Settembre 2001

L’Umanesimo e la dimensione dell’uomo

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Classicità e cristianesimo nel Petrarca
Nicola Carducci  
 
 

 

 

 

 

 

Sulle orme di Agostino

L’interesse iniziale del Petrarca per gli autori antichi, specialmente per Cicerone, Virgilio e Orazio, che risale alla prima fanciullezza, è di natura linguistico-filologica: lo seduce la concinnitas ciceroniana, a fronte della rozzezza del latino medioevale («Ego libris Ciceronis incubui, seu nature instinctu seu patris hortatu») e nella poesia di Virgilio lo attrae quel «nescio quid aliud illic abditum», che fa giustizia del fuorviante velame dell’allegorismo medioevale (Seniles, XVI, 1). Poi, intorno ai trent’anni, nel leggere e rileggere il De civitate Dei, di cui possedeva un esemplare sin dal 1325 (aveva ventun anni) e le Confessiones di Sant’Agostino, di cui aveva ricevuto in dono una copia “tascabile” (pugillaris, cioè da stringere in un pugno) dall’agostiniano Dionigi da Borgo San Sepolcro, nel 1333, l’iniziale interesse assume una dimensione più profonda, riveste, cioè, sempre più chiaramente, aspetti filosofici: aspetti che, a loro volta, consentono di scoprire i valori costitutivi della humanitas, comuni tanto agli scrittori cristiani, da Agostino a Lattanzio a Girolamo ad Ambrogio a Severino Boezio, quanto agli scrittori pagani, da Terenzio («Terentius noster») a Seneca («auctor maximus», già definito da Lattanzio «l’eroe della sapienza», nelle Institutiones, VI, 17, 28).
Intanto il suo “scrittoio” viene arricchendosi di testi antichi, come documenta Giuseppe Billanovich, codici talora trascritti anche di suo pugno, come nel caso della orazione ciceroniana Pro Archia, rinvenuta a Liegi nel 1333. Spicca, anche per il formato voluminoso, il cosiddetto “Virgilio Ambrosiano”, allestito insieme col padre. Al vertice dell’asse articolante, che dall’antichità giunge sino al Petrarca, incontriamo la diade suprema Socrate-Platone, già esaltata da Sant’Agostino: Platone, che il Petrarca celebra come «il principe dei filosofi e insieme il più vicino tra essi al cristianesimo» (Rerum memorandarum, I, 25, 16).
La conversione del Petrarca dalla filologia, come studio della parola, alla filosofia, come riflessione sulla vita, è analoga, per sua stessa ammissione, alla conversione di Agostino dalla retorica alla sapienza, cui si sentì sospinto dalla lettura dell’Hortensius di Cicerone (andato poi perduto e che invano il Petrarca cercò di rintracciare). Ascoltiamo Sant’Agostino: «Postquam in schola Rhetoris librum illum Ciceronis, qui Hortensius vocatur, accepi, tanto amore philosophiae succensus sum, ut statim ad eam me trasferre meditarer» («mi accesi di così grande amore per la filosofia che subito pensai di dedicarmi ad essa», Prefazione al De vita beata). Lo attende la lettura delle Enneadi di Plotino e di altri testi neoplatonici. Nel periodo della sua adolescenza scapestrata (aveva sedici anni) a Madauro, riassumibile nella frase «nondum amabam et amare amabam», con una di quelle omofonie allitteranti tipiche dello stile agostiniano (Confessiones, III, 1), si era anche appassionato alla lettura di Virgilio, sino a piangere sulla sorte di Didone infelice («Flebam Didonem extinctam ferroque estrema secutam», ivi, I, XIII). Ma quando, a diciannove anni, ha tra le mani l’Hortensius, dal prestigioso maestro di retorica sboccia il filosofo inquieto; quel libro lo riconduce a Dio: «persero per me – dice – ogni valore tutte le speranze fatue e desideravo ardentemente la sapienza immortale con un incredibile slancio del cuore, e già cominciavo a rinascere per ritornare a Te...non dunque mi interessavo a quel libro per raffinarmi la lingua e la locuzione, ma mi aveva convinto ciò che esso diceva» (ivi, III, IV). D’ora innanzi sono gli scritti filosofici di Cicerone ad interessarlo, dalle Tusculanae al De finibus bonorum et malorum, dal De Officiis al De natura deorum, al De divinatione, sino a maturare in lui la convinzione, condivisa poi dal Petrarca, che nessuna soluzione di continuità possa sussistere tra paganesimo e cristianesimo.
Non dissimile il percorso petrarchesco, per la mediata suggestione dell’Hortensius, dalla fascinatio del letterato al rovello del filosofo, in una prospettiva non mistico-medioevale, ma totalmente umana, classico- cristiana, che la stessa mutatio vitae, sui quarant’anni, finirà per accreditare. In una lettera del 1360 rievocherà: «Ho amato Cicerone, lo confesso, e ho amato Virgilio al punto da credere, tanto mi piaceva il loro stile e il loro ingegno, che niente e nessuno potessero esservi sopra di loro. Allo stesso modo ho amato fra i greci Platone e Omero, e spesso sono rimasto in dubbio nel giudicare il loro valore nel raffrontarli coi nostri (scil. gli scrittori cristiani). Ma ormai è venuto per me il tempo di cose più serie e di dovermi occupare piuttosto della salvezza che dell’eloquenza. Un giorno leggevo coloro che mi davano diletto, oggi leggo coloro che mi danno giovamento [...]. Ormai i miei oratori sono Ambrogio e Agostino, Gerolamo e Gregorio: il mio filosofo è Paolo e il mio poeta è David, che, come sai, ho posto molti anni fa a confronto con Omero e Virgilio, senza però decidere a chi assegnare la palma» (Familiares, XXII, 10). E sul modello dell’autore dei Salmi, «eo formosior quo incomptior, eo doctior disertiorque quo purior» (ibidem), il Petrarca aveva composto i suoi sette Psalmi poenitentiales, del 1348, echeggianti il Secretum, a “mutatio vitae” in fieri.
Per quanto sin qui detto, è lecita una pur provvisoria conclusione: tra paganesimo e cristianesimo il Petrarca non instaura una contrapposizione ma cerca una conciliazione e in questa direzione muove dall’esempio dei Padri della Chiesa. Con una non marginale differenza, tuttavia: se l’incontro tra paganesimo e cristianesimo per gli uni era avvenuto sul presupposto di una concezione provvidenziale per cui «il divenire storico tendeva ad allinearsi sopra un’unica direttiva, ora, con il Petrarca l’incontro tra i due mondi opposti avveniva in nome di una fondamentale eguaglianza dell’animo umano. Sicché il cristianesimo stesso appariva non solo come la vera e unica religione, ma anche come quella che più rispondeva a necessità e aspirazioni umane, ugualmente sentite in luoghi e tempi diversi». Una fondamentale uguaglianza dunque che affonda le sue radici nel concetto di humanitas per la prima volta, come categoria ontologico-esistenziale, rivendicata nel mondo antico per bocca di un liberto, per di più di colore, il poeta Publio Terenzio Afro, del II secolo avanti Cristo; concetto che, con una sua precisa storia evolutiva, si protrae sino al I secolo dopo Cristo. Seneca filosofo, infatti, lo proclamerà testualmente in un severo monito a Lucilio: «Ille versus et in pectore et in ore sit: – homo sum, umani nil a me alienum puto» (Ep. ad Lucilium XCV) («Quel famoso verso ti sia nell’animo e sulla bocca: – sono un uomo, niente che sia umano ritengo estraneo a me»).

