Settembre 2001

LE SCALATE FRANCESI IN ITALIA E NEL MONDO

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French Connection
Furio Beltrami  
 
 

 

 

 

Allora
non si lamentino,
se poi “scoprono”
all’improvviso
che il 20 per cento della più celebre
cassaforte italiana
è finito in mani
straniere.

 

Ha scritto Carlo Bastasin che il grido di dolore non è proprio nuovissimo: «Espropriate gli espropriatori» era infatti lo slogan di Marx nel primo libro del Capitale, dov’era previsto che stesse per scoccare «l’ultim’ora della proprietà privata». E si sa bene che fine ha fatto chi ha attuato – anche facendo ricorso al genocidio – quell’imperativo ideologico.
E tutto questo viene in mente, nel momento in cui si riflette sui modi e sugli argomenti con i quali in Italia politica e industria hanno reagito all’ “esproprio” di Montedison da parte di Edf: modi e argomenti che vanno evidentemente aggiornati. A pensarci bene, sono almeno vent’anni che l’Italia fa fatica ad attirare investimenti esteri di grandi dimensioni. Se fosse riuscita a farlo, e meglio ancora, se avesse espresso la volontà politica di farlo quanto la Gran Bretagna, oggi sarebbe il Paese più ricco d’Europa. E’ appena il caso di ricordare, fra l’altro, che Edf produce energia che costa un terzo di quella italiana: la scalata, dunque, ha giustamente messo pressione (era ora!) su un mondo italiano delle imprese troppo compiaciuto di sé.
Chiariamo subito che il campo di gioco in cui si è presentata la partita non è regolare, nel senso che non è regolato. I princìpi di liberalizzazione dell’energia non vengono applicati da un buon numero di Paesi e i Trattati comunitari sono neutrali rispetto a regimi proprietari pubblici o privati. In un caso o nell’altro, comunque, l’Italia stenta a difendersi: se il mercato francese è liberalizzato soltanto al 30 per cento, il nostro lo è solo al 34 per cento. Se Edf è proprietà del Tesoro di Parigi, Enel è ancora pubblica e Edison gode di tariffe non tutte proprio di mercato!

Quello che è accaduto dimostra le colpe dei governi nazionali che a Nizza e a Stoccolma fecero fallire la liberalizzazione. Fu respinta anche la proposta del premier spagnolo, Aznar, attuata con Edf in Spagna, di togliere i diritti di voto a monopolisti che sbarcano all’estero. L’Europa, però, non vive in un vuoto di legge: la proprietà statale è parente della scarsa liberalizzazione e delle chiusure dei confini. Bruxelles giudica la garanzia, anche implicita, dello Stato come un aiuto pubblico e quindi come una distorsione della concorrenza. Questi sono i princìpi a cui appellarsi. Roma non sarà mai credibile se rinnegherà mezzo secolo di europeismo, per invocare la protezione nazionale di una qualunque impresa.
Sul piano dell’orgoglio nazionale, d’altra parte, la vicenda Montedison ha già molto da insegnare. La scalata è potuta avvenire perché gli azionisti erano deresponsabilizzati da un sistema di controlli societari, intrecciati e oscuri, in cui vige la pratica quotidiana della rissa. In Spagna vale la logica, buona o cattiva, dei “campioni nazionali”: tre gruppi stanno conquistando Europa e America del Sud. La Germania prospera grazie a una ventina di leader industriali e finanziari attivi in tutto il mondo. In Francia cinque grandi gruppi stanno imponendosi perfino negli Stati Uniti d’America. L’Italia è l’unico Paese in cui sulla logica del lasciar fare prevale solo la logica del non lasciar fare a tutti coloro i quali non sono miei amici.

Elettricità, ma non solo. La cosiddetta “French Connection” (la definizione è del Financial Times) che sta investendo gli equilibri dei mercati finanziari di mezzo mondo ha ambizioni che vanno assai al di là della nota “grandeur” francese. Certo, Edf è la punta di diamante del decisionismo e del rigore cartesiano con cui i tecnocrati parigini hanno programmato l’impatto con i mercati globali.
Edf, forte degli enormi margini di vantaggio che garantiscono le 58 centrali nucleari che producono energia a costi inferiori alla concorrenza, ha sferrato un’offensiva che copre la Gran Bretagna (London Electricity), la Germania (Enbw), la Svizzera, e che ha incontrato un primo alt soltanto in Spagna, dove il governo Aznar ha sospeso i diritti di voto del colosso pubblico transalpino in Hidrocantabrico. Ma il dinamismo di Edf, che ha promesso di spostare, entro il 2005, il 50 per cento del fatturato oltre confine, non è sufficiente a rubare spazio agli altri delfini di Francia. Come trascurare la magnifica corsa di Messier, che in meno di cinque anni ha trasformato un’utility di rango, ma un po’ noiosa, come la Générale des Eaux, nel ciclone Vivendi, risposta europea ad Aol, dopo la conquista a Hollywood della Universal?

