Settembre 2001

EST-NORD-EST CON POLEMICHE

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Timisoara - Romania
ottava provincia veneta
Marino Delgado  
 
 

 

 

 

Sono imprese pronte
a spingersi
più ad Est,
verso la miseria,
e che si ricordano
di essere italiane
solo quando serve.

 

Secondo il Rapporto Einaudi-Lazard, la Romania è ormai diventata l’ottava provincia del Veneto. In pochi anni le imprese italiane hanno creato in questo Paese 150 mila posti di lavoro, che salgono a 500 mila se si tiene conto dell’indotto. Gli studiosi lo considerano un “caso” di delocalizzazione industriale unico nel suo genere: a 1.500 chilometri di distanza, e quindi senza seguire le logiche della “border economic”, ben 9.700 aziende italiane (di cui 5.000 provenienti dal Veneto, dall’Emilia e dal Friuli) hanno deciso di aprire uno stabilimento, attirate dal basso costo del lavoro (200 mila al mese per operaio), ma anche dalle facilitazioni fiscali e dalla scarsa burocrazia.
Il Rapporto, come esempio, cita il recente sbarco di una società calzaturiera che ha investito 30 miliardi per uno stabilimento da duemila posti di lavoro; e la decisione senza precedenti, nel febbraio scorso, da parte dell’Unione Industriali di Treviso, di inaugurare l’anno produttivo proprio a Timisoara. Per gli esperti, l’esperienza rumena è probabilmente ripetibile in altri Paesi, nella logica di ricostruire all’estero il successo del “modello italiano” di distretto industriale.
Le polemiche sono cominciate da questo fenomeno e da questi dati di fatto, e hanno coinvolto numerosi osservatori. La delocalizzazione è ritenuta da costoro una “fuga” delle imprese e dello stesso Nord-Est dall’Italia, visto che si preferisce creare nuovo lavoro e nuove aziende, invece che nel Mezzogiorno, in altri Paesi, dove si trovano condizioni favorevoli alla crescita, disposizione al sacrificio, scarsa sindacalizzazione, dopo che sono state ampiamente sfruttate le opportunità di sviluppo in casa nostra. Sono imprese sempre pronte a spingersi «più ad Est, verso la miseria», e che si ricordano di «essere italiane solo quando serve, cioè quando scorgono la possibilità di lucrare finanziamenti pubblici, di reclamare strade, servizi, investimenti e soprattutto “doveri di Stato”», salvo poi preferire Timisoara piuttosto che Benevento o Enna o Crotone.
Toccati sul vivo, i protagonisti della migrazione di impianti industriali ribattono agli «agiografi della delocalizzazione come missione»: in Romania e negli altri Paesi dell’Est non c’è solo il Nord-Est italiano, si incontrano altri sistemi economici nazionali, soprattutto quello tedesco, che detiene il primato della presenza produttiva (e delle esportazioni). D’altra parte, aggiungono, quante sono le grandi imprese italiane che da anni, da decenni hanno articolato il loro ciclo produttivo in unità e in aziende sparse nel mondo? «Allora non è chiaro perché la delocalizzazione sia coloniale se realizzata dal Nord-Est, per diventare segno di forza economica nazionale se effettuata dalla Germania oppure dalla Gran Bretagna. Né perché sia legittima, e coerente con le regole della competizione globale, quando riguarda la Fiat, la Marzotto o la Merloni, mentre indica scarsa responsabilità nazionale se avviene a opera dei piccoli imprenditori di Treviso, di Vicenza o di Pordenone».

Sostiene Ilvo Diamanti: un altro problema richiama direttamente il significato della direzione assunta da questo processo: perché gli imprenditori del Nord-Est “sconfinano” ad Oriente e non investono nelle regioni del Mezzogiorno? Non è, questo, segno di scarsa responsabilità, di inesistente senso dello Stato? E risponde: «Rammento appena che esperienze di investimento nel Mezzogiorno da parte delle imprese del Nord-Est ne sono state realizzate molte. In alcuni casi con successo. In molti altri, no. Per ostacoli burocratici. Ma soprattutto per le note difficoltà di tipo ambientale, relative soprattutto alla sicurezza».

Le mafie meridionali, tanto per cambiare. Argomento non proprio forte, se fatto da chi opera in aree che una mafia in casa ce l’ha, quella del Brenta, vogliamo dire, che alle cosche siciliane, calabresi e campane ha poco o nulla da invidiare; o quella che importa attraverso i nostri confini nord-orientali clandestini, droga e tabacco (che “nome” mafioso avrà?), sulla quale ancora non si è fatta luce.
Diverso il discorso, esplicito, sulla “missione civica” dell’imprenditoria: «Penso che sia difficile chiedere agli imprenditori, ai piccoli imprenditori in particolare, di agire per motivi “altruisti”. Gli imprenditori agiscono sulla spinta del profitto. Non per il “bene comune”. Il quale, più che il fine consapevole, costituisce semmai l’esito complessivo e indiretto, talora involontario, delle loro attività specifiche. Il vantaggio “sociale” del sistema di piccola impresa del Nord-Est, per esempio, deriva dal fatto che la sua diffusione coinvolge e favorisce molta parte della popolazione. Mentre il vantaggio “nazionale” deriva dalla dinamica di mercato, esportazioni, scambi e di flussi finanziari che esso esprime da anni».
Bel colpo! Stravolta la funzione sociale del lavoro all’interno dei confini di un Paese, dal quale per decenni si son succhiati capitali, offrendo in cambio una diffusa evasione ed elusione fiscale tollerata in nome del clientelismo politico e dell’accumulazione primitiva e selvaggia del capitale; messa in primo piano la logica del profitto individuale, avulso da qualsiasi principio etico, sì e no baluginante da un accennato «non per questo bisogna accettare o peggio giustificare le dure condizioni che il mercato e i suoi attori impongono ai lavoratori romeni e delle altre aree dell’Est europeo», subito edulcorato da un «tuttavia, io credo che gran parte di queste distorsioni contrassegnino soprattutto la fase d’avvio, nella quale le imprese impattano su una realtà statica da anni; disponibile a pagare costi elevati pur di sviluppare l’economia e, prima ancora, la condizione di indigenza delle persone e delle famiglie»: che è un capolavoro di elucubrazioni al servizio dello sfruttamento, che “impatta” con la fame e ne approfitta a piene mani (altro che avvio!, è da anni che questa storia vi si verifica), che rifila per “vicina” Timisoara, mentre sarebbero lontane L’Aquila o Foggia, anche se non viene trascurata la “faccia nera” della delocalizzazione, né resta in ombra la preoccupazione del «compare perfino un sindacato», né si sottovaluta «la tendenza (delle imprese del Nord-Est, n.d.r.) a concepire lo Stato in modo strumentale e distaccato».

E’ bene che sia così, intendiamoci. Perché sappiamo con chi e con che cosa si ha a che fare. Ma è altrettanto bene che lo si dica con chiarezza, senza tanti giri di parole e senza pseudo-filosofiche opacità. La globalizzazione è anche questo, o forse soltanto questo. Sicuramente non è “bene comune” né “missione civica”, ma egoismo secolarizzato, canonizzazione del particulare.
E’ morte del pensiero umanistico, in nome di un’idea materialistica che è tanto più bieca, e cinica, in quanto viene dall’Occidente. Lo chiamano – e sarà anche – “laboratorio”. Solo che dentro sembra lavorarci il signor Frankenstein.

   
   
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