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Sulle orme di Agostino
Linteresse iniziale del Petrarca per gli autori antichi,
specialmente per Cicerone, Virgilio e Orazio, che risale alla prima
fanciullezza, è di natura linguistico-filologica: lo seduce
la concinnitas ciceroniana, a fronte della rozzezza del latino medioevale
(«Ego libris Ciceronis incubui, seu nature instinctu seu patris
hortatu») e nella poesia di Virgilio lo attrae quel «nescio
quid aliud illic abditum», che fa giustizia del fuorviante
velame dellallegorismo medioevale (Seniles, XVI, 1). Poi,
intorno ai trentanni, nel leggere e rileggere il De civitate
Dei, di cui possedeva un esemplare sin dal 1325 (aveva ventun anni)
e le Confessiones di SantAgostino, di cui aveva ricevuto in
dono una copia tascabile (pugillaris, cioè da
stringere in un pugno) dallagostiniano Dionigi da Borgo San
Sepolcro, nel 1333, liniziale interesse assume una dimensione
più profonda, riveste, cioè, sempre più chiaramente,
aspetti filosofici: aspetti che, a loro volta, consentono di scoprire
i valori costitutivi della humanitas, comuni tanto agli scrittori
cristiani, da Agostino a Lattanzio a Girolamo ad Ambrogio a Severino
Boezio, quanto agli scrittori pagani, da Terenzio («Terentius
noster») a Seneca («auctor maximus», già
definito da Lattanzio «leroe della sapienza»,
nelle Institutiones, VI, 17, 28).
Intanto il suo scrittoio viene arricchendosi di testi
antichi, come documenta Giuseppe Billanovich, codici talora trascritti
anche di suo pugno, come nel caso della orazione ciceroniana Pro
Archia, rinvenuta a Liegi nel 1333. Spicca, anche per il formato
voluminoso, il cosiddetto Virgilio Ambrosiano, allestito
insieme col padre. Al vertice dellasse articolante, che dallantichità
giunge sino al Petrarca, incontriamo la diade suprema Socrate-Platone,
già esaltata da SantAgostino: Platone, che il Petrarca
celebra come «il principe dei filosofi e insieme il più
vicino tra essi al cristianesimo» (Rerum memorandarum, I,
25, 16).
La conversione del Petrarca dalla filologia, come studio della parola,
alla filosofia, come riflessione sulla vita, è analoga, per
sua stessa ammissione, alla conversione di Agostino dalla retorica
alla sapienza, cui si sentì sospinto dalla lettura dellHortensius
di Cicerone (andato poi perduto e che invano il Petrarca cercò
di rintracciare). Ascoltiamo SantAgostino: «Postquam
in schola Rhetoris librum illum Ciceronis, qui Hortensius vocatur,
accepi, tanto amore philosophiae succensus sum, ut statim ad eam
me trasferre meditarer» («mi accesi di così grande
amore per la filosofia che subito pensai di dedicarmi ad essa»,
Prefazione al De vita beata). Lo attende la lettura delle Enneadi
di Plotino e di altri testi neoplatonici. Nel periodo della sua
adolescenza scapestrata (aveva sedici anni) a Madauro, riassumibile
nella frase «nondum amabam et amare amabam», con una
di quelle omofonie allitteranti tipiche dello stile agostiniano
(Confessiones, III, 1), si era anche appassionato alla lettura di
Virgilio, sino a piangere sulla sorte di Didone infelice («Flebam
Didonem extinctam ferroque estrema secutam», ivi, I, XIII).
Ma quando, a diciannove anni, ha tra le mani lHortensius,
dal prestigioso maestro di retorica sboccia il filosofo inquieto;
quel libro lo riconduce a Dio: «persero per me dice
ogni valore tutte le speranze fatue e desideravo ardentemente
la sapienza immortale con un incredibile slancio del cuore, e già
cominciavo a rinascere per ritornare a Te...non dunque mi interessavo
a quel libro per raffinarmi la lingua e la locuzione, ma mi aveva
convinto ciò che esso diceva» (ivi, III, IV). Dora
innanzi sono gli scritti filosofici di Cicerone ad interessarlo,
dalle Tusculanae al De finibus bonorum et malorum, dal De Officiis
al De natura deorum, al De divinatione, sino a maturare in lui la
convinzione, condivisa poi dal Petrarca, che nessuna soluzione di
continuità possa sussistere tra paganesimo e cristianesimo.
Non dissimile il percorso petrarchesco, per la mediata suggestione
dellHortensius, dalla fascinatio del letterato al rovello
del filosofo, in una prospettiva non mistico-medioevale, ma totalmente
umana, classico- cristiana, che la stessa mutatio vitae, sui quarantanni,
finirà per accreditare. In una lettera del 1360 rievocherà:
«Ho amato Cicerone, lo confesso, e ho amato Virgilio al punto
da credere, tanto mi piaceva il loro stile e il loro ingegno, che
niente e nessuno potessero esservi sopra di loro. Allo stesso modo
ho amato fra i greci Platone e Omero, e spesso sono rimasto in dubbio
nel giudicare il loro valore nel raffrontarli coi nostri (scil.
gli scrittori cristiani). Ma ormai è venuto per me il tempo
di cose più serie e di dovermi occupare piuttosto della salvezza
che delleloquenza. Un giorno leggevo coloro che mi davano
diletto, oggi leggo coloro che mi danno giovamento [...]. Ormai
i miei oratori sono Ambrogio e Agostino, Gerolamo e Gregorio: il
mio filosofo è Paolo e il mio poeta è David, che,
come sai, ho posto molti anni fa a confronto con Omero e Virgilio,
senza però decidere a chi assegnare la palma» (Familiares,
XXII, 10). E sul modello dellautore dei Salmi, «eo formosior
quo incomptior, eo doctior disertiorque quo purior» (ibidem),
il Petrarca aveva composto i suoi sette Psalmi poenitentiales, del
1348, echeggianti il Secretum, a mutatio vitae in fieri.
