Settembre 2001

IL CORSIVO

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Mezzogiorno addio?
Aldo Bello
 
 

 

 

 

Un progetto di una complessità mai affrontata prima d’ora nel mondo, una sfida
che qualcuno
ha definito
semplicemente inaudita.

 

L’idea del Sud al tramonto? La denuncia è di Giuseppe Galasso. Non è a rischio di sopravvivenza la società meridionale in sé, è sul punto di estinguersi il termine che l’ha indicata fino ai nostri giorni: il “Mezzogiorno”.
Il Mezzogiorno muore, trascinando con sé nella memoria storica una civiltà, una cultura, un’antropologia civile, tutto un universo di lingue, di arte, di tradizioni, di miti, e un retaggio di vicende, rapporti, relazioni che hanno profondamente contrassegnato l’identità del continente Sud e della stessa penisola Italia? E perché rischierebbe di svanire una categoria di pensiero che fra gli ascendenti nobili può vantare narratori, poeti, saggisti, storici di spessore europeo e persino planetario?
Sostiene Galasso: il Nord e il Sud d’Italia si sono nuovamente allontanati, dopo avere illuso politici, economisti, intellettuali su un loro imminente riavvicinamento. Gli indicatori economici oggi non lasciano spazi a dubbi: il divario, sulla base del prodotto interno lordo per abitante, è tornato ad essere quello che era negli anni Cinquanta; un meridionale crea ricchezza in misura di poco superiore alla metà di un lavoratore del Nord (il 54,9 per cento, stima del ‘99), mentre nessuna regione meridionale può vantare un reddito per individuo superiore a quello dell’area più debole del Nord e persino del Centro. La disoccupazione è almeno al 22 per cento, in termini reali, contro il 6,5 per cento del Settentrione, e se ci si limita a considerare quella giovanile (56,6 contro 19 per cento), c’è da mettersi le mani nei capelli; neanche dalle statistiche sui consumi giunge una notizia gratificante: sebbene cresciuti, quelli di una famiglia meridionale restano pur sempre il 67,8 per cento di una del Nord.
Ma c’è di peggio: perché, insieme con le speranze di sviluppo “europeo”, una parte della cultura meridionale starebbe smarrendo la sua stessa identità. Mezzogiorno addio: merito, o colpa, delle crescenti differenze fra Puglia e Calabria, fra Sardegna e Campania, ormai non più riconducibili ad una realtà unica, se mai lo sono state. Non solo: esiste, a giudizio di Galasso, una scuola di «studiosi e osservatori» ormai insofferenti alla parola “Sud”. Sono coloro i quali sono stati pronti a giurare che un Mezzogiorno unitario non esiste, e che forse non c’è mai stato.
Galasso oppone a questa tesi liquidatoria l’innegabile dualismo economico e sociale dell’Italia del Sud, che comprende «un terzo abbondante del territorio e poco meno di un terzo della popolazione»; ricorda i frutti della politica meridionalista fra il 1960 e il 1973, quando per la prima volta si accorciarono le distanze e l’emigrazione segnò una massiccia battuta d’arresto. Merito della soppressione delle cosiddette “gabbie salariali”, dello Stato sociale, della tanto vituperata Cassa per il Mezzogiorno? Non sembra esserci dubbio, anche se lo storico riconosce che negli anni Settanta la politica straordinaria per il Mezzogiorno aveva ormai esaurito le sue possibilità.
Le tesi galassiane non convincono tutti. Lo storico Paolo Macry, fra gli altri, ad esempio, sottolinea un paradossale rovesciamento delle parti: il Mezzogiorno non esiste più, mentre il Nord si unifica. «Il Nord-Est e il Nord-Ovest si sono ormai collegati anche in politica, e lo si nota anche nella composizione del nuovo governo. Per il Sud vale esattamente l’opposto: venti o trent’anni fa poteva riconoscersi nel meridionalismo e nella vocazione ministeriale; oggi, in presenza di un Ulivo tosco-emiliano e di una Casa delle Libertà lombardo-veneta, smarrisce il senso della sua unità. La costa adriatica abruzzese-molisana e pugliese, ad esempio, è ormai inserita nel modello di sviluppo del Centro-Nord».
Una prova dell’eclissi del vecchio Mezzogiorno, o del Mezzogiorno tout court? L’assenza di un leghismo meridionale: «Chi ha puntato sulla propaganda anti-Bossi non è stato premiato. La categoria meridionalista ormai non interessa più». Sarà un bene o un male? Per Macry, gli aspetti assistenzialistici della politica di intervento straordinario e speciale per il Sud, a cominciare dalla Cassa per il Mezzogiorno, ne avevano stravolto fin dall’inizio l’impostazione.
Anche lo scrittore Erri De Luca non rimpiange i “carrozzoni” di celebre memoria. Dice: «Una volta esisteva davvero il Sud, con una precisa linea di confine segnata da una mortalità infantile altissima. Oggi quello stesso territorio meridionale lo definirei una “sfumatura del Nord”. Ha maturato il diritto di avere lo stesso numero di immigrati curdi».
Ma Galasso rifiuta di celebrare le esequie del meridionalismo: «Non rimpiango affatto la vecchia politica. E’ giusto però riconoscere che, malgrado tutte le differenziazioni interne, di ieri e di oggi, il Mezzogiorno è nel complesso ancora diverso dal Nord. Pura illusione statistica, questa differenza? Tutta riassorbita dai fenomeni elettorali? Allora la Sicilia, con la schiacciante vittoria di Berlusconi, non dovrebbe essere più collocata oltre lo Stretto di Messina, ma nella valle del Po. Il che mi sembra un po’ troppo, no?».

