Settembre 2001

DA CHE PULPITO...

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Teutonici magliari
Beta  
 
 

 

 

 

Sprezzante del
senso del ridicolo,
il magazine
se la prende con
i prodotti tipici
della Penisola.

 

Anni fa risalivo il Reno insieme con un gruppo di inviati speciali italiani e stranieri. Giunti alle scogliere di Lorelei, la ninfa del fiume (celebrata da Heine con una ballata, Ich weiss nicht, was es bedeuten, poi messa in musica popolare da Silcher) che col suo canto attirava i marinai, facendoli naufragare, sbarcammo a riva, raggiungendo un antico convento che, abbandonato per mancanza di frati, era stato perfettamente restaurato e trasformato in un centro di ricerca enologica. Qui, il direttore, dopo gli assaggi di rito dei vini prodotti, in realtà abbastanza liquorosi, orgogliosamente ci informò sull’origine delle uve utilizzate dai suoi mastri vinattieri: «Questi ceppi che vedete allineati sulle sponde scoscese del Reno – pontificò – sono le uniche vigne romane esistenti al mondo, perché furono portate qui dai legionari dell’Urbe e sono rimaste immuni da malattie. Le italiane, invece, hanno conosciuto la fillossera in due tempi successivi, e quelle che si sono salvate dal fuoco devono la sopravvivenza agli innesti con la vite americana».

Sgomenti, non sapemmo che ribattere. Ripreso poi il battello, sulla via del ritorno ci ripromettemmo in due, io e l’indimenticabile Sergio Telmon, allora corrispondente della Rai da Washington, di approfondire la questione, un po’ perché lui emiliano e io salentino fra uve e vigne avevamo passato una vita, un po’ di più perché non ci andava giù l’esclusiva vignesco-romana rivendicata dall’enologo renano.
Trascorsero altri anni, durante i quali né io né Telmon perdemmo di vista questa storia. E se lui centellinò storie e leggende di lambrusco e di sangiovese, io ne conobbi di rosso di Troia, di primitivo e di negro-amaro, compresa la “frezza etrusca” del bianco di Alessano, con annessa differenza fra “vinum” e “merum”. Fino al giorno in cui incontrai Telmon in California, a San Diego. E lì, memori dell’oltraggio, decidemmo di tirare le somme delle nostre ricerche. Ci recammo dunque agli archivi di Stato, ed emerse la verità. Ancora alla fine del XV secolo si moriva in massa per epidemie e per carestie. Dopo la scoperta dell’America, si continuò a morire parecchio per varie pestilenze, ma molto meno per fame. Perché dalle Americhe l’Europa, ancora ombelico del mondo, aveva importato il mais, trentasei tipi diversi e tutti evoluti di patate, i fagioli, il pomodoro, e altro ancora. Ma non le vigne. Era stata una famiglia di pugliesi emigrati nel Nuovo Mondo a portarsi dietro le “barbatelle” e a impiantarle nella Hota Valley, diffondendole poi negli Stati del Sud, dove si erano rinvigorite con i venti freddi del Pacifico e con quelli caldo-umidi dei Caraibi. La cosiddetta vite americana, allora, altro non era stata che la figlia naturale tornata a ridare linfa e vita all’antica madre, butterata dalla fillossera. L’enologo tedesco fu servito con una lettera esaustivamente chiarificatrice.

L’episodio mi è tornato in mente, ravvivandomi uno straordinario sdegno patriottico, quando ho avuto tra le mani Stern, il giornale tedesco che, evidentemente a corto di idee, e deluso dalle forsennate campagne con le quali vorrebbe dissuadere le famiglie germaniche dal trascorrere le ferie fra le rive romagnole, ha aperto un nuovo fronte conflittuale, che sempre l’Italia ha come obiettivo: quello di una sorta di Gesund Essen, ovvero, più o meno, del Mangiar Sano. Sprezzante del senso del ridicolo, il magazine se la prende con i prodotti tipici della Penisola, con i mitici spaghetti, con le fragole, con l’altrettanto mitica mozzarella, con gli yogurt, con i formaggi... Irradiato il nostro grano duro, irrorate le fragole, impazziti i derivati del latte.
Che cosa gli può andar bene? Se non i nostri prodotti, i loro crauti? E se poi appurano che i crauti li hanno “inventati” proprio i legionari romani che andavano a combattere in terre fredde e lontane, che faranno, li inscriveranno nelle loro futili liste di proscrizione? Futili, perché non c’è barba di tedesco che, giunto in Italia, presti un minimo di attenzione ai cacciaballe di Amburgo e alla loro spenta rivista. Semmai, stanno attenti ai falsi nei quali i magliari teutonici si stanno specializzando. Per chiarire: le mozzarelle di bufala del nostro Sud stanno fianco a fianco con quelle confezionate in Baviera, che però esibiscono una clamorosa striscia tricolore, mentre in caratteri microscopici siamo informati che sono “Made in Germany”. Così per il parmigiano, per il pecorino, per gli spaghetti di grano duro: tutto in buste e sacchettini attraversati dai colori bianco-rosso-verde, con l’indicazione semi-clandestina “made in” esiliata in un angolo ed espressa in corpo 6, buono solo per chi ha dieci decimi di vista.

Hanno la memoria corta, i tedeschi. Sapore, odore e colore di succhi e marmellate vengono fuori dai loro laboratori chimici. E quando è impiegato un loro prodotto naturale, lo è sempre in quantità minime. Nello yogurt di un noto gruppo alimentare germanico, su 100 grammi complessivi, gli analisti (tedeschi) hanno trovato 0,1 milligrammi di vitamina C e 10,8 grammi di frutta. La frutta artificiale tedesca (chimica pura, cioè plastica) è protetta da un regolare brevetto (numero DE 2167271 C2). La birra tedesca che ha più di cinque mesi è zeppa di conservanti chimici. E di che cosa è fatto il celeberrimo würstel? In massima parte di farina di ghiande, di soja, di interiora di vari animali. La vera e propria carne di maiale raramente supera l’11 per cento del peso del prodotto. Al colore e al sapore, tanto per cambiare, provvedono i camici bianchi dei laboratori.
Tutti diavoli i tedeschi, tutti santi gli italiani? Niente affatto. Ma noi, quanto meno, non ci sogniamo di spingere al boicottaggio dei würstel e della senape. Ci teniamo, ed esportiamo nel mondo, le nostre mozzarelle e le nostre pizze, i nostri vini e i nostri formaggi, la nostra frutta primaticcia e i nostri divini spaghetti che non basta saper bollire al dente, ma anche saper condire col profumo della cipolla di Barletta o di Tropea, con la polpa dei Pachino o dei San Marzano, con le foglie di basilico ligure o greco o pazzo, con una spolverata di parmigiano-reggiano per chi gradisce, e magari con una buona compagnia. E tutto questo i tedeschi lo trovano esclusivamente in Italia, non in Germania. Stern, come forse alcuni ricorderanno, perse e non recuperò mai mezzo milione di copie rifilando per autentici i falsi diari di Hitler. Ora tenta di sfruttare le paure di mucca pazza e dei geni modificati. Ma neanche i suoi lettori dimenticano: le bufale amburghesi sono più indigeste delle mozzarelle di Baviera.

   
   
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