Per quanto sin qui detto, è lecita una pur provvisoria conclusione:
tra paganesimo e cristianesimo il Petrarca non instaura una contrapposizione
ma cerca una conciliazione e in questa direzione muove dallesempio
dei Padri della Chiesa. Con una non marginale differenza, tuttavia:
se lincontro tra paganesimo e cristianesimo per gli uni era
avvenuto sul presupposto di una concezione provvidenziale per cui
«il divenire storico tendeva ad allinearsi sopra ununica
direttiva, ora, con il Petrarca lincontro tra i due mondi
opposti avveniva in nome di una fondamentale eguaglianza dellanimo
umano. Sicché il cristianesimo stesso appariva non solo come
la vera e unica religione, ma anche come quella che più rispondeva
a necessità e aspirazioni umane, ugualmente sentite in luoghi
e tempi diversi». Una fondamentale uguaglianza dunque che
affonda le sue radici nel concetto di humanitas per la prima volta,
come categoria ontologico-esistenziale, rivendicata nel mondo antico
per bocca di un liberto, per di più di colore, il poeta Publio
Terenzio Afro, del II secolo avanti Cristo; concetto che, con una
sua precisa storia evolutiva, si protrae sino al I secolo dopo Cristo.
Seneca filosofo, infatti, lo proclamerà testualmente in un
severo monito a Lucilio: «Ille versus et in pectore et in
ore sit: homo sum, umani nil a me alienum puto» (Ep.
ad Lucilium XCV) («Quel famoso verso ti sia nellanimo
e sulla bocca: sono un uomo, niente che sia umano ritengo
estraneo a me»).
Evoluzione del concetto di Humanitas da Terenzio al Petrarca
Nella sua commedia Hautontimorùmenos (Il punitore di se
stesso, atto I, sc. I, 25). Terenzio mette in bocca al vecchio Cremete
il celebre verso, per significare la di lui partecipazione al dolore
di Menedèmo, insensibile alle ragioni sentimentali del figlio,
che si è innamorato di una fanciulla onesta ma senza dote,
con ciò inducendolo a una rischiosa scelta di vita da soldato
in Asia; scelta che ora lo rimorde. Il rapporto umano col proprio
simile, qui rappresentato da un pagano, anticipa il monito evangelico
«ama il prossimo tuo come te stesso» (Marco, XII, 31),
che a sua volta San Paolo, in più evidente sintonia con le
motivazioni terenziane, ripropone nella Lettera ai Romani: «Gaudere
cum gaudentibus, flere cum flentibus, id ipsum invicem sentientes»
(XII, 15). Paradosso, forse, non meno cristiano che pagano, condiviso,
prima ancora della spiritualità evangelica, dalla ideologia
stoica di Panezio e Posidonio, ispiratrice dellumanesimo terenziano
e nella quale si riconosce, col suo eclettismo, anche Cicerone:
dal De officiis, nel superamento della presunta conflittualità
tra lutile e lonesto; alle Tusculanae disputationes
(con la enunciazione: «Virtutem ad beate vivendum se ipsa
esse contentam»); al De Legibus, nellintento di rimuovere
gli ostacoli che impediscono la identificazione della questione
politica con la questione morale; al De Republica, con la celebre
definizione della legge naturale, che costituirà il fondamento
teoretico del giusnaturalismo moderno. Da un libro perduto dellopera
ciceroniana lha tramandata ai posteri Lattanzio: «Est
quidem vera lex recta ratio, naturae congruens, diffusa in omnes,
constans, sempiterna, quae vocet ad officium iubendo, vetando a
fraude deterreat» (Istitutiones, VI, 8) («La vera legge
è la retta ragione, coerente con la natura, presente in tutti,
sempre uguale, eterna, tale che, col suo comando, solleciti al dovere,
col suo divieto distolga dalla fraudolenza»). La legge naturale
si identifica dunque con la stessa ragione divina (Deus sive Natura)
e la sua conoscenza, in forza della ragione umana, dimostra che
luomo è creato da Dio a sua immagine e somiglianza,
donde consegue che soltanto luomo, fra gli esseri animati,
può pervenire alla cognizione della divinità. Nel
De Legibus, un passo davvero esaltante e sintomatico per i Padri
della Chiesa e per il Petrarca, è quello nel quale si rimarca
la centralità delluomo nel cosmo e la «comunanza
di parentela, di stirpe, di famiglia, che esiste fra gli uomini
ed i celesti» («ex quo vere vel agnatio nobis cum caelestibus
vel genus vel stirps appellari potest», I, 8-9). Potremmo
continuare con innumerevoli altri nuclei concettuali dellumanesimo
ciceroniano, sicché si capisce facilmente come di essi si
appropriassero gli scrittori cristiani, non per rinnegarli, essendo
di estrazione dottrinaria pagana, ma per sublimarli nella prospettiva
della Grazia, propria della fede cristiana, quasi ad accreditarne
in perpetuum la validità. In Cicerone, poi, il semantema
di humanitas si approfondisce, per diventare sinonimo di humanae
litterae, nella orazione Pro Archia: «omnes artes,
quae ad humanitatem pertinent, habent quoddam comune vinculum et
quasi cognatione quadam inter se continentur» (I, 2); sinonimo
di ars poetica dunque, nella accezione platonica dello Ione quale
afflato divino (numen), motivo che legittima la richiesta ciceroniana
della cittadinanza romana per il poeta straniero Archia. Si allarga
infine per assumere il significato di civiltà a misura duomo
(cultus atque humanitas), che, nellesercizio del governo delle
province, implica la prassi del costante «consulere eorum
commodis et utilitati salutique servire», per popoli non ancora
evoluti, e ad un livello più alto di idealità, per
nazioni, come la Grecia, culla della civiltà e nutrice delle
arti belle. Il fratello Quinto, dunque, che vi era stato mandato
dal senato come governatore, si guardasse bene dallincorrere
nelle ruberie e malversazioni di un Verre: si ispirasse invece alla
stessa liberalità greca, cui Roma era debitrice, (in una
delle lettere ad Quintum fratrem (9, 27-28), che il Petrarca aveva
rinvenute insieme con le altre Ad Marcum Brutum e Ad Atticum, nella
biblioteca capitolare di Verona, nel 1345).