Evoluzione del concetto di Humanitas da Terenzio al Petrarca

Nella sua commedia Hautontimorùmenos (Il punitore di se stesso, atto I, sc. I, 25). Terenzio mette in bocca al vecchio Cremete il celebre verso, per significare la di lui partecipazione al dolore di Menedèmo, insensibile alle ragioni sentimentali del figlio, che si è innamorato di una fanciulla onesta ma senza dote, con ciò inducendolo a una rischiosa scelta di vita da soldato in Asia; scelta che ora lo rimorde. Il rapporto umano col proprio simile, qui rappresentato da un pagano, anticipa il monito evangelico «ama il prossimo tuo come te stesso» (Marco, XII, 31), che a sua volta San Paolo, in più evidente sintonia con le motivazioni terenziane, ripropone nella Lettera ai Romani: «Gaudere cum gaudentibus, flere cum flentibus, id ipsum invicem sentientes» (XII, 15). Paradosso, forse, non meno cristiano che pagano, condiviso, prima ancora della spiritualità evangelica, dalla ideologia stoica di Panezio e Posidonio, ispiratrice dell’umanesimo terenziano e nella quale si riconosce, col suo eclettismo, anche Cicerone: dal De officiis, nel superamento della presunta conflittualità tra l’utile e l’onesto; alle Tusculanae disputationes (con la enunciazione: «Virtutem ad beate vivendum se ipsa esse contentam»); al De Legibus, nell’intento di rimuovere gli ostacoli che impediscono la identificazione della questione politica con la questione morale; al De Republica, con la celebre definizione della legge naturale, che costituirà il fondamento teoretico del giusnaturalismo moderno. Da un libro perduto dell’opera ciceroniana l’ha tramandata ai posteri Lattanzio: «Est quidem vera lex recta ratio, naturae congruens, diffusa in omnes, constans, sempiterna, quae vocet ad officium iubendo, vetando a fraude deterreat» (Istitutiones, VI, 8) («La vera legge è la retta ragione, coerente con la natura, presente in tutti, sempre uguale, eterna, tale che, col suo comando, solleciti al dovere, col suo divieto distolga dalla fraudolenza»). La legge naturale si identifica dunque con la stessa ragione divina (Deus sive Natura) e la sua conoscenza, in forza della ragione umana, dimostra che l’uomo è creato da Dio a sua immagine e somiglianza, donde consegue che soltanto l’uomo, fra gli esseri animati, può pervenire alla cognizione della divinità. Nel De Legibus, un passo davvero esaltante e sintomatico per i Padri della Chiesa e per il Petrarca, è quello nel quale si rimarca la centralità dell’uomo nel cosmo e la «comunanza di parentela, di stirpe, di famiglia, che esiste fra gli uomini ed i celesti» («ex quo vere vel agnatio nobis cum caelestibus vel genus vel stirps appellari potest», I, 8-9). Potremmo continuare con innumerevoli altri nuclei concettuali dell’umanesimo ciceroniano, sicché si capisce facilmente come di essi si appropriassero gli scrittori cristiani, non per rinnegarli, essendo di estrazione dottrinaria pagana, ma per sublimarli nella prospettiva della Grazia, propria della fede cristiana, quasi ad accreditarne in perpetuum la validità. In Cicerone, poi, il semantema di humanitas si approfondisce, per diventare sinonimo di humanae litterae, nella orazione “Pro Archia”: «omnes artes, quae ad humanitatem pertinent, habent quoddam comune vinculum et quasi cognatione quadam inter se continentur» (I, 2); sinonimo di ars poetica dunque, nella accezione platonica dello Ione quale afflato divino (numen), motivo che legittima la richiesta ciceroniana della cittadinanza romana per il poeta straniero Archia. Si allarga infine per assumere il significato di civiltà a misura d’uomo (cultus atque humanitas), che, nell’esercizio del governo delle province, implica la prassi del costante «consulere eorum commodis et utilitati salutique servire», per popoli non ancora evoluti, e ad un livello più alto di idealità, per nazioni, come la Grecia, culla della civiltà e nutrice delle arti belle. Il fratello Quinto, dunque, che vi era stato mandato dal senato come governatore, si guardasse bene dall’incorrere nelle ruberie e malversazioni di un Verre: si ispirasse invece alla stessa liberalità greca, cui Roma era debitrice, (in una delle lettere ad Quintum fratrem (9, 27-28), che il Petrarca aveva rinvenute insieme con le altre Ad Marcum Brutum e Ad Atticum, nella biblioteca capitolare di Verona, nel 1345).
Lo stoicismo di Seneca rivela sorprendenti analogie col pensiero cristiano al punto da indurre Lattanzio a ritenere non del tutto inattendibile la leggenda di una presunta corrispondenza tra il filosofo pagano e San Paolo: leggenda infondata, naturalmente. Non v’è dubbio tuttavia che sul tema della fratellanza universale, e dunque sul problema degli schiavi, le posizioni tra i due appaiono convergenti, pur nella diversità dei linguaggi e delle fedi: altamente lirico, nell’intento oratorio, il linguaggio dell’Apostolo delle genti, drammaticamente concettuale quello di Seneca, nel suo implicito programma pedagogico, in funzione di una renovatio mundi. Pensiamo alla esaltazione paolina della charitas, cioè amore fraterno, della I ai Corinzi: «Si linguis hominum loquar, et angelorum, charitatem autem non habeam, factus sum velut aes sonans, aut cymbalum tinniens. Et si habuero prophetiam, et noverim mysteria omnia, et omnem scientiam; et si habuero omnem fidem ita ut montes transferam, charitatem autem non habuero, nihil sum [...]. Charitas patiens est, benigna est. Charitas non aemulatur, non agit perperam (“non mena vanto”), non inflatur (“non si pavoneggia”); non est ambitiosa, non quaerit quae sua sunt (“è generosa”), non irritatur, non cogitat malum; non gaudet super iniquitate, congaudet autem veritatis (“non gode delle iniquità altrui, si compiace invece della verità”), omnia suffert, omnia credit, omnia sperat, omnia sustinet» (XIII, 2-7). Così per Seneca la condizione schiavile resta una condizione puramente accidentale.
