Settembre 2001

TREMILA “LINGUE A RISCHIO”

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Senza parole
Ada Provenzano - Edda Marini
Coll.: Franco Golin - Lùcia Nervi - Katia Moretti
 
 

 

 

 

La fine dei dialetti, già compiuta
in Francia
e in Spagna, in corso
di attuazione nella penisola italiana, può essere
anche vissuta
come un dramma.

 

E’ impressionante l’allarme lanciato poco tempo fa dal linguista britannico David Crystal dalle colonne del Guardian. Impressionante e insolito, ma non per questo da prendere sottogamba. La metà delle seimila lingue parlate oggi nel mondo è destinata a sparire entro la fine del nostro secolo. In tremila – cifra tonda – coleranno a picco, trascinate dall’omologazione planetaria, dalle emigrazioni, dalle fusioni etniche, dalle nuove tecnologie delle comunicazioni, e addirittura dalla scomparsa di piccoli popoli e dalla conseguente crescita di un “meticciato” razziale, che comporterà l’assorbimento delle lingue originarie, senza peraltro dar luogo a nuovi linguaggi, intesi nel senso classico (al modo dell’yiddish, per intenderci).
L’allarme è in sé e per sé necessariamente vago, dal momento che, se sappiamo tutto o moltissimo delle lingue di cultura, che sono generalmente scritte, molto meno, e persino poco o nulla conosciamo di tutti gli altri idiomi, oggetto soltanto in pochi casi di indagini scientifiche. Tuttavia, l’allarme di Crystal è giustificato, e non per nulla esistono già enti, come la “Foundation for Endangered Languages”, che tengono costantemente d’occhio la situazione, consapevoli che ogni lingua è un raffinato prodotto della mente umana.

Le lingue protette

C’è una legge per la tutela delle minoranze linguistiche. Riguarda circa tre milioni di persone. Gli idiomi locali considerati storici potranno essere insegnati nelle scuole italiane e parlati negli uffici pubblici. Questa è la mappa elaborata dal ministero dell’Interno sulla presenza nella penisola delle minoranze linguistiche da proteggere.

Albanesi: 98 mila persone presenti nelle regioni meridionali, (prevalentemente in Calabria e in Molise, ma anche in Puglia, in Sicilia, in Campania, in Lucania, con alcune presenze anche in Abruzzo).

Altoatesini di lingua tedesca: 290 mila persone, la maggior parte delle quali concentrata a Bolzano (65,43 per cento).

Carinziani: Duemila persone, residenti a Udine e provincia (0,38 per cento).

Carnici: 1.400 persone, sparse soprattutto nel territorio veneto (a Belluno 0,66 per cento).

Catalani: 18 mila persone presenti soprattutto nell’area sassarese di Alghero.
Croati: 2.600 persone stanziate in Molise (0,79 per cento).

Francoprovenzali: Novantamila persone presenti ad Aosta (60 per cento), a Torino (0,89 per cento) e a Foggia (0,23 per cento).

Francofoni: Ventimila persone in Val d’Aosta (17,33 per cento).

Friulani: 526 mila persone, in maggior parte presenti in Friuli (56,32 per cento).

Greci: Ventimila persone, grecanici nell’area di Reggio Calabria (0,88 per cento) e grichi in terra salentina (1,88 per cento).

Ladini: 55 mila persone presenti a Bolzano (4,19 per cento), a Trento (1,69 per cento) e a Belluno (10 per cento).

Occitani: 178 mila persone presenti nelle valli di Cuneo (4,76 per cento), a Torino, a Cosenza e a Imperia.

Sardi: 1.269.000 persone in tutta la Sardegna (77,48 per cento).

Sloveni: Circa settantamila persone sparse fra Trieste (9,6 per cento), Gorizia (8 per cento) e Udine (3 per cento).

Rom e Sinti: 130 mila persone circa, non legate al territorio.

Dunque, parlare di “morte delle lingue” è in buona parte soltanto una metafora, anche se ci sono lingue effettivamente scomparse, con l’estinzione di chi le parlava. E’ accaduto – lo ricorda lo stesso Crystal – per la provincia di East Saundaun, in Papuasia, sconvolta da un terremoto che ha ucciso migliaia di abitanti e ha disperso gli altri in terre lontane. Ma il caso più clamoroso è, appunto, quello dell’yiddish, l’idioma a base germanica degli ebrei dell’Europa orientale: esso rifletteva una cultura notevole e secolare, conosciuta ovunque attraverso il teatro (che suscitava grande interesse in Kafka) e la narrativa. Le persecuzioni dei nazisti hanno distrutto quella civiltà. I pochissimi superstiti, e i molti emigrati per tempo, in modo particolare negli Stati Uniti d’America, conservano ancora oggi una lingua, ma ormai in condizioni preagoniche, perché avulsa dal suo contesto naturale.
D’altra parte, basta dare un’occhiata non del tutto superficiale al globo terrestre: molte popolazioni africane e indiane sono in via di estinzione, insieme con le loro lingue, per effetto del contagio di malattie, come il morbillo, che, quasi innocue nei Paesi più civilizzati, riescono loro letali. Per gli Innu del Labrador è proprio la “modernizzazione” forzata che ha prodotto una situazione igienica e sanitaria intollerabile.