Lo stoicismo di Seneca rivela sorprendenti analogie col pensiero
cristiano al punto da indurre Lattanzio a ritenere non del tutto
inattendibile la leggenda di una presunta corrispondenza tra il
filosofo pagano e San Paolo: leggenda infondata, naturalmente. Non
vè dubbio tuttavia che sul tema della fratellanza universale,
e dunque sul problema degli schiavi, le posizioni tra i due appaiono
convergenti, pur nella diversità dei linguaggi e delle fedi:
altamente lirico, nellintento oratorio, il linguaggio dellApostolo
delle genti, drammaticamente concettuale quello di Seneca, nel suo
implicito programma pedagogico, in funzione di una renovatio mundi.
Pensiamo alla esaltazione paolina della charitas, cioè amore
fraterno, della I ai Corinzi: «Si linguis hominum loquar,
et angelorum, charitatem autem non habeam, factus sum velut aes
sonans, aut cymbalum tinniens. Et si habuero prophetiam, et noverim
mysteria omnia, et omnem scientiam; et si habuero omnem fidem ita
ut montes transferam, charitatem autem non habuero, nihil sum [...].
Charitas patiens est, benigna est. Charitas non aemulatur, non agit
perperam (non mena vanto), non inflatur (non si
pavoneggia); non est ambitiosa, non quaerit quae sua sunt
(è generosa), non irritatur, non cogitat malum;
non gaudet super iniquitate, congaudet autem veritatis (non
gode delle iniquità altrui, si compiace invece della verità),
omnia suffert, omnia credit, omnia sperat, omnia sustinet»
(XIII, 2-7). Così per Seneca la condizione schiavile resta
una condizione puramente accidentale.
In proposito limitiamoci a qualche passo di una lettera a Lucilio
(XLVII, 1-10): «Volentieri ho appreso ex iis qui a te veniunt,
familiariter te cum servis tuis vivere, e ciò si addice alla
tua saggezza, alla cultura» (hoc prudentiam tuam, hoc
eruditionem decet); ed il testo continua, quasi incalzando:
«chi dice Servi sunt, tu rispondi Immo homines;
Servi sunt, tu replichi Immo contubernales
(Vivono sotto lo stesso nostro tetto); Servi sunt,
e tu insisti Immo humiles amici; Servi sunt,
e tu ribatti Immo conservi, si cogitavaris tantundem in utrosque
licere fortunae (sono nostri compagni di servitù,
esposti in pari misura ai capricci della fortuna). Colui poi
che tu chiami schiavo, è venuto al mondo allo
stesso modo di noi liberi (ex isdem seminibus ortum),
gode dello stesso cielo (eodem frui coelo); respira,
vive, muore allo stesso modo di noi (aeque spirare, aeque
vivere, aeque mori)».
In verità già nel V secolo avanti Cristo, Euripide,
nel suo Jone (854-6), aveva contestato ai malevoli: «Una sola
cosa è motivo di vergogna per gli schiavi: il nome; in tutto
il resto, nessuno schiavo è inferiore a chi è libero,
se è onesto». Sulla questione morale in ordine allesercizio
delle funzioni pubbliche, a voler racimolare dal vastissimo corpus
senecano, si potrebbe allestire un massimario, una precettistica,
che lascerebbe intravedere la crisi irreversibile di unepoca
e gli albori dellèra cristiana.
E il foro interiore il campo privilegiato dindagine
dello stoicismo senecano, per cui non è lo status sociale
il criterio di giudizio delle azioni umane, bensì lo spessore
etico sotteso: «Non ministeriis illos aestimabo, sed moribus»,
perché «sibi quisque dat mores, ministeria casus adsignat»
(ibidem, 15). E una spiritualità autenticamente cristiana
che penetra il pensiero di Seneca e filtra nelle opere dei Padri:
«Tuta scelera esse possunt, secura esse non possunt»;
è come dire che i delitti commessi possono essere immuni
da pericoli, ma non già dai rimorsi, sicché «la
prima e più grave punizione di chi ha commesso un delitto
è infatti laverlo commesso» («quia prima
illa et maxima peccantium est poena peccasse»); né
ve nè alcuno che, «per quanto ben remunerato
dalla sorte e ben difeso e protetto da questa, possa restare veramente
impunito, perché sceleris in scelere supplicium est»
(Ep. ad Lucilium, XCV 11,13-14). E lavvio a quella rivoluzione
delle coscienze che avrà il suo sviluppo nel discorso della
montagna: «Beati pauperes spiritu... Beati mites... Beati
qui lugent... Beati qui esuriunt et sitiunt iustitiam, quoniam ipsi
saturabuntur... Beati mundo corde... Beati pacifici... (Mat. V,
3-9). Il foro interiore ha eticamente legittimato il principio delleguaglianza
umana e travolto la civiltà schiavista, ma al tempo stesso
conduce al trascendimento di sé e alla sconfessione degli
dei falsi e bugiardi.