In proposito limitiamoci a qualche passo di una lettera a Lucilio (XLVII, 1-10): «Volentieri ho appreso ex iis qui a te veniunt, familiariter te cum servis tuis vivere, e ciò si addice alla tua saggezza, alla cultura» (“hoc prudentiam tuam, hoc eruditionem decet”); ed il testo continua, quasi incalzando: «chi dice “Servi sunt”, tu rispondi “Immo homines”; “Servi sunt”, tu replichi “Immo contubernales” (“Vivono sotto lo stesso nostro tetto”); “Servi sunt”, e tu insisti “Immo humiles amici”; “Servi sunt”, e tu ribatti “Immo conservi, si cogitavaris tantundem in utrosque licere fortunae” (“sono nostri compagni di servitù, esposti in pari misura ai capricci della fortuna”). Colui poi che tu chiami “schiavo”, è venuto al mondo allo stesso modo di noi liberi (“ex isdem seminibus ortum”), gode dello stesso cielo (“eodem frui coelo”); respira, vive, muore allo stesso modo di noi (“aeque spirare, aeque vivere, aeque mori”)».
In verità già nel V secolo avanti Cristo, Euripide, nel suo Jone (854-6), aveva contestato ai malevoli: «Una sola cosa è motivo di vergogna per gli schiavi: il nome; in tutto il resto, nessuno schiavo è inferiore a chi è libero, se è onesto». Sulla questione morale in ordine all’esercizio delle funzioni pubbliche, a voler racimolare dal vastissimo corpus senecano, si potrebbe allestire un massimario, una precettistica, che lascerebbe intravedere la crisi irreversibile di un’epoca e gli albori dell’èra cristiana.
E’ il “foro interiore” il campo privilegiato d’indagine dello stoicismo senecano, per cui non è lo status sociale il criterio di giudizio delle azioni umane, bensì lo spessore etico sotteso: «Non ministeriis illos aestimabo, sed moribus», perché «sibi quisque dat mores, ministeria casus adsignat» (ibidem, 15). E’ una spiritualità autenticamente cristiana che penetra il pensiero di Seneca e filtra nelle opere dei Padri: «Tuta scelera esse possunt, secura esse non possunt»; è come dire che i delitti commessi possono essere immuni da pericoli, ma non già dai rimorsi, sicché «la prima e più grave punizione di chi ha commesso un delitto è infatti l’averlo commesso» («quia prima illa et maxima peccantium est poena peccasse»); né ve n’è alcuno che, «per quanto ben remunerato dalla sorte e ben difeso e protetto da questa, possa restare veramente impunito, perché sceleris in scelere supplicium est» (Ep. ad Lucilium, XCV 11,13-14). E’ l’avvio a quella rivoluzione delle coscienze che avrà il suo sviluppo nel discorso della montagna: «Beati pauperes spiritu... Beati mites... Beati qui lugent... Beati qui esuriunt et sitiunt iustitiam, quoniam ipsi saturabuntur... Beati mundo corde... Beati pacifici... (Mat. V, 3-9). Il foro interiore ha eticamente legittimato il principio dell’eguaglianza umana e travolto la civiltà schiavista, ma al tempo stesso conduce al trascendimento di sé e alla sconfessione degli dei “falsi e bugiardi”.
Come è stato osservato, Seneca, non esente da colpe e consapevole dei suoi errori, «pure conforta le proprie angosce e quelle degli altri, mirando all’eterno e al di là della morte, proclamando l’eguaglianza degli uomini e la loro solidarietà». E il Grimal, con maggior forza, richiamandosi ad un passo degli Annales di Tacito (XIII, 26-27), documenta l’impegno di Seneca per favorire importanti provvedimenti a tutela della dignità umana degli schiavi e dei liberti, per concludere: «Quando la predicazione cristiana affermava l’eguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio, nessuno troverà in tale affermazione una assoluta novità. Da lungo tempo la filosofia aveva abituato gli spiriti a simili ardite enunciazioni».
A Concetto Marchesi, infine, la morte di Seneca, come descritta icasticamente da Tacito (Annales, XV, 60-65), sembra precorrere «l’esempio del martirio cristiano»; e l’insigne studioso aggiunge che «contro il rito pagano Seneca muove la prima vera battaglia, senza riguardi e senza pietà» per sottolineare il fatto che solo gli scrittori cristiani, a difesa del cristianesimo, conservavano frammenti delle opere perdute di Seneca contro il culto gentile.
Né, invero, si tratta di proteste o di teorie di uno spirito indipendente contro gli eccessi formali del culto, perché «è tutta l’antica religione ufficiale, coi suoi riti e le sue deviazioni, contestata e vituperata nel nome dell’unico Dio, creatore di tutto ed ignoto ai templi pagani». Sul problema teologico, dunque, la distanza dall’idea cristiana quasi si annulla nelle riflessioni di Seneca, che, fra l’altro, così postilla: «Prope a te est Deus, tecum est, intus est, malorum bonorumque nostrorum observator et custos est» (“Dio ti è accanto, è con te, dentro di te, osservatore e custode del nostro male e del nostro bene”). Anzi, perentoriamente, «bonus vir sine Deo nemo est» (Ad Lucilium, XLI, 1-2). Ne deriva il “lanternino” della coscienza, che guiderà il lettore nel labirinto della interiorità petrarchesca del Secretum, nel viluppo delle serrate schermaglie con l’impietoso fustigatore Agostino: «Sacer intra nos spiritus sedet [...]. Ille dat consilia magnifica et erecta» (ibidem); col postulato dell’immortalità dell’anima, nel solco del mito platonico di Er (Politeia, X), oltre che del ciceroniano Somnium Scipionis, che anche il Petrarca utilizzerà nel II libro dell’Africa. La metafora della liberazione dell’anima dal carcere del corpo, come si leggeva nel Fedone di Platone, ricompare in più luoghi delle Epistole ad Lucilium: «C’è nell’uomo – scrive – un’essenza divina, (un numen) che spinge l’anima verso l’alto e ad aspirare alla liberazione del corpo come da un carcere» (LXV, 16 e CXX, 14-16). E il celeberrimo «noli foras exire» di Sant’Agostino, coll’implicito principio dell’autotrascendimento, non risente forse dell’appello al “guardarsi dentro” di Seneca? «Noli foras exire, in te ipsum redi, – ripete Agostino – in interiore homine habitat veritas; et si tuam naturam mutabilem inveneris, trascende et te ipsum. Sed memento, cum tu trascendis, ratiocinantem animum te trascendere. Illuc ergo tende, unde ipsum lumen rationis accenditur» (“... e se riscoprirai la tua natura cangiante, trascendi anche te stesso. Ma tieni ben a mente che, quando trascendi te stesso, tu trascendi l’anima raziocinante.