Per ora, fermiamo il discorso al reticolo dei dati statistici. Sotto questo profilo, è ancora quello del Mezzogiorno un problema aperto? Certamente lo è, a giudicare dagli indicatori relativi al tasso di sviluppo, alla disoccupazione, alle infrastrutture economiche e sociali, al sommerso, alle criminalità organizzate. Ma lo è in termini relativi, rispetto al vecchio Sud. Il che significa che, se è vero che gli standard di benessere economico e sociale sono ancora lontani da quelli del resto della penisola e dell’Europa, è anche vero che il Mezzogiorno di oggi non è più quello di mezzo secolo fa. Non ha ristretto la fatidica “forbice”, ma non è neanche rimasto fermo. Il che lo rende potenzialmente idoneo, più di quanto non lo potesse essere prima, per un nuovo ciclo di sviluppo. Quello del Sud rimane dunque un problema aperto, ma in un contesto irreversibilmente diverso rispetto al passato. Di conseguenza, necessariamente diversi dovranno essere l’approccio e il corso politico per affrontarlo.
Un primo elemento di diversità risiede nell’ormai diffusa vocazione all’autonomia, all’autogestione politica e amministrativa, alla responsabilità locale, ad un più diretto rapporto tra amministratori e amministrati. Tutto questo lo chiamano “federalismo”. E’ quel che vogliono al Nord, e per quello che se ne sa, è anche quel che vorrebbero al Sud: realtà istituzionali interlocutrici dirette del Governo Centrale ai vari livelli decisionali e senza intermediari. Non un ritorno al passato, ma una prospettiva diversa, basata su una sintonia delle Regioni con i dicasteri dell’Economia, delle Attività produttive, delle Infrastrutture.
E qui un antico discorso va chiarito e uno attuale va ribadito. La politica dualistica in Italia, checché ne dicano le anime belle della politica e della cultura, è stata frutto di una scelta scientificamente premeditata e cinicamente applicata. Storicamente, quel poco o quel tanto di Sud che produceva a livello industriale venne raso al suolo, subito dopo l’Unità, nel nome di un Nord produttore e di un Sud consumatore. In parti pressoché uguali (ma con gravissime conseguenze socio-economiche per il solo Sud) venne diviso soltanto il gigantesco debito contratto dal Piemonte conquistatore e riconquistatore del “fardello” meridionale e da Roma sabaudo-fascista creatrice e sostenitrice del non dimenticato “triangolo industriale” del Nord. L’intervento straordinario avviato da De Gasperi nel Mezzogiorno fece cose buone per i primi dieci anni, poi degenerò, finendo in mano ai “professionisti dei finanziamenti”, una categoria parassitaria formata in massima parte da parlamentari d’ogni colore politico, che polverizzarono i fondi con fini tangentizi e clientelari. In ogni caso, ne beneficiarono ampiamente le imprese del Centro e del Nord, per una lunga stagione uniche appaltatrici dei lavori varati dalla Cassa per il Mezzogiorno.
Le mafie, poi: subito dopo il secondo conflitto mondiale, quando erano ancora agrarie e ruspanti, potevano essere ricondotte alle ragioni civili e morali dei popoli siciliano, campano e calabrese. Invece, si preferì lasciarle rigenerare dapprima con l’uso e l’abuso dell’edilizia urbana, e in seguito con il campo libero del tabacco, degli stupefacenti e dell’immigrazione clandestina, in cambio di massicci pacchetti di voti amministrativi e politici. Oggi, per un conseguente fenomeno di partenogenesi, sono emersi professionisti sofisticatissimi dell’informatica in grado di manovrare impunemente a livello mondiale, riciclandoli, capitali giganteschi.
Il discorso attuale da ribadire. In un’Europa che cresce e che si allarga, con mafie germinate sull’esempio delle navi-scuola italiane, (in Russia, in Bulgaria, in Albania, nei Paesi dell’ex Jugoslavia, in Turchia e negli Stati turcofoni, etc.), i cartelli del crimine nostrani si traducono in un condizionamento civile e sociale ormai insopportabile, doppiamente defatigante per il Sud anche a causa di storie criminali recidive determinate da un eccessivo perdonismo rifilato per recupero alla società di chi si è macchiato di delitti di sangue singoli e multipli. Un coacervo di leggi compromissorie, ambigue, lassistiche persino, è sfociato nella spoliazione dei valori e dei significati primari della Giustizia e nel sostanziale isolamento nella solitudine dei pochi, temerari magistrati che si impegnano nella lotta alla criminalità organizzata. Mezzogiorno addio, certamente, se l’inversione di rotta fin qui seguita, e strumentalmente seguita, non sarà di centottanta gradi.