Come è stato osservato, Seneca, non esente da colpe e consapevole
dei suoi errori, «pure conforta le proprie angosce e quelle
degli altri, mirando alleterno e al di là della morte,
proclamando leguaglianza degli uomini e la loro solidarietà».
E il Grimal, con maggior forza, richiamandosi ad un passo degli
Annales di Tacito (XIII, 26-27), documenta limpegno di Seneca
per favorire importanti provvedimenti a tutela della dignità
umana degli schiavi e dei liberti, per concludere: «Quando
la predicazione cristiana affermava leguaglianza di tutti
gli uomini davanti a Dio, nessuno troverà in tale affermazione
una assoluta novità. Da lungo tempo la filosofia aveva abituato
gli spiriti a simili ardite enunciazioni».
A Concetto Marchesi, infine, la morte di Seneca, come descritta
icasticamente da Tacito (Annales, XV, 60-65), sembra precorrere
«lesempio del martirio cristiano»; e linsigne
studioso aggiunge che «contro il rito pagano Seneca muove
la prima vera battaglia, senza riguardi e senza pietà»
per sottolineare il fatto che solo gli scrittori cristiani, a difesa
del cristianesimo, conservavano frammenti delle opere perdute di
Seneca contro il culto gentile.
Né, invero, si tratta di proteste o di teorie di uno spirito
indipendente contro gli eccessi formali del culto, perché
«è tutta lantica religione ufficiale, coi suoi
riti e le sue deviazioni, contestata e vituperata nel nome dellunico
Dio, creatore di tutto ed ignoto ai templi pagani». Sul problema
teologico, dunque, la distanza dallidea cristiana quasi si
annulla nelle riflessioni di Seneca, che, fra laltro, così
postilla: «Prope a te est Deus, tecum est, intus est, malorum
bonorumque nostrorum observator et custos est» (Dio
ti è accanto, è con te, dentro di te, osservatore
e custode del nostro male e del nostro bene). Anzi, perentoriamente,
«bonus vir sine Deo nemo est» (Ad Lucilium, XLI, 1-2).
Ne deriva il lanternino della coscienza, che guiderà
il lettore nel labirinto della interiorità petrarchesca del
Secretum, nel viluppo delle serrate schermaglie con limpietoso
fustigatore Agostino: «Sacer intra nos spiritus sedet [...].
Ille dat consilia magnifica et erecta» (ibidem); col postulato
dellimmortalità dellanima, nel solco del mito
platonico di Er (Politeia, X), oltre che del ciceroniano Somnium
Scipionis, che anche il Petrarca utilizzerà nel II libro
dellAfrica. La metafora della liberazione dellanima
dal carcere del corpo, come si leggeva nel Fedone di Platone, ricompare
in più luoghi delle Epistole ad Lucilium: «Cè
nelluomo scrive unessenza divina, (un
numen) che spinge lanima verso lalto e ad aspirare alla
liberazione del corpo come da un carcere» (LXV, 16 e CXX,
14-16). E il celeberrimo «noli foras exire» di SantAgostino,
collimplicito principio dellautotrascendimento, non
risente forse dellappello al guardarsi dentro
di Seneca? «Noli foras exire, in te ipsum redi, ripete
Agostino in interiore homine habitat veritas; et si tuam
naturam mutabilem inveneris, trascende et te ipsum. Sed memento,
cum tu trascendis, ratiocinantem animum te trascendere. Illuc ergo
tende, unde ipsum lumen rationis accenditur» (... e
se riscoprirai la tua natura cangiante, trascendi anche te stesso.
Ma tieni ben a mente che, quando trascendi te stesso, tu trascendi
lanima raziocinante.
Volgi lì, dunque, lanimo tuo donde si accende il lume
stesso del raziocinio (De vera religione, XXXIX, 1, ed. a
cura di F. M. Bongioanni, Milano, 1942, p. 80 sg.). Il metodo di
SantAgostino serve al Petrarca per introiettarsi, nel De secreto
conflictu curarum mearum; lIlluminismo stoico di Seneca poi
gli suggerisce i «rimedi contro la buona e la cattiva sorte»
(De remediis utriusque fortunae); rimedi tutti riconducibili
al sano e corretto uso della Ratio, intesa ora come saggezza antica,
oraziana («est modus in rebus»), ora come cristiano
distacco, di qua, però, dallascetismo medioevale. Entrambe
le opere sono a struttura dialogica, sulla falsariga di Cicerone,
di Severino Boezio, oltre che del suo Seneca.
Lumanesimo cristiano del Petrarca, dunque, non prescinde dalla
filantropia di Terenzio, dalla vis persuadendi delleloquenza
di Cicerone, dalla sapienza di Seneca, dalla pietas, venata di religiosità,
di Virgilio: quella pietas virgiliana, per cui già Dante
aveva immaginato che il pagano Stazio, da lui incontrato nella quinta
cornice del Purgatorio (cc. XXI e XXII), si fosse convertito alla
fede cristiana in seguito alla lettura della IV Bucolica di Virgilio:
«Quando dicesti: Secol si rinnova: / torna giustizia
e primo tempo umano, / e progenie scende da ciel nova //
Per te poeta fui, per te cristiano», (XXII, 70-73). Ma Stazio
esprime anche il più vivo rammarico che Virgilio non possa
salvarsi, per essere vissuto prima di Cristo: «Facesti come
quei che va di notte, / che porta il lume dietro e sé non
giova, / ma dopo sé fa le persone dotte» (ibidem, 67-69).
