Sono imprese pronte
a spingersi
più ad Est,
verso la miseria,
e che si ricordano
di essere italiane
solo quando serve.
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Secondo il Rapporto Einaudi-Lazard, la Romania è ormai diventata
lottava provincia del Veneto. In pochi anni le imprese italiane
hanno creato in questo Paese 150 mila posti di lavoro, che salgono
a 500 mila se si tiene conto dellindotto. Gli studiosi lo
considerano un caso di delocalizzazione industriale
unico nel suo genere: a 1.500 chilometri di distanza, e quindi senza
seguire le logiche della border economic, ben 9.700
aziende italiane (di cui 5.000 provenienti dal Veneto, dallEmilia
e dal Friuli) hanno deciso di aprire uno stabilimento, attirate
dal basso costo del lavoro (200 mila al mese per operaio), ma anche
dalle facilitazioni fiscali e dalla scarsa burocrazia.
Il Rapporto, come esempio, cita il recente sbarco di una società
calzaturiera che ha investito 30 miliardi per uno stabilimento da
duemila posti di lavoro; e la decisione senza precedenti, nel febbraio
scorso, da parte dellUnione Industriali di Treviso, di inaugurare
lanno produttivo proprio a Timisoara. Per gli esperti, lesperienza
rumena è probabilmente ripetibile in altri Paesi, nella logica
di ricostruire allestero il successo del modello italiano
di distretto industriale.
Le polemiche sono cominciate da questo fenomeno e da questi dati
di fatto, e hanno coinvolto numerosi osservatori. La delocalizzazione
è ritenuta da costoro una fuga delle imprese
e dello stesso Nord-Est dallItalia, visto che si preferisce
creare nuovo lavoro e nuove aziende, invece che nel Mezzogiorno,
in altri Paesi, dove si trovano condizioni favorevoli alla crescita,
disposizione al sacrificio, scarsa sindacalizzazione, dopo che sono
state ampiamente sfruttate le opportunità di sviluppo in
casa nostra. Sono imprese sempre pronte a spingersi «più
ad Est, verso la miseria», e che si ricordano di «essere
italiane solo quando serve, cioè quando scorgono la possibilità
di lucrare finanziamenti pubblici, di reclamare strade, servizi,
investimenti e soprattutto doveri di Stato», salvo
poi preferire Timisoara piuttosto che Benevento o Enna o Crotone.
Toccati sul vivo, i protagonisti della migrazione di impianti industriali
ribattono agli «agiografi della delocalizzazione come missione»:
in Romania e negli altri Paesi dellEst non cè
solo il Nord-Est italiano, si incontrano altri sistemi economici
nazionali, soprattutto quello tedesco, che detiene il primato della
presenza produttiva (e delle esportazioni). Daltra parte,
aggiungono, quante sono le grandi imprese italiane che da anni,
da decenni hanno articolato il loro ciclo produttivo in unità
e in aziende sparse nel mondo? «Allora non è chiaro
perché la delocalizzazione sia coloniale se realizzata dal
Nord-Est, per diventare segno di forza economica nazionale se effettuata
dalla Germania oppure dalla Gran Bretagna. Né perché
sia legittima, e coerente con le regole della competizione globale,
quando riguarda la Fiat, la Marzotto o la Merloni, mentre indica
scarsa responsabilità nazionale se avviene a opera dei piccoli
imprenditori di Treviso, di Vicenza o di Pordenone».
Sostiene Ilvo Diamanti: un altro problema richiama direttamente
il significato della direzione assunta da questo processo: perché
gli imprenditori del Nord-Est sconfinano ad Oriente
e non investono nelle regioni del Mezzogiorno? Non è, questo,
segno di scarsa responsabilità, di inesistente senso dello
Stato? E risponde: «Rammento appena che esperienze di investimento
nel Mezzogiorno da parte delle imprese del Nord-Est ne sono state
realizzate molte. In alcuni casi con successo. In molti altri, no.
Per ostacoli burocratici. Ma soprattutto per le note difficoltà
di tipo ambientale, relative soprattutto alla sicurezza».
Le mafie meridionali, tanto per cambiare. Argomento non proprio
forte, se fatto da chi opera in aree che una mafia in casa ce lha,
quella del Brenta, vogliamo dire, che alle cosche siciliane, calabresi
e campane ha poco o nulla da invidiare; o quella che importa attraverso
i nostri confini nord-orientali clandestini, droga e tabacco (che
nome mafioso avrà?), sulla quale ancora non si
è fatta luce.
Diverso il discorso, esplicito, sulla missione civica
dellimprenditoria: «Penso che sia difficile chiedere
agli imprenditori, ai piccoli imprenditori in particolare, di agire
per motivi altruisti. Gli imprenditori agiscono sulla
spinta del profitto. Non per il bene comune. Il quale,
più che il fine consapevole, costituisce semmai lesito
complessivo e indiretto, talora involontario, delle loro attività
specifiche. Il vantaggio sociale del sistema di piccola
impresa del Nord-Est, per esempio, deriva dal fatto che la sua diffusione
coinvolge e favorisce molta parte della popolazione. Mentre il vantaggio
nazionale deriva dalla dinamica di mercato, esportazioni,
scambi e di flussi finanziari che esso esprime da anni».
Bel colpo! Stravolta la funzione sociale del lavoro allinterno
dei confini di un Paese, dal quale per decenni si son succhiati
capitali, offrendo in cambio una diffusa evasione ed elusione fiscale
tollerata in nome del clientelismo politico e dellaccumulazione
primitiva e selvaggia del capitale; messa in primo piano la logica
del profitto individuale, avulso da qualsiasi principio etico, sì
e no baluginante da un accennato «non per questo bisogna accettare
o peggio giustificare le dure condizioni che il mercato e i suoi
attori impongono ai lavoratori romeni e delle altre aree dellEst
europeo», subito edulcorato da un «tuttavia, io credo
che gran parte di queste distorsioni contrassegnino soprattutto
la fase davvio, nella quale le imprese impattano su una realtà
statica da anni; disponibile a pagare costi elevati pur di sviluppare
leconomia e, prima ancora, la condizione di indigenza delle
persone e delle famiglie»: che è un capolavoro di elucubrazioni
al servizio dello sfruttamento, che impatta con la fame
e ne approfitta a piene mani (altro che avvio!, è da anni
che questa storia vi si verifica), che rifila per vicina
Timisoara, mentre sarebbero lontane LAquila o Foggia, anche
se non viene trascurata la faccia nera della delocalizzazione,
né resta in ombra la preoccupazione del «compare perfino
un sindacato», né si sottovaluta «la tendenza
(delle imprese del Nord-Est, n.d.r.) a concepire lo Stato in modo
strumentale e distaccato».
E bene che sia così, intendiamoci. Perché sappiamo
con chi e con che cosa si ha a che fare. Ma è altrettanto
bene che lo si dica con chiarezza, senza tanti giri di parole e
senza pseudo-filosofiche opacità. La globalizzazione è
anche questo, o forse soltanto questo. Sicuramente non è
bene comune né missione civica, ma
egoismo secolarizzato, canonizzazione del particulare.
E morte del pensiero umanistico, in nome di unidea materialistica
che è tanto più bieca, e cinica, in quanto viene dallOccidente.
Lo chiamano e sarà anche laboratorio.
Solo che dentro sembra lavorarci il signor Frankenstein.
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