Le cifre, infine. Abbiamo tempo fino al 2006 per ottenere decine di migliaia di miliardi destinati alla maggiore area depressa europea, il Sud d’Italia, appunto. E qui non si tratta di puntare sul “Sud che è cambiato”, ma sul Sud che stenta o non riesce a cambiare da solo. E’ problema delle amministrazioni regionali e statali creare staff che siano in grado di mettere in campo capacità progettuali, anche interregionali, che possano essere accolte positivamente dall’Unione europea. Perché niente è più remoto da Bruxelles della tentazione assistenzialistica, così cara al trasformismo italiano e meridionale; e niente è più criminoso, per gli amministratori e per i politici del Mezzogiorno, della perdita di progettualità creativa di sviluppo e di occupazione nei confronti di una Spagna o di una Grecia. Abbiamo di fronte cinque anni, da una parte, e le percentuali terrificanti della qualità della vita meridionale, dall’altra.
C’è, fra l’altro – e ci ricolleghiamo a quanto detto sopra – un secondo elemento di diversità, costituito proprio dall’integrazione con l’Europa. Nel Protocollo di Roma del 1957, la Comunità Europea riservò all’Italia una posizione “speciale” esattamente in virtù del suo Mezzogiorno, la sola grande area europea unita per estensione territoriale e per popolazione, bisognosa di maggiori iniezioni di sviluppo. Poi, con i successivi ampliamenti, le cose mutarono. Nel 1979 Pasquale Saraceno fu indotto ad introdurre un nuovo concetto: il “trialismo”. Con questo neologismo denunciava l’esistenza di tre tipi di aree: sviluppate, a sviluppo insufficiente, ad economia dualistica. L’Italia, appunto. Ora, con il previsto allargamento ad Est, il trialismo ritrova una conferma. L’Italia rimane ancora abissalmente dualistica. E il Sud la sua omogeneità con l’Europa, a partire dalla fine del 2006, dovrà ricercarsela da solo.