Rammarico che anche SantAgostino aveva manifestato per Platone
e i neoplatonici: «Ita si hanc vitam illi viri nobiscum rursus
agere potuissent, viderent profecto cuius auctoritate facilius consuleretur
hominibus, et paucis mutatis verbis atque sententiis, christiani
fierent» (così se quegli insigni uomini avessero
potuto rivivere con noi nel tempo nostro, vedrebbero immediatamente
con lautorevolezza di chi si provveda più facilmente
alla salvezza dellumanità, e mutate poche parole e
sentenze, diventerebbero cristiani (De vera religione, in
Antologia agostiniana, a cura di C. Moreschini, Firenze, 1970, p.
119). Rammarico non meno avvertito dal Petrarca in più luoghi
delle sue opere per Terenzio, Cicerone, Seneca, tanto insistenti
e tenaci gli appaiono i legami che saldano la humanitas dei pagani
con la christianitas dei tempi nuovi.
Avvisaglie cristiane nel classicismo dellAfrica
Il Petrarca dell Africa (poema modellato sullesempio
dellEneide, rimasto incompiuto, al IX libro) non riesce ad
essere un poeta epico, come largomento dellopera
la seconda guerra punica avrebbe richiesto, perché
«non eran da ciò le proprie penne» da quel grande
lirico che era; sicché i personaggi chiave, che, con una
terminologia critica moderna, potremmo definire eroi positivi,
ossia Scipione, il vincitore di Zama, e Magone, fratello di Annibale,
non sono che proiezioni della ideologia cristiana del Petrarca,
e trait dunion fra i due, come tra questi è il Petrarca,
non è che la humanitas, che nel personaggio romano si manifesta
anzitutto come pietas (il pius Scipio in parte ricalca il pius Aeneas),
e nel cartaginese, come presentimento cristiano, anzi biblico, della
irreversibile labilità delle vicende umane, con lEcclesiastes
(I, 3 e XII, 8): «vanitas vanitatum et omnia vanitas».
Del pius Scipio il Petrarca traccia il profilo nel De viris illustribus
(Prose, pp. 236-249), denso di commossa ammirazione per un pagano
che, pur cresciuto tra le armi, disdegna la violenza immotivata;
si dedica allotium meditativo, segue il precetto epicureo
del vivi appartato, quasi diremmo secondo i dettami
che lo stesso Petrarca enuncia nel De vita solitaria e nel De otio
religioso: «Fare andare indietro nel tempo la memoria e vagare
con lanimo per tutte le terre, per tutti i secoli, incontrarsi
qua e là con tutti coloro che furono uomini illustri, e dimenticare
così gli artefici odierni di tutti i nostri mali» (De
vita solitaria, I). E nel De viris illustribus chiosa fra laltro
che «come è cosa degna lodare nelleroe romano
la pietas, così non è necessario farlo, perché
questa pietà è troppo nota per non avere bisogno di
attestati» (Prose, cit., p. 240).
Ma tel père tel fils, sicché non meno cristianamente
è atteggiata la figura di Publio, padre dellAfricano,
sulla scorta del Somnium Scipionis di Cicerone, che Petrarca aveva
letto nei Commentari di Macrobio. Ammonisce infatti: «Ebbene,
tutto ciò che è nato muore, e cresciuto in età
si consuma: nulla resta tra le cose mortali. Donde infatti potrebbe
un uomo o un popolo sperare quello che non può lalma
Roma?» (II, 344-47).
La romanitas del Petrarca non è però quella dantesca
del De Monarchia, né quella della virgiliana e oraziana ideologia
del principato, celebrata nel VI libro dellEneide (851-53)
e nel Carmen Saeculare: è piuttosto la romanitas categoria
metastorica di Tito Livio e del ciceronianus San Girolamo, che si
domanda con una punta di angoscia: «Quid salvum est, si Roma
perit?» (Epist., 123, 16, 4), in audace analogia col destino
di Gerusalemme: «Capta Hierusalem tenetur a Nabuchodonosor»
(ibidem).
Un naturaliter christianus dunque Publio Scipione veggente che sancisce:
«Facili labuntur secula passu: / tempora diffugiunt; ad mortem
curritis; umbra, / umbra estis pulvisque levis vel in ethere fumus
/ exiquus quem ventus agat» (II, 347-50), con evidenti echi
oraziani, certo («Eheu, fugaces, Postume, Postume / labuntur
anni...», Carmina, II, 14, 1-2 e «pulvis et umbra sumus»,
ibidem, IV, 7, 16), ma con accenti biblicotestamentari («pulvis
es et in pulverem reverteris»). Nel monologo di Magone morente
il sentimento della vita e della morte è universalmente umano
prima di essere specificamente cristiano, come il Petrarca
stesso, giustamente risentito per certe riserve di critici malevoli,
insisterà a chiarire in una lettera al Boccaccio del 1363,
come vedremo. Magone, mortalmente ferito al seguito del fratello
Annibale in Italia, simbarca da Genova verso lAfrica,
per finire i suoi giorni a Cartagine. Lungo il tragitto, riflette
sulle vicende umane, e compiange la sorte degli uomini in balia
di illusioni, destinate sempre a scontrarsi con la realtà:
«Vedendo più da vicino lora suprema, cominciò:
Ahi! Quale termine è dato a unalta fortuna! Come si
acceca la mente nei lieti successi! Una pazzia dei potenti è
questa, godere di unaltezza vertiginosa. Ma quello stato è
soggetto a innumerevoli procelle, e chi si è levato in alto
è destinato a cadere». Ed ancora: «Ahi, sommità
vacillante dei grandi onori, speranza fallace degli uomini, gloria
vana rivestita di falsi allettamenti. Ahimè come incerta
è la vita, dedita a una fatica perpetua, come è il
giorno della morte, né mai previsto abbastanza». Ed
infine: «Con che iniqua sorte è nato luomo sulla
terra! Gli animali tutti riposano: luomo non ha mai quiete
e per tutti gli anni affretta ansioso il cammino verso la morte.
