Settembre 2001

FUGHE DAL SUD

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Ma ogni anno emigra
una città come Lecce
Federico Coroneo - Micha De Palma
 
 

 

 

 

Da tre anni
a questa parte,
il Sud è tornato
ad essere nucleo
di espulsione
demografica.

 

L’emigrazione meridionale invade di nuovo il Nord. Negli ultimi tre anni è stata come un fiume in piena: sono partite 221 mila persone. 72 mila solo del 2000. Per trovare lavoro, è stato costretto a trasferirsi l’equivalente di un’intera città come Lecce.
Il primo effetto è stato quello di uno sconvolgimento demografico. Dal 1997 al 2000 la popolazione del Mezzogiorno è dimagrita, accusando un calo di 95 mila unità. Ne ha beneficiato il resto del Paese. La crescita demografica del Centro-Nord misura 370 mila unità. Questo vuol dire che il Sud ha perso quasi due abitanti ogni mille residenti, mentre il Nord ne ha guadagnati circa tre ogni mille.
Tutto questo si è verificato proprio mentre ripartivano i consumi dell’area e si rimetteva in moto, anche se molto lentamente, la macchina degli aiuti a favore delle regioni meridionali. Questa, l’istantanea scattata dalla Svimez, nel Rapporto presentato nello scorso luglio.
Soltanto grazie all’elevata natalità il Mezzogiorno è riuscito a contenere il calo della popolazione causato dall’emigrazione. Nel 2000, infatti, tra nascite e morti ha guadagnato 34 mila unità, contro una perdita di 70 mila unità del resto d’Italia. In totale, quindi, considerando sia natalità e mortalità sia emigrazione e immigrazione (soprattutto di stranieri), il Mezzogiorno ha perso 18 mila persone.
La ricchezza del Sud, misurata dal Prodotto interno lordo, è aumentata nel 2000 del 2,5 per cento. Si tratta di un punto in più rispetto all’anno precedente. Dal confronto con il Centro-Nord, comunque, il Meridione risulta perdente. Nelle aree centro-settentrionali, infatti, si è registrata una crescita del 3,1 per cento, rispetto all’1,7 per cento del 1999. E altre cifre sottolineano ancora di più le distanze. Il Prodotto interno lordo delle aree povere del Paese è stato pari, nel 2000, al 56,4 per cento di quello che ha realizzato il Centro-Nord. Tanto più che nel ‘99 si era registrata l’identica percentuale. Da segnalare la ripresa dei consumi delle famiglie. Dopo il calo del ‘99, hanno registrato un aumento del 3,2 per cento al Sud e del 3,4 per cento al Centro-Nord.

Se si analizza il periodo 1996-2000, dunque, emerge che in questo arco di tempo si è registrato un tasso medio di crescita del Prodotto interno lordo dell’1,9 per cento sia nel Centro-Nord che al Sud. Secondo Svimez, questo dato va interpretato come un “allineamento”, dopo il divario registrato nel corso degli anni Novanta. Molise e Basilicata figurano ai primi posti nella crescita del Pil. Negli ultimi anni considerati, la prima regione lo ha incrementato ad una media del 2,5 per cento, la seconda ha realizzato addirittura una crescita media del 4 per cento. La Campania deve accontentarsi di una cifra positiva dell’1,7 per cento.

In sintesi, questo il panorama del “pianeta Mezzogiorno” all’inizio del nuovo millennio: cresce la domanda interna, aumentano gli investimenti fissi, in particolare nell’industria, insieme con una forte ripresa delle esportazioni. E anche sul fronte dell’occupazione si colgono segnali di recupero. Il bilancio è che il Sud ha cominciato a muoversi, ma non galoppa. In altre parole: la distanza tra Mezzogiorno e resto del Paese non diminuisce, semmai aumenta a ritmi meno veloci rispetto al passato. Ma aumenta comunque. Un risultato che può non entusiasmare, e che anzi diventa preoccupante se visto in prospettiva (basti pensare agli effetti dell’allargamento della Ue ad Est).
Il divario di produttività tra le imprese meridionali e quelle del Nord, infatti, continua ad essere molto elevato, e negli ultimi anni c’è stato un incremento del costo del lavoro (dovuto anche alla fine di alcuni benefici) che ha portato a un ulteriore innalzamento del clup al Sud, soprattutto in settori tradizionali, come il tessile. La competitività delle aziende meridionali rischia quindi di ridursi ulteriormente.
Una conferma, sia pure indiretta, viene anche dai dati sulle esportazioni. Nel settore manifatturiero, in particolare, l’incremento è stato molto elevato (+22,5 per cento, contro il 17,6 per cento del Centro-Nord); tuttavia, ad aumentare sono state in particolare le esportazioni verso le aree esterne alla Ue (Asia, Stati Uniti), nelle quali le aziende hanno potuto far valere anche la debolezza dell’euro sul dollaro.

