Settembre 2001

LA SOCIETÀ DEL RISCHIO TRA TECNOLOGIA E GLOBALIZZAZIONE

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Tutte le paure di Lucignolo
Claudio Alemanno  
 
 

 

 

 

Oggi le paure
e i rischi sono più subdoli,
restano nascosti nelle proposte
chimiche e fisiche che risultano
accattivanti
e senza odore.

 

Lucignolo è un noto personaggio di Collodi. Ossessionato dall’ansia di accumulare ricchezza finisce per perdere i piaceri semplici della vita. Il Lucignolo informatizzato perde qualcosa di più, perde spezzoni di vita ogni giorno, afflitto dalle paure e dalle tensioni innescate dal Potere e dalla Sudditanza.
Non ha le passioni dei puri di Allah, nel suo inconscio sono impressi credo e catechesi del “nuovo tecnologico”. Solo nella musica, momento supremo di liberazione, il Lucignolo americano riscopre i ritmi di New Orleans, usati da sempre per celebrare frustrazione, dolore e peccato e il Lucignolo europeo si rifugia nel canto triste del fado. Segnali evidenti di anime inquiete. Del secolo nuovo il Lucignolo informatizzato ha il privilegio delle staffette d’avanguardia ma anche le stimmate delle paure sofisticate (ciò che alcuni filosofi chiamano vuoto dell’intimo).