Volgi lì, dunque, l’animo tuo donde si accende il lume stesso del raziocinio” (De vera religione, XXXIX, 1, ed. a cura di F. M. Bongioanni, Milano, 1942, p. 80 sg.). Il metodo di Sant’Agostino serve al Petrarca per introiettarsi, nel De secreto conflictu curarum mearum; l’Illuminismo stoico di Seneca poi gli suggerisce i «rimedi contro la buona e la cattiva sorte» (“De remediis utriusque fortunae”); rimedi tutti riconducibili al sano e corretto uso della Ratio, intesa ora come saggezza antica, oraziana («est modus in rebus»), ora come cristiano distacco, di qua, però, dall’ascetismo medioevale. Entrambe le opere sono a struttura dialogica, sulla falsariga di Cicerone, di Severino Boezio, oltre che del suo Seneca.
L’umanesimo cristiano del Petrarca, dunque, non prescinde dalla filantropia di Terenzio, dalla vis persuadendi dell’eloquenza di Cicerone, dalla sapienza di Seneca, dalla pietas, venata di religiosità, di Virgilio: quella pietas virgiliana, per cui già Dante aveva immaginato che il pagano Stazio, da lui incontrato nella quinta cornice del Purgatorio (cc. XXI e XXII), si fosse convertito alla fede cristiana in seguito alla lettura della IV Bucolica di Virgilio: «Quando dicesti: – Secol si rinnova: / torna giustizia e primo tempo umano, / e progenie scende da ciel nova – // Per te poeta fui, per te cristiano», (XXII, 70-73). Ma Stazio esprime anche il più vivo rammarico che Virgilio non possa salvarsi, per essere vissuto prima di Cristo: «Facesti come quei che va di notte, / che porta il lume dietro e sé non giova, / ma dopo sé fa le persone dotte» (ibidem, 67-69).
Rammarico che anche Sant’Agostino aveva manifestato per Platone e i neoplatonici: «Ita si hanc vitam illi viri nobiscum rursus agere potuissent, viderent profecto cuius auctoritate facilius consuleretur hominibus, et paucis mutatis verbis atque sententiis, christiani fierent» (“così se quegli insigni uomini avessero potuto rivivere con noi nel tempo nostro, vedrebbero immediatamente con l’autorevolezza di chi si provveda più facilmente alla salvezza dell’umanità, e mutate poche parole e sentenze, diventerebbero cristiani” (De vera religione, in Antologia agostiniana, a cura di C. Moreschini, Firenze, 1970, p. 119). Rammarico non meno avvertito dal Petrarca in più luoghi delle sue opere per Terenzio, Cicerone, Seneca, tanto insistenti e tenaci gli appaiono i legami che saldano la humanitas dei pagani con la christianitas dei tempi nuovi.