Negli ultimi tempi Messier, tipico frutto di quella fabbrica di eroi industriali che è l’Ecole Nationale d’Administration, si è aggiudicato Mp3, gettando le basi per il primato della sua Universal nel mondo della musica Internet. E tanto per mettere a profitto la sua trasferta americana, ha gettato le basi per l’acquisto della casa editrice Houghton Mifflin. Il prezzo? Un’occasione, “solo” 1,7 miliardi di dollari. Ma anche Messier stenta a conquistare tutti i giorni un titolo ad effetto sui media parigini. Bisogna fare i conti con Serge Tchuruk, di Alcatel. In meno di sei anni, costui ha trasformato una conglomerata che produceva un po’ di tutto, dalle batterie d’auto ai treni ad alta velocità, in uno dei leader mondiali degli apparati per telecomunicazioni. E negli ultimi tempi le attenzioni sono tutte per lui, visto che ha messo gli occhi (e avviato trattative clamorose) per la fusione e l’acquisizione di Lucent, l’ex gioiello di At&t, una delle bandiere dei primati tecnologici americani.
Gli esempi, a dir la verità, potrebbero durare quasi all’infinito: Air France, forte di un risanamento completato in maniera a dir poco brillante, è dietro l’angolo per l’acquisto (o la partecipazione azionaria consistente) di compagnie aeree europee (Alitalia, in primis); Bernard Arnault guerreggia con un altro grande di Francia, François Pinault, per conquistare prima o poi il controllo di Gucci. Intanto, il tam tam di Piazza Affari dà per certo che il patron di Lvmh (già alleato di Prada) potrebbe concludere l’acquisizione di Prada.
Axa, colosso assicurativo d’Oltralpe, ha intenzione di calare nella Penisola, alla conquista di Generali. La preda è Azimut, uno dei gioielli finanziari della scuderia Bipop (o forse una quota nella stessa banca). Per non parlare della quota in Wind di France Télécom.
Ma da dove trae tanta energia l’onda lunga parigina? Sicuramente, ha il suo peso la tradizionale efficienza della burocrazia statale parigina (oh, burosauri italiani!). Oppure, come sostengono i più schierati in campo finanziario, la massa critica assicurata dal sostegno incondizionato dello Stato ai colossi pubblici o ex monopolisti: France Télécom è ancora sotto il controllo del Tesoro, Edf sta utilizzando ogni pretesto per allontanare l’appuntamento col mercato o l’apertura alla concorrenza. Ma giudizi del genere sono ingenerosi. Vivendi, e soprattutto Alcatel, sono titoli ampiamente diffusi presso i gestori di tutto il pianeta. Arnault, per citare un esempio, è un ottimo caso di governance anglosassone, capace di sottoporsi alla prova della trasparenza.
La Francia, nel suo complesso, si è aperta ai criteri di giudizio richiesti dai mercati globali grazie anche all’efficienza di un sistema bancario che in alcuni casi (Société Générale o Bnp-Paribas) ha saputo sfidare i maestri della City sul loro terreno. E i “moschettieri” francesi sfornati dall’Ena o acquistati col fiuto del talent scout (basti citare la determinazione di Carlos Ghosn spedito in Giappone nella “mission impossible” del risanamento di Nissan) hanno dimostrato talento, coraggio e capacità di rispondere sia ai richiami dello Stato sia a quelli del mercato.
Il segreto, insomma, non sta nella tutela dello Stato francese, che pure ha il suo peso. Con ogni probabilità la formula vincente sta nell’aver capito che la tattica che paga, nel mondo senza frontiere, consiste nel saper andare all’estero e conquistare spazi di mercato. Il “catenaccio”, attorno a Piazzetta Cuccia o altrove, (basti pensare alle storie parallele di Edf ed Enel), non paga. O per dirla tutta: non paga più.

La vicenda Montedison-Electricité de France suggerisce almeno tre considerazioni, che riguardano la Commissione europea, che in questa vicenda ha fatto la figura del vaso di coccio; le scelte che l’Italia dovrà fare nell’immediato futuro; e lo scarso o nullo coraggio dei nostri capitalisti.
Al vertice europeo di Stoccolma, Francia e Germania, prevalendo sulla posizione più liberista di Italia e Spagna, bocciarono una proposta della Commissione per accelerare la liberalizzazione dei mercati dell’energia. Il risultato è che oggi non solo la Francia può rinviare sine die la privatizzazione di EdF (non essendo obbligata da alcuna norma europea), ma EdF può tranquillamente proseguire nella strategia di espansione all’estero finanziata con i profitti del monopolio. E in Germania, dove le società elettriche sono regionali, il mercato continuerà a rimanere chiuso agli investitori esteri, non per legge, ma per la cintura protettiva con la quale il governo tedesco difende i produttori domestici. Così, nella vicenda Montedison-EdF né il commissario alla concorrenza né quello per l’energia dispongono di alcun potere per bloccare l’ingresso in Italia del monopolista pubblico transalpino. Anzi, se EdF partecipasse direttamente all’asta per la vendita delle centrali elettriche dell’Enel, e venisse esclusa proprio per il suo carattere pubblico (come le regole dell’asta prevedono), il commissario Monti si vedrebbe costretto ad aprire una procedura di infrazione contro il governo italiano, accusandolo di impedire la libera circolazione dei capitali.

La seconda considerazione è che la politica estera conta ancora, anche nelle questioni economiche e anche in Europa. Dovrà tenerne conto la Farnesina, che dovrà essere abile negoziatrice ed esperta nel sottile gioco delle diplomazie.
L’ultima considerazione, che purtroppo non è una novità: i privati italiani avrebbero potuto lanciare un’Opa per rafforzare la loro presenza sul mercato elettrico nazionale. E, a sentire alcune voci, ci avrebbero pensato: un’Opa su Montedison, ma lanciata dall’Eni, cioè con i denari dei contribuenti! Il che la dice lunga sul coraggio di chi preferisce portare all’estero una buona parte delle proprie attività, e pagare 200 mila lire al mese un operaio rumeno o ungherese, albanese o turco, piuttosto che investire in Italia o nel Mezzogiorno. E’ la legge del mercato, è vero. Ma allora non si lamentino, se poi “scoprono” all’improvviso che il 20 per cento della più celebre cassaforte italiana è finito in mani straniere! Abbiano almeno il pudore di smetterla con i loro ipocriti moralismi.

   
   
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