L’almanacco del diavolo segnala anzitutto le paure prodotte dalle idee declassate. Nell’era del cyberspazio sopravvivono differenti nuances di liberismo e statalismo. Ma la gente, dopo la crisi delle ideologie sta mandando in soffitta anche gli schieramenti. E la colonia dei Lucignoli si infittisce di camminatori solitari. Se i poteri trasversali risultano dominanti sui poteri istituzionali, se il “continente invisibile” (la grande piattaforma virtuale prodotta dall’arbitraggio planetario, secondo l’economista giapponese Kenichi Ohmoe) finisce per mettere in crisi il “continente visibile” (l’apparato istituzionale) nascono spontanee alcune domande.
E’ possibile trovare valori-guida nel deserto ideologico dominante? E’ possibile trovare princìpi etici oltre la globalizzante mercificazione borghese? E’ possibile formulare ragionamenti pedagogici per motivare i nuovi diritti individuali e collettivi? Sappiamo che vengono sempre più in evidenza gli interessi e le ragioni della Società civile. Ma sappiamo anche dei tormenti e dei limiti impliciti nella sua organizzazione vetero-corporativa, senza indicatori che propongano certezze ed equilibri nuovi, senza fattori modificativi della logica dello sviluppo attuale.
Preoccupa la mappa delle paure e dei rischi impalpabili. Nel Medioevo il rischio delle epidemie era palese, si avvertiva dal cattivo odore presente nell’aria. Oggi le paure e i rischi sono più subdoli, restano nascosti nelle proposte chimiche e fisiche che risultano accattivanti e senza odore.
Conosciamo l’aria che respiriamo? Quali problemi creano la deforestazione, lo scioglimento dei ghiacciai, l’innalzamento della temperatura terrestre? Quali danni provocano le onde elettromagnetiche (ripetitori radio, TV, telefonini, tralicci per l’energia elettrica)? I cibi geneticamente modificati sono sicuri? Quali insidie dobbiamo attenderci dai bollettini veterinari sulle epidemie che affliggono gli animali a noi familiari? Come ci si difende dall’aumento dell’ozono atmosferico e dall’inquinamento degli scarichi industriali? Come si fa a rendere le politiche ambientali compatibili con le esigenze di competitività dei sistemi economici? Come si può armonizzare la crescita demografica con la cura dell’ambiente?
Parliamo delle paure dell’anima, di quelle paure che i riti consolatori dei tecno-ottimisti non riescono ad esorcizzare. Nella Società globalizzata molti fattori di rischio sono una costante della vita quotidiana e difficilmente possono essere controllati con ipotesi garantiste di legislazione statale. Sono già 25 milioni i “profughi dell’ambiente”, le persone costrette a lasciare la propria terra perché inabitabile. Questo dato del Climate Institute americano è destinato a raddoppiare entro il 2010, potenziando i flussi migratori dall’Asia e dall’Africa verso l’Europa. Non esiste testimonianza di povertà più autentica dell’esodo di massa prodotto dal disagio ambientale. Cresce il grado d’incertezza e di paura e per dirla con Ungaretti «si sta come di autunno / sugli alberi le foglie».
Al di là del muro di gomma creato dagli interessi industriali e finanziari c’è solo la voce flebile della Società civile transnazionale che fa suoi i temi sociali senza bandiera, i temi centrali della qualità della vita. Incomincia a formarsi un embrione transnazionale di ragioni e interessi condivisi che non trovano agevole accesso nelle sedi istituzionali dell’ordine internazionale (accordi e trattati internazionali) e finiscono per arenarsi nelle agende politiche di partiti e governi nazionali. Singolare interpretazione di un interesse planetario affidato alle logiche del potere locale più che alle trame della diplomazia internazionale.
Il contenzioso ambientale è ancora allo stato di crisalide, efficacemente intercettato dalle lobbies petrolifere e industriali. Questa condizione oggettiva di marginalità rallenta la formazione di una coscienza internazionale consapevole di dover elaborare una categoria di diritti ambientali a difesa dell’umanità, vincolante anche per le nazioni a sviluppo industriale ritardato (si pensi all’industrialismo inquinante dei Paesi in via di sviluppo). Si avverte l’esigenza di teorizzare e affinare un “diritto alla sopravvivenza” che non è meno importante dei diritti indivisibili e universali (uguaglianza, solidarietà, libertà, vita, dignità umana) sanciti nelle Carte fondamentali delle istituzioni internazionali e in molte Carte costituzionali del mondo occidentale.
Non si possono istituzionalizzare e perseguire solo i crimini di guerra contro l’umanità. Occorre anche “vedere” e istituzionalizzare i crimini prodotti dalla pace armata del progresso tecnologico e introdurre nell’area sistema nuove variabili obbligate nella logica degli investimenti, nella ricerca di produttività, nel rapporto prezzi-utili dei servizi e delle attività produttive. Utilizzando l’ecologia come parte integrante del controllo qualità (fino a renderla fattore neutro nella dinamica dei costi) e l’indice di sviluppo umano come base di riferimento delle decisioni strategiche.
E’ un disegno sovranazionale che non si può attuare senza ancoraggio alla determinazione e alla responsabilità dei governi nazionali (attualmente gli Stati Uniti con il 4% della popolazione mondiale producono il 25% delle emissioni di gas serra). Ma è anche un disegno che può produrre il nuovo business del secolo, l’avvento di nuove tecnologie a basso impatto ambientale da inserire metodologicamente nel processo produttivo (la Dupont, una multinazionale della chimica, si è già mossa in questa direzione e il suo management è molto critico sui ritardi delle imprese concorrenti).
Si tratta di richieste non proprio sconvolgenti. Il cambiamento delle fonti energetiche utilizzate dall’uomo ha avuto ad esempio vicende evolutive senza traumi: dal legno che nel 1850 rappresentava il 90% delle fonti si è passati gradatamente al carbone, al petrolio, al gas naturale e ora ci si orienta verso l’idrogeno e l’energia solare (attualmente le fonti energetiche sono: petrolio (32%), gas naturale (22%), carbone (21%) – Rapporto Worldwatch Institute 2001).
Si potrebbero creare nuove professioni e nuovi mestieri. Si potrebbero potenziare gli investimenti in infrastrutture e servizi ambientali, in regolazione e controllo delle risorse naturali, nell’industria bioalimentare; utilizzare marchi, licenze e brevetti impegnati nei processi di riconversione; valorizzare il lavoro di esperti in marketing ambientale e le competenze della “information technology”.
L’agenda politica internazionale dovrebbe prestare più attenzione alle spinte emotive della Società civile, alle lacerazioni prodotte dalle novità tecnologiche senza controlli, alle paure dell’anima nascoste dietro la maschera della normalità. Nessuna antropologia del moderno può eludere la questione delle ossessioni e delle paure adulte, una realtà che alimenta la tendenza verso forme nuove di democrazia partecipata e verso un’evoluzione istituzionale caratterizzata dalla ricerca di maggiore sovranità collettiva. Si attende un dialogo franco e aperto tra Impresa e Società e la crescita di una cultura manageriale decisamente orientata verso un’etica del lavoro che tenga conto delle certezze attese dal cittadino-consumatore.
La ricerca di uno stile di vita più sano non è più una scelta elitaria, interessa strati di popolazione sempre più vasti e diventa perciò fatto economico. Alimenta un interesse di mercato che può rendere meno onerosi i costi macroeconomici del recupero ambientale.
E’ curioso che mentre il mondo scientifico definisce la mappa del genoma umano (si spera che sia per l’uomo e non contro l’uomo) non si avverta pari sensibilità per l’habitat naturale di cui la vita si nutre.
Superati i contenuti dialettici del conflitto capitale-lavoro (non esiste più un modello rivoluzionario credibile), la disputa sulle ambiguità si gioca sui metodi seguiti nel processo di accumulazione, nella creazione del “valore” il cui moltiplicatore resta sostanzialmente estraneo alla vita dell’uomo e alle sue necessità elementari.