Grazie al cielo, le lingue di solito muoiono per motivi meno luttuosi. E può essere quanto mai utile fare ricorso al classico Conflitti di lingue e di culture, di Benedetto Terracini, per fare un po’ di chiarezza, (molte delle considerazioni di Crystal sono vicine del resto a quelle del nostro grande linguista). Il concetto fondamentale è questo: la morte di una lingua corrisponde ad un cambio linguistico. Il cambio può essere sostituzione, come quando il latino dell’Impero Romano è stato adottato dagli abitanti della penisola iberica, della Gallia, della Dacia, eccetera, che pure hanno conservato particolarità di pronuncia, abitudini sintattiche, termini dei loro idiomi di origine. Altre volte il cambio è trasformazione, come nel caso del latino, che si è “trasformato” in italiano, francese, spagnolo, rumeno, eccetera; ad un certo punto si è dovuta riconoscere la morte della lingua, intesa come latino classico; ma gli italiani, i francesi, gli spagnoli, e così via, continuano in verità a parlare latino anche se così trasformato da apparire irriconoscibile. Trasformato dall’apporto delle lingue di popoli invasori, come i Franchi in Francia, o come i Longobardi in parte dell’Italia; o da tendenze generali, come quella all’analisi (per esempio, abbiamo sostituito il futuro sintetico “amabo” con quello analitico “amare habeo”, che dà in italiano “amerò”).

E’ propriamente attribuibile alla natura delle lingue l’evoluzione, la trasformazione senza soste. Ma perché queste trasformazioni ne condannano alcune, mentre ne favoriscono altre?
Qui entra in gioco il concetto di “prestigio”, astratto ma comprensibile in forma intuitiva. Va detto che una lingua davvero viva è in grado di dar voce a discorsi di svariati livelli: quello scientifico e quello della quotidianità, quello letterario e quello familiare, quello delle professioni e quello comune. Quando accade che un altro idioma si imponga per le funzioni più generali ed elevate (amministrazione e commercio, letteratura, arte, scienze), si istituisce una fase di bilinguismo in cui l’idioma più prestigioso ruba via via spazio a quello di espressione più limitata.
Questo è, oggi, il rapporto tra italiano e dialetti. L’idioma perdente viene di fatto limitato all’impiego pratico e locale, più tardi all’uso quasi esclusivamente familiare, e alla fine diventa una sorta di gergo, che verrà irrimediabilmente abbandonato quando la sua ridotta utilità non ne giustificherà più la conservazione. E i parlanti lo sanno benissimo, anche se qualcuno tenta di ribellarsi a questi rapporti di forza.
La fine dei dialetti, già compiuta in Francia e in Spagna, in corso di attuazione nella penisola italiana, può essere anche vissuta come un dramma. Essa significa la perdita non soltanto di un tesoro espressivo (ciascuno di noi vanta nel proprio dialetto parole mai traducibili nella lingua, sfumature originalissime, espressioni onomatopeiche preziose), ma di una concezione del mondo, di sentimenti e di modi di vedere tramandati attraverso le generazioni, che costituiscono elementi fondanti della nostra personalità. Proprio per questo molti poeti contemporanei si sono dedicati al dialetto, anche come reazione all’appiattimento e alla schematicità propri della lingua della scuola e della televisione.
Ma il destino dei dialetti è segnato, soprattutto per l’allargarsi, persino extraitaliano, dei rapporti commerciali, di lavoro, di cultura. Anche per quanto riguarda le lingue alloglotte dell’Italia, cui ha inteso provvedere una legge recente, occorre riflettere sui pericoli di una ghettizzazione di quei parlanti in un campanilismo (quello del “natio borgo”, se si vuole anche “selvaggio”) fuori della storia. Della storia del terzo millennio.
A questo punto ci si domanda: esistono grammatiche d’uso di quelle lingue? Esistono persone in grado di insegnarle agli scolari? Ed esiste, per ciascuna di queste lingue, una varietà generalmente riconosciuta come modello da tutti i parlanti?
Crystal non ci dice, degli idiomi ormai in fare di agonia o in coma profondo, quali saranno i sostituti. E tuttavia possiamo prevedere che si tratterà di lingue importanti sullo scacchiere mondiale. Il portoghese nella zona amazzonica del Brasile, lo spagnolo sugli altipiani latino-americani, l’inglese o il francese nelle aree africane, e via dicendo. Come possiamo pure affermare che l’inglese d’America esprimerà sempre più prepotentemente un imperialismo linguistico di scala e portata mondiale, sulla scia di un primato politico, economico, industriale, commerciale che è il motore, fra l’altro, dell’appiattimento cui la globalizzazione ci va costantemente, ma forse irrimediabilmente, costringendo.

E’ quanto mai difficile, comunque, datare il certificato di morte di un idioma. Se l’estinzione è il risultato di una trasformazione, saranno i parlanti a prenderne atto: quando gli italiani, i francesi, gli spagnoli, i portoghesi o i rumeni si accorsero che la lingua che usavano non era più latino, anche se costituita in buona parte di materiali latini, decisero che la lingua latina era bell’e morta. Ma quando si tratta di estinzione, la ricerca – patetica – del momento del trapasso è senz’altro ingannevole. Quando scompare colui che è ritenuto l’ultimo a conoscere un idioma, si dice che questo è morto; ma come essere sicuri che non ci fosse un altro conoscitore? E poi, un idioma vive nel dialogo, e non è detto che qualche giovane non ne abbia raccolto qualche brandello.
Le prime notizie sull’anno di morte del veglioto (isola di Veglia) o del cornico (terre di Cornovaglia ) sono state smentite; anche se ovviamente si è trattato soltanto di spostare un po’ avanti la data di una fine fatalmente inevitabile. Perché quando un idioma è diventato un gergo quasi personale, o di club, ridotto a dimensioni minime, la sua sopravvivenza è impossibile. Non resta che mettere il lutto. E, a denti stretti, andare avanti.

   
   
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