Avvisaglie cristiane nel classicismo dell’Africa

Il Petrarca dell’ “Africa” (poema modellato sull’esempio dell’Eneide, rimasto incompiuto, al IX libro) non riesce ad essere un poeta epico, come l’argomento dell’opera – la seconda guerra punica – avrebbe richiesto, perché «non eran da ciò le proprie penne» da quel grande lirico che era; sicché i personaggi chiave, che, con una terminologia critica moderna, potremmo definire “eroi positivi”, ossia Scipione, il vincitore di Zama, e Magone, fratello di Annibale, non sono che proiezioni della ideologia cristiana del Petrarca, e trait d’union fra i due, come tra questi è il Petrarca, non è che la humanitas, che nel personaggio romano si manifesta anzitutto come pietas (il pius Scipio in parte ricalca il pius Aeneas), e nel cartaginese, come presentimento cristiano, anzi biblico, della irreversibile labilità delle vicende umane, con l’Ecclesiastes (I, 3 e XII, 8): «vanitas vanitatum et omnia vanitas». Del pius Scipio il Petrarca traccia il profilo nel De viris illustribus (Prose, pp. 236-249), denso di commossa ammirazione per un pagano che, pur cresciuto tra le armi, disdegna la violenza immotivata; si dedica all’otium meditativo, segue il precetto epicureo del “vivi appartato”, quasi diremmo secondo i dettami che lo stesso Petrarca enuncia nel De vita solitaria e nel De otio religioso: «Fare andare indietro nel tempo la memoria e vagare con l’animo per tutte le terre, per tutti i secoli, incontrarsi qua e là con tutti coloro che furono uomini illustri, e dimenticare così gli artefici odierni di tutti i nostri mali» (De vita solitaria, I). E nel De viris illustribus chiosa fra l’altro che «come è cosa degna lodare nell’eroe romano la pietas, così non è necessario farlo, perché questa pietà è troppo nota per non avere bisogno di attestati» (Prose, cit., p. 240).
Ma tel père tel fils, sicché non meno cristianamente è atteggiata la figura di Publio, padre dell’Africano, sulla scorta del Somnium Scipionis di Cicerone, che Petrarca aveva letto nei Commentari di Macrobio. Ammonisce infatti: «Ebbene, tutto ciò che è nato muore, e cresciuto in età si consuma: nulla resta tra le cose mortali. Donde infatti potrebbe un uomo o un popolo sperare quello che non può l’alma Roma?» (II, 344-47).
La romanitas del Petrarca non è però quella dantesca del De Monarchia, né quella della virgiliana e oraziana ideologia del principato, celebrata nel VI libro dell’Eneide (851-53) e nel Carmen Saeculare: è piuttosto la romanitas categoria metastorica di Tito Livio e del ciceronianus San Girolamo, che si domanda con una punta di angoscia: «Quid salvum est, si Roma perit?» (Epist., 123, 16, 4), in audace analogia col destino di Gerusalemme: «Capta Hierusalem tenetur a Nabuchodonosor» (ibidem).
Un naturaliter christianus dunque Publio Scipione veggente che sancisce: «Facili labuntur secula passu: / tempora diffugiunt; ad mortem curritis; umbra, / umbra estis pulvisque levis vel in ethere fumus / exiquus quem ventus agat» (II, 347-50), con evidenti echi oraziani, certo («Eheu, fugaces, Postume, Postume / labuntur anni...», Carmina, II, 14, 1-2 e «pulvis et umbra sumus», ibidem, IV, 7, 16), ma con accenti biblicotestamentari («pulvis es et in pulverem reverteris»). Nel monologo di Magone morente il sentimento della vita e della morte è universalmente “umano” prima di essere specificamente “cristiano”, come il Petrarca stesso, giustamente risentito per certe riserve di critici malevoli, insisterà a chiarire in una lettera al Boccaccio del 1363, come vedremo. Magone, mortalmente ferito al seguito del fratello Annibale in Italia, s’imbarca da Genova verso l’Africa, per finire i suoi giorni a Cartagine. Lungo il tragitto, riflette sulle vicende umane, e compiange la sorte degli uomini in balia di illusioni, destinate sempre a scontrarsi con la realtà: «Vedendo più da vicino l’ora suprema, cominciò: Ahi! Quale termine è dato a un’alta fortuna! Come si acceca la mente nei lieti successi! Una pazzia dei potenti è questa, godere di un’altezza vertiginosa. Ma quello stato è soggetto a innumerevoli procelle, e chi si è levato in alto è destinato a cadere». Ed ancora: «Ahi, sommità vacillante dei grandi onori, speranza fallace degli uomini, gloria vana rivestita di falsi allettamenti. Ahimè come incerta è la vita, dedita a una fatica perpetua, come è il giorno della morte, né mai previsto abbastanza». Ed infine: «Con che iniqua sorte è nato l’uomo sulla terra! Gli animali tutti riposano: l’uomo non ha mai quiete e per tutti gli anni affretta ansioso il cammino verso la morte. E tu sola, o Morte, ottima tra le cose, scopri gli errori, disperdi i sogni della vita trascorsa... Destinato a morire, l’uomo cerca di ascendere agli astri, ma la morte ci insegna quale sia il posto di tutte le nostre cose... A che mi serve aver costruito alti palazzi adorni d’oro su mura di marmo, se io dovevo per sinistro destino morire così sotto il cielo? (Africa, VI, 888- 911).
Questo frammento del poema circolò clandestino, per l’imprudenza dell’amico Marco Barbato da Sulmona, cui il poeta lo aveva fatto conoscere, e fu subito mossa l’accusa di una incoerenza ideologico-poetica: il Petrarca avrebbe attribuito a un pagano una sensibilità cristiana, contraffacendone la autenticità antropologica. Così si difende e replica il Petrarca: «Quid enim, per Christum, obsecro, quid christianum ibi, et non potius humanum omniumque gentium comune? Quid enim nisi dolor, ac gemitus et penitentia in extremis de qua quid Cicero scripsit audivisti?» (“Che cosa infatti, vi scongiuro in nome di Cristo, che cosa di cristiano in quei versi che non sia piuttosto comune a tutti gli uomini e a tutte le genti? Che cosa infatti se non il dolersi, il piangere, il pentirsi sulla soglia della morte, su cui udisti che ne pensa Cicerone?”). E al nome di Cicerone, a dimostrazione della universalità e naturalità dei sentimenti che ineriscono nella humanitas di Magone, seguono richiami a Terenzio, a Seneca, e persino a Ovidio, «lascivississimus poetarum», e ad Epicuro, «philosophorum levissimus», nonché a Salomone e al poeta dei Salmi (Seniles, II, 1, in Prose, 1030-1067).