Comunque, ci sarà sempre un Mezzogiorno che non potrà morire. Che non è quello degli ascari di tutti i tempi, ma quello dei grandi spiriti di tutti i tempi. E’ vero che termini come “Mezzogiorno” e “meridionale” sono stati rimossi simultaneamente alla nascita del fenomeno sottoculturale del leghismo, peraltro alimentato dall’insulsaggine di centinaia di migliaia di meridionali emigrati nell’ “Italia che lavora e che produce”; ma è anche vero che il ciclo di ritorno è in atto e non può che montare, se non si vuole rivivere una storia già nota. Così come è vero che rinnegare la propria cultura può essere al massimo un fenomeno transitorio, non un atto liquidatorio. Essa è là, a testimoniare almeno un secolo di impegno di livello altissimo sul piano politico-economico, sociale, intellettuale. Ed è patrimonio inalienabile dell’intero Paese, che è stato europeo finché quel patrimonio di pensiero si è dispiegato, al di là anche dei risultati pratici raggiunti.
I testi pionieristici del meridionalismo che hanno segnato l’identità culturale italiana portano i nomi di Leopoldo Franchetti (“Condizioni economiche e amministrative delle province napoletane”), di Pasquale Villari (“Le lettere meridionali e altri scritti sulla questione sociale in Italia”), di Giustino Fortunato (“Le due Italie”), di Francesco Saverio Nitti (“Scritti sulla questione meridionale”), di Gaetano Salvemini (“Scritti sulla questione meridionale 1896-1955”), di Salvatore Cafiero (“Tradizione e attualità del meridionalismo”), di Pasquale Saraceno (“Scritti sulla questione meridionale”), e poi di Ettore Ciccotti, di Antonio De Viti De Marco, di Rosario Villari, di Giorgio Amendola e degli studiosi marxiani, di Luigi Sturzo e degli studiosi cattolici, di Benedetto Croce e degli studiosi liberali, di Giorgio La Malfa e degli studiosi azionisti...Un grande, complesso reticolo “sudista” ha innervato le più alte categorie della cultura nazionale, anche quando – per unilaterale e in parte volontaristica delimitazione del territorio di identità – si è parlato e scritto di climi e di atmosfere del Nord diversi e specularmente opposti rispetto a quelli del Sud. Come se l’arretratezza descritta da uno Scotellaro, da un Alvaro o da un Tomasi di Lampedusa sia diversa da quella narrata da un Piovene, da un Pratolini o da un Pasolini. Nebbie e solarità comprese. Vivere e philosophare inclusi.
E’ categoria universale dello spirito, il “sudismo” ; è coscienza critica del mondo; è tragico coro-personaggio che testimonia di che argilla e di che cuore son fatti i campi di cotone del Mississippi, i calanchi del Volturno, le banchise del Volga, le terrazze dello Yang-tzé, i cimiteri abitati dai vivi del Nilo, i mille affluenti vergini del Rio delle Amazzoni, le desolate terre pannoniche del Danubio, i villaggi mobili sulle rive velenose dello Zambesi. Non morirà, il Sud d’Italia e del mondo, fin quando un poeta saprà cantare «...la rivolta / da Caio Gracco è stata rimandata / al duemila, ogni tanto c’è qualcuno / che la rigrida e cade (...) / e lontana / è l’alba...».

   
   
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