Settembre 2001

Teste di pietra parlanti

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Sognando l’automa
Tonino Caputo - François Perigould
 
 

 

 

 

Un progetto di una complessità mai affrontata prima d’ora nel mondo, una sfida
che qualcuno
ha definito
semplicemente inaudita.

 

Narra il mito che Polycrite, magistrato a Etoli, sposò una donna del popolo dei Locri, e tre giorni dopo morì, lasciandola incinta di un bambino. Quando il piccolo nacque, si scoprì che era ermafrodito. I sacerdoti si consultarono su questo prodigio, e decisero: la nascita sarebbe stata foriera di guerra fra i due popoli. Per evitare questa terribile evenienza, decisero di bruciare sia la madre sia il figlio. Mentre si accingevano a compiere il rito sacrificale, comparve lo spettro di Polycrite, il quale, dopo aver intimato al suo popolo di non commettere il duplice assassinio, cominciò a divorare il figlio. E lo divorò fra le grida e le preghiere della gente, tutto consumandolo, ad eccezione della testa.
Incerti sul da farsi, i sacerdoti stavano per intraprendere un viaggio alla volta di Delfi, per consultarvi l’oracolo, quando la testa incominciò a parlare, predicendo loro una serie di disastri e di sciagure immancabilmente poi avveratesi.
La storia è raccontata nel bel volume di François Noël, Dictionnaire de la fable, pubblicato a Parigi nel 1803, a sua volta citato da Massimo Pettorino e da Antonella Giannini nel loro originale libro Le teste parlanti. I due ricercatori, esperti di fonetica e di fonologia, sono stati affascinati dall’esistenza di una tradizione, appunto, di teste parlanti, che risale alla tarda antichità e giunge fino al XIX secolo; tradizione che ha a che fare con i tentativi dell’uomo di imitare la voce umana.
Prodigi, meraviglie, miracoli costellano l’intero arco della storia umana. I Caldei usavano le teste dei cadaveri per la divinazione; come si ricorda nella Bibbia, vere e proprie “macchine parlanti” erano in rapporto con le forze oscure che governano il nostro destino. Una delle più celebri teste parlanti dell’antichità è quella di Orfeo, situata nella grotta di Antissa, sacra a Dioniso, a mo’ di oracolo. Il successo di questa statua-mobile (la statua è il simulacro della testa vera e propria, mentre la testa staccata dal corpo è in definitiva una statua che si anima) provoca l’invidia dello stesso Apollo, dal momento che nessuno si rivolgeva più all’oracolo di Delfi, come narra Filostrato nella Vita di Apollonio di Tiana. Sarà proprio la testa di Orfeo a rivelare a Ciro il Grande il suo destino: finirà col capo mozzato.

Tuttavia, il racconto delle teste parlanti non riguarda tanto e solo i culti sacrificali esercitati nel passato dai popoli guerrieri, ma anche le grandi statue rituali, prime fra tutte i celebri colossi di Memnon, gigantesche statue in posizione seduta e con le mani posate sulle ginocchia, alte venti metri, costruite nel XIV secolo prima di Cristo nella piana di Tebe, di fronte al tempio del faraone Amenophi III. A causa di un terribile terremoto, nel 27 prima di Cristo, le statue si inclinarono e per circa due secoli i colossi spezzati in due furono centro di uno strano pellegrinaggio, di cui restano ancora oggi le testimonianze letterarie, oltre che le iscrizioni incise dai pellegrini sul fianco stesso delle statue. Le ragioni dell’attrazione esercitata dai colossi risiedevano nel suono che emettevano durante le prime ore del mattino, quando il sole le colpiva. Ne parlano Pausania, Tacito, Plinio. Fino al giorno in cui Settimio Severo non pensò bene di restaurarle. Allora il fenomeno ebbe termine, e i pellegrinaggi cessarono. Gli autori seguono le tracce di questo lontano episodio miracoloso, ipotizzando varie soluzioni, dalla vibrazione dei materiali all’uso di un qualche marchingegno nascosto. E nel frattempo ci presentano analoghi episodi di pietre sonanti dell’antichità, chiamando in causa le macchine di Erone alessandrino, matematico e meccanico, l’unico uomo che nel mondo antico era in grado di costruire un congegno che producesse suoni.

La storia delle teste parlanti non è che un episodio particolare della storia degli automi, in cui mito e scienza, stanze delle meraviglie e gabinetti scientifici sono sovrapponibili, così come magia e illusionismo hanno a che fare col sapere costruttivo e meccanico: la meraviglia e lo stupore sono all’origine del processo conoscitivo. I falsi Adami, come li ha definiti Gian Paolo Ceserani in un celebre studio edito verso la fine degli anni Sessanta, sono l’antecedente dei mostri cibernetici della contemporaneità e danno forma al sogno dell’uomo di realizzare per via artificiale le diverse facoltà umane: voce, movimento, abilità manuali, persino abilità intellettuali. Questa storia è raccontata in modo avvincente da Mario G. Losano, studioso d’informatica, in Storie di automi. Dalla Grecia alla Belle Epoque.

