle incommensurabili piramidi deserte che sommavano gelo a gelo. Del silenzio privo di senso, in quell’ora disumana, un’ora da fredde macchine automatiche, i computer che controllavano e regolavano il polso del pianeta in una via contigua, quella Wall Street che, emblematicamente, comincia sul greto di un fiume e culmina sul cancello di un cimitero…
«E’ di Pomodoro», disse improvvisamente Langatta, indicandomi la scultura sferica che dominava il centro della piazza grande. Alle spalle, due costruzioni basse, per quel che basso può significare a New York: due parallelepipedi di vetro e acciaio che aprivano l’intrigante fondale con gli aculei gemelli delle Twin Towers. Altissime, queste, parallele e lievemente piegate in avanti, verso la sfera, perché l’occhio potesse coglierne l’armoniosa continuità dalla radice alla vetta; non incombenti, però, e a modo loro snelle e quasi gentili come eccentrici minareti, con lineamenti scontornati da uno straordinario baluginio. In cima, infatti, equidistante, bianco come solo lui sa essere bianco, il disco perfetto della luna piena.
«Ne valeva la pena?». Era la piazza che De Chirico mancò, che avrei ritrovato fra le imponenti architetture della Grande Mela dipinte da Tonino Caputo: ma queste tra il grigio e l’azzurro, metallizzati comunque, quella invece colta sul momento, nell’incantevole illusione ottica dell’insieme, come unico “assolo” in un folgorante pentagramma. La sola New York come “interno”, fra Avenues che sono piste di decollo e Streets irrispettose che le tagliano ad angoli radenti. La sola latitudine urbana con un’emblematicità esplicitamente premeditata. Altro che, se era valsa la pena.
Hanno chiamato la piazza, dopo che le Towers sono state trafitte, “Ground Zero”. Implosa la ribalta, è paesaggio desolato: luogo senza nome, di macerie e di morte. Deserto privo di palmizi che diano una pur remota opportunità di scampo. Ci sono seimila croci, dicono questa pietosa bugia per esorcizzare l’agguato dei puri muslìm contro i puri amerìki. E un sorprendente pudore vieta di farci vedere una sola vita stroncata, di farci ascoltare una sola intervista a un ferito, di proporci non dico uno zoom, ma almeno un campo lungo del Ground Zero. In quel recinto violato, fra quei grovigli di acciaio disarticolato, è finito il sogno dell’(oltre)frontiera dell’America. Ora si è preso atto che la realtà può superare ogni fantasia. Come richiama alla mente la parafrasi bogartiana che una mano impietosa ha tracciato sullo zoccolo di un murale dalle parti di Brooklyn, bruciante avviso ai naviganti del Mondo sempre meno Nuovo: – E’ la vita, cioè la storia, bellezza! –

 

   
   
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