E tu sola, o Morte, ottima tra le cose, scopri gli errori, disperdi
i sogni della vita trascorsa... Destinato a morire, luomo
cerca di ascendere agli astri, ma la morte ci insegna quale sia
il posto di tutte le nostre cose... A che mi serve aver costruito
alti palazzi adorni doro su mura di marmo, se io dovevo per
sinistro destino morire così sotto il cielo? (Africa, VI,
888- 911).
Questo frammento del poema circolò clandestino, per limprudenza
dellamico Marco Barbato da Sulmona, cui il poeta lo aveva
fatto conoscere, e fu subito mossa laccusa di una incoerenza
ideologico-poetica: il Petrarca avrebbe attribuito a un pagano una
sensibilità cristiana, contraffacendone la autenticità
antropologica. Così si difende e replica il Petrarca: «Quid
enim, per Christum, obsecro, quid christianum ibi, et non potius
humanum omniumque gentium comune? Quid enim nisi dolor, ac gemitus
et penitentia in extremis de qua quid Cicero scripsit audivisti?»
(Che cosa infatti, vi scongiuro in nome di Cristo, che cosa
di cristiano in quei versi che non sia piuttosto comune a tutti
gli uomini e a tutte le genti? Che cosa infatti se non il dolersi,
il piangere, il pentirsi sulla soglia della morte, su cui udisti
che ne pensa Cicerone?). E al nome di Cicerone, a dimostrazione
della universalità e naturalità dei sentimenti che
ineriscono nella humanitas di Magone, seguono richiami a Terenzio,
a Seneca, e persino a Ovidio, «lascivississimus poetarum»,
e ad Epicuro, «philosophorum levissimus», nonché
a Salomone e al poeta dei Salmi (Seniles, II, 1, in Prose, 1030-1067).
Componente agostiniana della introspezione petrarchesca
Senza scampo è linsofferenza del Petrarca verso la
media aetas, e la rivela senza remore ad posteros: «Incubui
unice, inter multa, ad notitiam vetustatis, quoniam michi semper
etas ista displicuit» (Tra le mie molte attività,
mi sono singolarmente dedicato alla conoscenza del mondo antico,
perché questo nostro tempo mi fu sempre sgradito; e se lamore
per i miei cari non mi spingesse in altro senso, direi che ho sempre
desiderato di essere nato in qualsiasi altro tempo e mi sono comunque
sforzato di dimenticare questa età sempre inserendomi spiritualmente
in altre. Per questo mi son sempre piaciuti gli storici («ut,
nisi me amor carorum in diversum traheret, qualibet etate natus
esse semper optaverim, et hanc oblivisci, nisus animo me aliis semper
inserere. Historicis ìtaque delectatus sum»). In verità,
questo petrarchesco rifiuto del presente non è molto differente
dallanalogo rifiuto di Dante. Ascoltiamo a riguardo il nostro
più autorevole studioso dellumanesimo, Eugenio Garin:
«Dante come Petrarca, anche se in forme diverse, e Petrarca
più sottilmente, danno voce alle sofferenze di un mondo travagliato
e feroce, alle tragedie della Chiesa spezzata, Imperi in dissoluzione:
alle lotte e alle miserie delle città divise, ai dolori e
alle domande umane di sempre, cui non offrono risposte né
le calculationes logiche di Oxford, né le discussioni parigine
o gli sforzi di quantificare la grazia. Contro questi moderni si
accende il bisogno di tornare ai saggi dei tempi lontani, a voci
incontaminate che scrutano i segreti delluomo e cercano il
senso del mondo: Socrate e Platone, Cicerone e Agostino».
Insomma, Dante, diremmo, sopperiva al vuoto ideale del presente
e al decadimento dei costumi e delle istituzioni col suo viaggio
nellaldilà, quasi a riscoprire i fondali della natura
umana e risalirne a «riveder le stelle»; il Petrarca,
con il culto degli studia humanitatis da integrare con gli studia
divinitatis. Dal Petrarca, dunque, come conclude il Bosco, «il
cristianesimo non è sentito come dottrina diversa ed opposta
alle ideologie classiche, ma come la rivelazione divina e quindi
definitiva, di verità già balenate a grandi uomini
vissuti prima di Cristo, perciò tanto più sventurati
quanto grandi». Per tale integrazione tra studia humanitatis
e studia divinitatis, chi altri se non SantAgostino poteva
venire in soccorso metodologico e dottrinario, anche al fine di
superare il contrasto tra rivelazione per ragione, propria
delletà antica, e rivelazione per fede,
propria delletà cristiana? Un SantAgostino che
riconduce il Petrarca a Platone, specialmente negli scritti sfidantemente
polemici, quale il De sui ipsius et multorum ignorantia, contro
i filosofanti veneziani, aristotelico-averroisti e assertori della
doppia verità. E comune a Platone, a SantAgostino
e al Petrarca infatti la strenua rivendicazione della spiritualità
umana, compromessa e negata dal materialismo dei nuovi epicurei
che professano le scienze fisico-naturali. A costoro il Petrarca
replica: «Di grazia, che cosa può giovare conoscere
belve, uccelli, pesci, serpenti, e ignorare o non tenere in alcun
conto la natura delluomo, a qual fine siamo nati, donde veniamo
e dove andiamo?» (in Prose, cit., a c. di P. G. Ricci, p.