Componente agostiniana della introspezione petrarchesca

Senza scampo è l’insofferenza del Petrarca verso la media aetas, e la rivela senza remore ad posteros: «Incubui unice, inter multa, ad notitiam vetustatis, quoniam michi semper etas ista displicuit» (“Tra le mie molte attività, mi sono singolarmente dedicato alla conoscenza del mondo antico, perché questo nostro tempo mi fu sempre sgradito; e se l’amore per i miei cari non mi spingesse in altro senso, direi che ho sempre desiderato di essere nato in qualsiasi altro tempo e mi sono comunque sforzato di dimenticare questa età sempre inserendomi spiritualmente in altre. Per questo mi son sempre piaciuti gli storici” («ut, nisi me amor carorum in diversum traheret, qualibet etate natus esse semper optaverim, et hanc oblivisci, nisus animo me aliis semper inserere. Historicis ìtaque delectatus sum»). In verità, questo petrarchesco rifiuto del presente non è molto differente dall’analogo rifiuto di Dante. Ascoltiamo a riguardo il nostro più autorevole studioso dell’umanesimo, Eugenio Garin: «Dante come Petrarca, anche se in forme diverse, e Petrarca più sottilmente, danno voce alle sofferenze di un mondo travagliato e feroce, alle tragedie della Chiesa spezzata, Imperi in dissoluzione: alle lotte e alle miserie delle città divise, ai dolori e alle domande umane di sempre, cui non offrono risposte né le calculationes logiche di Oxford, né le discussioni parigine o gli sforzi di quantificare la grazia. Contro questi moderni si accende il bisogno di tornare ai saggi dei tempi lontani, a voci incontaminate che scrutano i segreti dell’uomo e cercano il senso del mondo: Socrate e Platone, Cicerone e Agostino». Insomma, Dante, diremmo, sopperiva al vuoto ideale del presente e al decadimento dei costumi e delle istituzioni col suo viaggio nell’aldilà, quasi a riscoprire i fondali della natura umana e risalirne a «riveder le stelle»; il Petrarca, con il culto degli studia humanitatis da integrare con gli studia divinitatis. Dal Petrarca, dunque, come conclude il Bosco, «il cristianesimo non è sentito come dottrina diversa ed opposta alle ideologie classiche, ma come la rivelazione divina e quindi definitiva, di verità già balenate a grandi uomini vissuti prima di Cristo, perciò tanto più sventurati quanto grandi». Per tale integrazione tra studia humanitatis e studia divinitatis, chi altri se non Sant’Agostino poteva venire in soccorso metodologico e dottrinario, anche al fine di superare il contrasto tra “rivelazione per ragione”, propria dell’età antica, e “rivelazione per fede”, propria dell’età cristiana? Un Sant’Agostino che riconduce il Petrarca a Platone, specialmente negli scritti sfidantemente polemici, quale il De sui ipsius et multorum ignorantia, contro i filosofanti veneziani, aristotelico-averroisti e assertori della doppia verità. E’ comune a Platone, a Sant’Agostino e al Petrarca infatti la strenua rivendicazione della spiritualità umana, compromessa e negata dal materialismo dei nuovi epicurei che professano le scienze fisico-naturali. A costoro il Petrarca replica: «Di grazia, che cosa può giovare conoscere belve, uccelli, pesci, serpenti, e ignorare o non tenere in alcun conto la natura dell’uomo, a qual fine siamo nati, donde veniamo e dove andiamo?» (in Prose, cit., a c. di P. G. Ricci, p. 715). La presenza di Agostino nella visione umanistica del Petrarca risalta con maggiore incisività nei due testi che qui brevemente esamineremo: la Familiare (IV, 1) indirizzata al padre agostiniano Dionigi da Borgo San Sepolcro, in cui si descrive la scalata, col fratello Gherardo, sul monte Ventoso, nell’acrocoro pirenaico, e il Secretum. Al di là degli aspetti suggestivamente quanto ariosamente descrittivi del paesaggio, tra cielo e mare, nella lettera, densa come altre di citazioni dagli scrittori classici, l’ascensione va interpretata, a giudizio pressoché unanime, quale allegoria della ascesa spirituale del cantore di Laura (che non era stato uno stinco di santo: «Adolescientia me fefellit, iuventa corripuit, senecta autem correxit», scrive di sé nella Posteritati); ascesa spirituale favorita appunto dalla lettura quotidiana delle Confessiones, «ita ut iam prope manus mea et liber unum esse viderentur» (“al punto che ormai sembra che facessero tutt’uno la mia mano e il libro”, Seniles, XV,7). Ebbene, per rinfrancarsi e riprendere lena, su un pianoro, apre a caso il libretto e si imbatte in queste righe del decimo libro (8, 15): «Et eunt homines mirari alta montium et ingentes fluctus maris et latissimos lapsus fluminum et oceani ambitum et gyros siderum et relinquunt seipsos» (“e vanno gli uomini ad ammirare le cime dei monti, e i vasti flutti del mare e le amplissime correnti dei fiumi e l’immensità dell’oceano e il corso degli astri, mentre trascurano se stessi”). «Stupii, lo confesso» – prosegue – «e pregato mio fratello, che desiderava udire altro, di non disturbarmi, chiusi il libro, iratus michimet quod nunc etiam terrestria mirari, quando già da tempo, dagli stessi filosofi pagani avrei dovuto imparare nichil preter animum esse mirabile, cui magno nichil est magnum».