L’industria a Sud, comunque, si è mossa in modo significativo. Gli investimenti fissi lordi complessivamente hanno fatto segnare nel Mezzogiorno un positivo 6,8 per cento (5,9 nel Nord), contro il 2,5 per cento del ‘99. E nell’industria in senso stretto l’incremento è stato addirittura del 10 per cento, contro lo 0,7 dell’anno precedente. Quel +6,8 – chiarisce Svimez – è stato prodotto in particolare dal forte aumento degli investimenti in macchinari e attrezzature (+11,8 per cento) e di valori sostanzialmente stagnanti per le costruzioni (+0,5 per cento).
Anche le importazioni hanno registrato una crescita rilevante, facendo registrare un 15,8 per cento sul totale delle risorse disponibili nel Mezzogiorno per consumi e investimenti. Dice Svimez: «Un livello che non si rilevava dall’inizio degli anni Novanta, da quando cioè prese l’avvio il processo di risanamento della finanza pubblica, con un deciso contenimento dei trasferimenti verso l’economia dell’area». Le importazioni sono tornate ad aumentare a partire dal ‘97, riflettendo così «la progressiva ripresa del contributo esterno, sia pubblico che privato, allo sviluppo economico del Mezzogiorno».
Se, infine, si analizza la crescita del Pil ai prezzi di mercato nelle singole regioni, si scopre che per il Sud ci sono differenze molto marcate. A guidare la classifica della performance fatta registrare nel 2000 è il Molise (4 per cento), seguito dalla Basilicata (3,7 per cento), dalla Calabria (3,6 per cento), dalla Sicilia (3,3 per cento), dall’Abruzzo (3,1 per cento), e a distanza dalla Puglia (1,8 per cento), dalla Campania (1,7 per cento) e dalla Sardegna (1,4 per cento).

Allora: ripartono gli emigranti. Da tre anni a questa parte, il Sud è tornato ad essere nucleo di espulsione demografica. Lo hanno abbandonato in 77 mila nel ‘98, in 79 mila nel ‘99 e in 72 mila a fine secolo-millennio. Per trovare cifre analoghe è necessario risalire al 1974, ad oltre un quarto di secolo fa. In altre parole, l’emigrazione degli opulenti anni Duemila è l’interfaccia di quella degli anni dell’austerity.
Questo dato fa giustizia dei pregiudizi rifilati da stampa, imprenditori ed economisti di schieramento, secondo i quali i giovani del Sud non si muovono, preferendo “il lavoro sotto casa”. E non a caso nessun giornale del Nord ha riportato notizie e dati forniti da Svimez, probabilmente perché avrebbero dovuto smentire se stessi e le campagne strumentali condotte negli ultimi anni. Il fatto è questo: i meridionali che si trasferiscono oggi lo fanno per cercare un posto qualificato, adatto al loro livello professionale, e non un lavoro qualunque. Ciò porta l’economista Adriano Giannola a sostenere che questa ripresa dell’emigrazione impoverisce l’equilibrio sociale del Mezzogiorno e il suo capitale umano: «Poi non ci si lamenti che al Sud manca una cultura imprenditoriale».
Sta di fatto che (ieri in nome della fame, oggi in nome del valore professionale e culturale) l’emigrazione resta una costante per le genti meridionali: in mezzo secolo il Sud ha perso cinque milioni e mezzo di persone, dirette in gran parte nel Centro-Nord. E se negli anni Sessanta si giunse ad esodi biblici, col record del 1961 di 240 mila meridionali sui “treni della speranza”, dopo il 1974 il fenomeno sembrava del tutto rientrato. Per tutti gli anni Ottanta e per gran parte del decennio di fine secolo, infatti, il flusso migratorio si era ridotto ai minimi termini, anche se il numero di persone che abbandonava le regioni del Sud era sempre superiore agli ingressi: tra il 1982 e il 1988 il saldo Sud-Nord era negativo per il Mezzogiorno per sole 27 mila unità in media all’anno. Poi c’era stata una ripresa, con una prima accelerazione nel 1995 (55 mila unità), e una seconda nel triennio appena trascorso.
Malgrado il saldo migratorio negativo, tuttavia, il Mezzogiorno non aveva mai perso popolazione, grazie anche a un forte saldo positivo naturale, vale a dire al fatto che il numero di culle superava quello delle tombe. Negli ultimi tre anni, però, anche questo effetto si è esaurito. Il saldo culle-tombe rimane positivo, ma non compensa più l’emigrazione. Sicché alla fine il numero degli abitanti è in calo. Da un triennio, insomma, il totale degli abitanti delle regioni meridionali è in diminuzione proprio a causa della massiccia ripresa dell’emigrazione. E se una volta si perdevano miriametri di fasci muscolari, e milioni di braccia e di bocche da sfamare, oggi il saldo negativo è di materia grigia. Il Sud perde cervelli. E non c’è barba di filosofia politica, di ideologia o di strategia di parte che possa giustificare, nel terzo millennio, questa emorragia.

   
   
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