Torna attuale la ricerca di un linguaggio universale auspicata da Martin Luther King, fondata sulla «interrelazione tra tutte le comunità e gli Stati compresi in un’ineluttabile rete di mutualità, legati tra loro da un destino comune». Una tesi molto diversa dalla supremazia calvinista del profitto, modellata su una pax americana che continua a privilegiare il liberismo ambientale, sterilizzando nei fatti i processi di riconversione. Non si chiede un placet sul lavoro di altri ma un contributo attivo per l’elaborazione di una politica che non c’è o è fortemente appiattita su interessi interni. Un capitolo grave del generale silenzio politico sulla globalizzazione. Il G8 potrebbe costituire una sede idonea per avviare il motore politico in cerca di regole generali da praticare con criteri di “sovranità bilanciata”. Il prestigio di cui gode questo Club esclusivo gli conferisce potere e titolo per esercitare autorevolmente la sua moral suason verso altri governi non rappresentati.

Lo scenario possibile di accordi separati (area Europa e area America con Stati Uniti, Canada, Paesi del Centro e Sud America, Australia, Nuova Zelanda), conseguente al rigetto USA del protocollo di Kyoto, appare solo un momento di rivisitazione del teatro dell’assurdo. Tale opzione non può essere utilmente coltivata. Porterebbe alla creazione di cartelli antagonisti pregiudizievoli per la competitività complessiva del sistema e per la calmierazione dei costi relativi alle modalità di riduzione dell’impatto ambientale. Più proficuamente l’Europa dovrebbe far valere sul piano diplomatico il suo radicato universalismo cristiano e umanista. Sono in gioco l’agire economico globale e la sua capacità di creare “sviluppo sostenibile”.
La crisi della concezione statalista e centralista dello sviluppo rafforza oggettivamente il dialogo interstatuale e interdisciplinare. Le politiche ambientali dovrebbero agevolare la mediazione internazionale, la ricerca di regole e soluzioni pragmatiche che siano parte inscindibile di decisioni strategiche universalmente condivise (utilizzando le analisi costi-benefici e le indicazioni delle Agenzie internazionali che ormai possono lavorare su dati storici, non più su mere simulazioni). Certamente non si può agire per diventare poveri e virtuosi. Ma il non agire diventa crudele e detestabile. Alimenta solo la crescita senza frontiere dei disagi esistenziali e l’incremento del carico ambientale, con conseguente aumento esponenziale dei costi relativi al capitale naturale da ripristinare.

C’è in natura un animale su cui dovremmo riflettere. Il rospo resta immobile se viene messo in un contenitore con la sua acqua di palude e continua a restare immobile se si riscalda l’acqua fino a farla bollire. Così il rospo muore, gonfio e forse felice. Si può lavorare per l’uomo pensando al destino del rospo?
Nell’attivazione di un circuito integrato tra cultura, economia e tecnologia che dia contenuti concreti al governo della globalizzazione diventa prioritario il rispetto di standars sulla qualità della vita.
Alla rapidità del progresso tecnologico non corrisponde ancora una parallela rivoluzione copernicana nell’organizzazione del lavoro e della produzione e nel modello dei consumi. Oltre al silenzio e all’immobilismo politico preoccupa anche la disaffezione al tema delle forze sindacali che si reputano più sensibili ad interpretare pensieri, sentimenti e sogni dei lavoratori-consumatori.
Sul diritto alla qualità della vita (diritto alla sopravvivenza) c’è la sensibilità rituale dei gran sacerdoti della convegnistica e qualche segnale urlato di rivendicazione à la carte (popolo di Seattle).
Ma nei fatti la forbice tra intenzioni e risultati si amplia, accrescendo le paure irrazionali ed emotive dei Lucignoli. E si carica di drammatica attualità una domanda dello scrittore Stanislaw Lec: «E’ progresso se un cannibale usa coltello e forchetta?». Si attendono risposte, non nuovi capitoli di racconti zen.

   
   
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