L’autore delle Confessiones è addirittura l’interlocutore di Francesco nel Secretum, così sconfinata è la devota ammirazione per il santo, che peraltro è direttamente incaricato dalla Verità («mulier quedam inenarrabilis etatis et luminis, formaque non satis ab hominibus intellecta»), che assiste al dialogo, imperturbabile quanto severa «errores suos miserata». Sarà depositaria e giudice delle “confessioni” di Francesco per il tramite di Agostino: confessioni che non saranno meno rivelatrici dell’animo del poeta di quanto siano state le altre del futuro vescovo d’Ippona, nonché «martello degli eretici». Il proemio si apre con un passo di Seneca (Ad Lucilium, XX, 7-14), in cui si discute una frase di Epicuro: «nemo non ita exit e vita tamquam modo intraverit»: un tracciato esistenziale, dunque, lungo il quale ogni individuo sul modello agostiniano consuma le occasioni della innocenza nativa e quelle della perseveranza nella colpa. Il colloquio con il santo non risparmia i costumi del tempo del Petrarca, cosicché «non tam michi quam toti humano generi fieri convicium videretur, ea tamen, quibus ipse notatus sum, memorie altius impressi» «così da risultarne un atto d’accusa non tanto contro di me quanto contro tutto il genere umano, tuttavia mi impressi più profondamente nella memoria le cose di cui sono stato rimproverato io» (p. 26). Francesco ha, sì, letto e riletto tanti libri e meditato sulle sentenze di tanti filosofi, gli rimprovera Agostino, ma senza ricavarne per sé benefici morali, senza elaborarne cioè una duratura norma di vita. A questa prima rampogna dell’interlocutore, Francesco, arrossendo, si dice pronto ad ascoltare e seguire i suoi consigli. Nelle tre lunghe e incalzanti sequenze dialogiche, si profila sempre di più lo scontro tra due coscienze, quella di Agostino, che ha conosciuto il traviamento per poi liberarsene, e quella di Francesco, che stenta sulla via dell’autoricognizione spregiudicata per il balzo finale della salvezza. Nello scontro, si intrecciano, si sovrappongono, si elidono dialetticamente le citazioni dalle auctoritates, siano di segno pagano (Platone, Seneca, Cicerone, Virgilio, Orazio, Giovenale, Terenzio, Sallustio), siano di segno biblico e cristiano (Salomone, Matteo, Boezio, Lattanzio, Girolamo, Giustino): le prime più frequentemente addotte dall’arcigno interlocutore, le seconde da Francesco. Gli scritti agostiniani, dalle Confessiones al De vera religione ai Soliloquia, offrono al Petrarca più argomenti autodifensivi, pur nella analogia, entro certi limiti, delle due vite: «Ogni qualvolta che leggo i libri delle tue Confessioni, tra due contrari sentimenti, la speranza cioè e il timore, non senza liete lagrime, mi sembra talora di leggere non la storia di altri, ma del mio stesso peregrinare» (p. 42). Gli “errores”, sulla cui ammissione Francesco ha poco da tergiversare, rientrano nella comune fragilità umana, dalla noluntas alla luxuria alla acedia alla voluptas dolendi, e Agostino ha buon gioco a sbaragliarne i sofismi, nei primi due libri; ma quando, nel terzo libro, concentra i suoi assalti, ben centrati, sulle due “cathene”, «que nec de morte neque de vita sinunt cogitare» (p. 130), cioè l’amore per Laura e la smania di gloria, Francesco non si arrende. «Tu le chiami catene – risponde – mentre per me sono “nobilissimi affectus”, “speciosissime michi cure”, i due più luminosi ideali» (p. 132). Sono ideali che lo hanno sottratto alla “volgare schiera” (con un’eco dantesca), alimentando, per un verso, la sua ispirazione poetica e trasmettendo per l’altro ai posteri non effimeri messaggi di verità. E’ una Laura in sembianze di “donna-angelo”, insiste Francesco, e Agostino a sbugiardarlo. Ma il poeta del Canzoniere non demorde e si appella al principio della “libertà di giudizio”: «che se per avventura a te pare il contrario, segua ognuno il proprio giudizio; poiché, come tu