E’ il Medioevo il baricentro temporale della ricerca della voce artificiale. Autori di teste parlanti furono persino un papa, Silvestro II, al secolo Gilbert d’Aurillac, ma anche Alberto Magno, Gerberto, Roberto Grossatesta – grande studioso della luce e del colore –, Ruggero Bacone. Grandissimo sapiente, Alberto Magno aveva costruito un androide che San Tommaso, recatosi da lui per apprendere i segreti della filosofia, ruppe con un calcio perché lo importunava con il suo chiacchiericcio, impedendogli di concentrarsi nella lettura.

I libri del Sette e dell’Ottocento raccontano cose meravigliose di questa macchina parlante: apriva la porta ai visitatori, si informava delle ragioni della loro visita, riferiva al padrone di casa, intratteneva gli ospiti. Se nell’antichità le teste parlanti – mozzate o no, poco o nulla importa – erano preziosi oggetti dotati di poteri sacrali, in grado di comunicare col mondo dell’invisibile, nel Medioevo cristiano la loro carica diabolica veniva reputata una realtà con la quale era molto pericoloso avere a che fare, pena la morte corporale e spirituale. Nel libro scorrono i nomi di filosofi e maghi come Giovan Battista della Porta, e quello che è uno dei più affascinanti personaggi barocchi, il padre gesuita Athanasius Kircher, nato in Germania all’inizio del Seicento, realizzatore presso il Collegio romano della più celebre Wunderkammer di tutti i tempi, (il suo ritratto, per niente fantastico, è stato tracciato dallo scrittore olandese Anton Haakman nel romanzo Il mondo sotterraneo di Athanasius Kircher).
Tra le tante cose, Kircher studia i problemi di acustica, e in una serie di tavole del suo Musurgiae universalis mostra come realizzare tubi che imitano il condotto auricolare umano per portare le voci, raccolte in spazi aperti, nelle bocche di statue parlanti che muovono le labbra, gli occhi e la lingua.
Con il Settecento entrano in scena una serie di inventori, a metà strada tra l’illusionismo e la ricerca scientifica vera e propria, come l’abate Mical, costruttore di automi che suonavano il flauto e della macchina parlante di cui restano alcune illustrazioni che ritraggono due teste barbute dentro un tempietto, tra colonnine e iscrizioni esplicative. E insieme a questi strampalati e fervidi ecclesiastici appaiono i ventriloqui, che tra il Settecento e l’Ottocento incantarono e suggestionarono le corti e i teatri dell’intera Europa, al modo della bambola parlante costruita in Portogallo, che, sottoposta al vaglio dell’Inquisizione, rispose correttamente e ottenne una patente di ortodossia.
Ma il culmine è raggiunto col barone von Kempelen, che occupa un capitolo a sé nella vicenda della costruzione degli automi, per essere il creatore del favoloso Turco, automa in costume che giocava a scacchi e che vinse, tra gli altri, Napoleone Bonaparte. Al Turco, Edgar Allan Poe dedicò un racconto, “Il giocatore di scacchi di Maelzel”, scritto ben sessantasette anni dopo la sua apparizione.
Il barone von Kempelen, che era teologo, giurista e uomo politico, decise di riprodurre la voce umana. Il suo è uno dei pochi tentativi di realizzare macchine parlanti di cui si hanno testimonianze e prove certe, anche perché, a differenza del Turco, di cui non volle mai svelare il segreto, della macchina parlante esiste una minutissima descrizione.

La più importante intuizione di Kempelen fu quella di capire che «i suoni venivano più facilmente distinti dall’orecchio se posti in contrasto l’uno con l’altro e che di conseguenza andavano uniti e ascoltati in successione». L’orecchio umano si tara su certe frequenze e soltanto grazie alla differenza tra i loro rapporti riesce a distinguere un suono dall’altro. Il passaggio è importantissimo, perché dall’idea di imitare la voce delle teste parlanti dell’antichità si passa all’imitazione dell’udito, che aprirà poi la strada al fonografo e ai moderni strumenti di registrazione del suono, che paradossalmente imitano l’udito, e non la voce.
Tuttavia, la macchina di Kempelen non avrà mai un volto, non sarà mai una testa parlante. A questo punto si separano decisamente la storia degli androidi parlanti e quella delle macchine sonore. I primi diventeranno materia di illusionisti e maghi – il mago Houdini è uno di questi –, le altre di ricercatori e di studiosi. Nel 1879 Thomas Edison sta lavorando al fonografo, strumento che ci introduce all’epoca della voce riprodotta. Ora è la voce artificiale ad essere un modello cui quella naturale tende sempre più a conformarsi. Che è come dire: la voce non è più un carattere distintivo di un uomo!

   
   
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