715). La presenza di Agostino nella visione umanistica del Petrarca
risalta con maggiore incisività nei due testi che qui brevemente
esamineremo: la Familiare (IV, 1) indirizzata al padre agostiniano
Dionigi da Borgo San Sepolcro, in cui si descrive la scalata, col
fratello Gherardo, sul monte Ventoso, nellacrocoro pirenaico,
e il Secretum. Al di là degli aspetti suggestivamente quanto
ariosamente descrittivi del paesaggio, tra cielo e mare, nella lettera,
densa come altre di citazioni dagli scrittori classici, lascensione
va interpretata, a giudizio pressoché unanime, quale allegoria
della ascesa spirituale del cantore di Laura (che non era stato
uno stinco di santo: «Adolescientia me fefellit, iuventa corripuit,
senecta autem correxit», scrive di sé nella Posteritati);
ascesa spirituale favorita appunto dalla lettura quotidiana delle
Confessiones, «ita ut iam prope manus mea et liber unum esse
viderentur» (al punto che ormai sembra che facessero
tuttuno la mia mano e il libro, Seniles, XV,7). Ebbene,
per rinfrancarsi e riprendere lena, su un pianoro, apre a caso il
libretto e si imbatte in queste righe del decimo libro (8, 15):
«Et eunt homines mirari alta montium et ingentes fluctus maris
et latissimos lapsus fluminum et oceani ambitum et gyros siderum
et relinquunt seipsos» (e vanno gli uomini ad ammirare
le cime dei monti, e i vasti flutti del mare e le amplissime correnti
dei fiumi e limmensità delloceano e il corso
degli astri, mentre trascurano se stessi). «Stupii,
lo confesso» prosegue «e pregato mio fratello,
che desiderava udire altro, di non disturbarmi, chiusi il libro,
iratus michimet quod nunc etiam terrestria mirari, quando già
da tempo, dagli stessi filosofi pagani avrei dovuto imparare nichil
preter animum esse mirabile, cui magno nichil est magnum».
Lautore delle Confessiones è addirittura linterlocutore
di Francesco nel Secretum, così sconfinata è la devota
ammirazione per il santo, che peraltro è direttamente incaricato
dalla Verità («mulier quedam inenarrabilis etatis et
luminis, formaque non satis ab hominibus intellecta»), che
assiste al dialogo, imperturbabile quanto severa «errores
suos miserata». Sarà depositaria e giudice delle confessioni
di Francesco per il tramite di Agostino: confessioni che non saranno
meno rivelatrici dellanimo del poeta di quanto siano state
le altre del futuro vescovo dIppona, nonché «martello
degli eretici». Il proemio si apre con un passo di Seneca
(Ad Lucilium, XX, 7-14), in cui si discute una frase di Epicuro:
«nemo non ita exit e vita tamquam modo intraverit»:
un tracciato esistenziale, dunque, lungo il quale ogni individuo
sul modello agostiniano consuma le occasioni della innocenza nativa
e quelle della perseveranza nella colpa. Il colloquio con il santo
non risparmia i costumi del tempo del Petrarca, cosicché
«non tam michi quam toti humano generi fieri convicium videretur,
ea tamen, quibus ipse notatus sum, memorie altius impressi»
«così da risultarne un atto daccusa non tanto
contro di me quanto contro tutto il genere umano, tuttavia mi impressi
più profondamente nella memoria le cose di cui sono stato
rimproverato io» (p. 26). Francesco ha, sì, letto e
riletto tanti libri e meditato sulle sentenze di tanti filosofi,
gli rimprovera Agostino, ma senza ricavarne per sé benefici
morali, senza elaborarne cioè una duratura norma di vita.
A questa prima rampogna dellinterlocutore, Francesco, arrossendo,
si dice pronto ad ascoltare e seguire i suoi consigli. Nelle tre
lunghe e incalzanti sequenze dialogiche, si profila sempre di più
lo scontro tra due coscienze, quella di Agostino, che ha conosciuto
il traviamento per poi liberarsene, e quella di Francesco, che stenta
sulla via dellautoricognizione spregiudicata per il balzo
finale della salvezza. Nello scontro, si intrecciano, si sovrappongono,
si elidono dialetticamente le citazioni dalle auctoritates, siano
di segno pagano (Platone, Seneca, Cicerone, Virgilio, Orazio, Giovenale,
Terenzio, Sallustio), siano di segno biblico e cristiano (Salomone,
Matteo, Boezio, Lattanzio, Girolamo, Giustino): le prime più
frequentemente addotte dallarcigno interlocutore, le seconde
da Francesco. Gli scritti agostiniani, dalle Confessiones al De
vera religione ai Soliloquia, offrono al Petrarca più argomenti
autodifensivi, pur nella analogia, entro certi limiti, delle due
vite: «Ogni qualvolta che leggo i libri delle tue Confessioni,
tra due contrari sentimenti, la speranza cioè e il timore,
non senza liete lagrime, mi sembra talora di leggere non la storia
di altri, ma del mio stesso peregrinare» (p. 42). Gli errores,
sulla cui ammissione Francesco ha poco da tergiversare, rientrano
nella comune fragilità umana, dalla noluntas alla luxuria
alla acedia alla voluptas dolendi, e Agostino ha buon gioco a sbaragliarne
i sofismi, nei primi due libri; ma quando, nel terzo libro, concentra
i suoi assalti, ben centrati, sulle due cathene, «que
nec de morte neque de vita sinunt cogitare» (p. 130), cioè
lamore per Laura e la smania di gloria, Francesco non si arrende.