sai, quanto è grande la verità delle opinioni, altrettanto è grande la libertà dei giudizi» (“Quod si tibi forsitan contrarium videtur, suam quisque sententiam sequatur; est enim, ut nosti, opinionum ingens varietas libertasque iudicandi”, p. 134). Agostino fiuta il sofisma di una specie di “doppia verità”, che allora professavano gli averroisti, peraltro bersagliati dallo stesso Petrarca, nel De sui ipsius et multorum ignorantia, e si affretta a ribadire con l’autorità di Platone che: «In rebus contrariis opinio diversa; veritas autem una atque eadem sempre est» (p. 140). Per l’altra “catena”, il desiderio smoderato di gloria, Sant’Agostino si avvale, ancora una volta, di Cicerone (Pro Marcello, 8, 6) per ingiungergli: «Sappi dunque che la fama nient’altro è che una nomea da qualcuno divulgata e propalatasi sulle bocche della moltitudine» (p. 190): quella moltitudine che peraltro il Petrarca ha in dispregio, orazianamente: «Odi profanum vulgus et arceo» (Carmina, III, 1). Quanto diversamente ultimativo, al contrario, è il monito dell’exul immeritus: «Non è il mondan rumore altro che un fiato / di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi, / e muta nome perché muta lato» (Pg. XI, 100-102). Una gloria, quella di cui si compiace la vanità del Petrarca, che, ancora con immagine dantesca non è che «flatus quidam atque aura volubilis et, quod egrius feras (mal volentieri sopporteresti) flatus est hominum plurimorum» (ibidem).
Ma incombe il biblico “memento mori” a spazzare ogni residua ubbia della protervia del suo interlocutore, al quale, avviandosi alla conclusione della sua requisitoria, Agostino rammenta ancora una volta la saggezza classica, di un Orazio (Carmina, IV, 7): «Ista pretereunt, sed sepius reversura. Ego autem irrediturus abeo» (“Queste cose, cioè il succedersi ai fiori della primavera le messi estive, e ai soli estivi il tepore dell’autunno e alle vendemmie autunnali le nevi dell’inverno, passano, ma per tornare ripetutamente, mentre io vado via per non tornare mai più», p. 209). Non meno che la saggezza del prediletto Cicerone (Tusculanae disputationes, I, 39, 94): «Presso il fiume Ispanis, che sbocca nel Ponto dalla parte di Europa (la Russia odierna), nascono certe bestioline che, a detta di Aristotele, vivono un sol giorno. Di esse, quella che muore all’aurora muore giovane; quella che muore a mezzogiorno è di già provetta età; ma quella che muore col sole finisce vecchia, tanto più se nei giorni del solstizio. Confronta la più lunga nostra esistenza con l’eternità (“confer universam etatem nostram cum eternitate”), e ci ritroveremo press’a poco della stessa effimerità di quelle bestiole (“in eadem propemodum brevitate reperiemur ac ille”) (p. 210).
Noi intanto cogliamo un’altra eco dantesca, lungo quel versante di humanitas che si snoda dai classici, coinvolge i Padri della Chiesa, accende la fantasia dell’Alighieri, placa l’inquietudine tutta moderna del Petrarca: «Che voce avrai tu più, se vecchia scindi / da te la carne, che se fossi morto / anzi che tu lasciassi il pappo e il dindi, // prima che passin mill’anni? ch’è più corto / spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia / al cerchio che più tardi in cielo è torto» (Pg. XI, 103-108).
Concludiamo con Eugenio Garin: «Da solo l’umanesimo filologico sarebbe rimasto sul piano della erudizione e della retorica, né sarebbe mai diventato un fatto europeo destinato a incidere poi anche sullo sviluppo della scienza [...]. La grandezza del Petrarca sta nell’avere scoperto il punto dell’unione; nell’avere, non sai se rivelato o creato, quella dimensione dell’uomo in cui la ricostruzione autentica dell’antico fu ritrovamento di un piano comune, non pagano o cristiano o maomettano, non platonico o aristotelico o stoico, ma innanzitutto umano, di tutti gli uomini di tutti i tempi».

   
   
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