«Tu le chiami catene risponde mentre per me
sono nobilissimi affectus, speciosissime michi
cure, i due più luminosi ideali» (p. 132). Sono
ideali che lo hanno sottratto alla volgare schiera (con
uneco dantesca), alimentando, per un verso, la sua ispirazione
poetica e trasmettendo per laltro ai posteri non effimeri
messaggi di verità. E una Laura in sembianze di donna-angelo,
insiste Francesco, e Agostino a sbugiardarlo. Ma il poeta del Canzoniere
non demorde e si appella al principio della libertà
di giudizio: «che se per avventura a te pare il contrario,
segua ognuno il proprio giudizio; poiché, come tu sai, quanto
è grande la verità delle opinioni, altrettanto è
grande la libertà dei giudizi» (Quod si tibi
forsitan contrarium videtur, suam quisque sententiam sequatur; est
enim, ut nosti, opinionum ingens varietas libertasque iudicandi,
p. 134). Agostino fiuta il sofisma di una specie di doppia
verità, che allora professavano gli averroisti, peraltro
bersagliati dallo stesso Petrarca, nel De sui ipsius et multorum
ignorantia, e si affretta a ribadire con lautorità
di Platone che: «In rebus contrariis opinio diversa; veritas
autem una atque eadem sempre est» (p. 140). Per laltra
catena, il desiderio smoderato di gloria, SantAgostino
si avvale, ancora una volta, di Cicerone (Pro Marcello, 8, 6) per
ingiungergli: «Sappi dunque che la fama nientaltro è
che una nomea da qualcuno divulgata e propalatasi sulle bocche della
moltitudine» (p. 190): quella moltitudine che peraltro il
Petrarca ha in dispregio, orazianamente: «Odi profanum vulgus
et arceo» (Carmina, III, 1). Quanto diversamente ultimativo,
al contrario, è il monito dellexul immeritus: «Non
è il mondan rumore altro che un fiato / di vento, chor
vien quinci e or vien quindi, / e muta nome perché muta lato»
(Pg. XI, 100-102). Una gloria, quella di cui si compiace la vanità
del Petrarca, che, ancora con immagine dantesca non è che
«flatus quidam atque aura volubilis et, quod egrius feras
(mal volentieri sopporteresti) flatus est hominum plurimorum»
(ibidem).
Ma incombe il biblico memento mori a spazzare ogni residua
ubbia della protervia del suo interlocutore, al quale, avviandosi
alla conclusione della sua requisitoria, Agostino rammenta ancora
una volta la saggezza classica, di un Orazio (Carmina, IV, 7): «Ista
pretereunt, sed sepius reversura. Ego autem irrediturus abeo»
(Queste cose, cioè il succedersi ai fiori della primavera
le messi estive, e ai soli estivi il tepore dellautunno e
alle vendemmie autunnali le nevi dellinverno, passano, ma
per tornare ripetutamente, mentre io vado via per non tornare mai
più», p. 209). Non meno che la saggezza del prediletto
Cicerone (Tusculanae disputationes, I, 39, 94): «Presso il
fiume Ispanis, che sbocca nel Ponto dalla parte di Europa (la Russia
odierna), nascono certe bestioline che, a detta di Aristotele, vivono
un sol giorno. Di esse, quella che muore allaurora muore giovane;
quella che muore a mezzogiorno è di già provetta età;
ma quella che muore col sole finisce vecchia, tanto più se
nei giorni del solstizio. Confronta la più lunga nostra esistenza
con leternità (confer universam etatem nostram
cum eternitate), e ci ritroveremo pressa poco della
stessa effimerità di quelle bestiole (in eadem propemodum
brevitate reperiemur ac ille) (p. 210).
Noi intanto cogliamo unaltra eco dantesca, lungo quel versante
di humanitas che si snoda dai classici, coinvolge i Padri della
Chiesa, accende la fantasia dellAlighieri, placa linquietudine
tutta moderna del Petrarca: «Che voce avrai tu più,
se vecchia scindi / da te la carne, che se fossi morto / anzi che
tu lasciassi il pappo e il dindi, // prima che passin millanni?
chè più corto / spazio a letterno, chun
muover di ciglia / al cerchio che più tardi in cielo è
torto» (Pg. XI, 103-108).
Concludiamo con Eugenio Garin: «Da solo lumanesimo filologico
sarebbe rimasto sul piano della erudizione e della retorica, né
sarebbe mai diventato un fatto europeo destinato a incidere poi
anche sullo sviluppo della scienza [...]. La grandezza del Petrarca
sta nellavere scoperto il punto dellunione; nellavere,
non sai se rivelato o creato, quella dimensione delluomo in
cui la ricostruzione autentica dellantico fu ritrovamento
di un piano comune, non pagano o cristiano o maomettano, non platonico
o aristotelico o stoico, ma innanzitutto umano, di tutti gli uomini
di tutti i tempi».
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