Sprezzante del
senso del ridicolo,
il magazine
se la prende con
i prodotti tipici
della Penisola.
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Anni fa risalivo il Reno insieme con un gruppo di inviati speciali
italiani e stranieri. Giunti alle scogliere di Lorelei, la ninfa
del fiume (celebrata da Heine con una ballata, Ich weiss nicht,
was es bedeuten, poi messa in musica popolare da Silcher) che col
suo canto attirava i marinai, facendoli naufragare, sbarcammo a
riva, raggiungendo un antico convento che, abbandonato per mancanza
di frati, era stato perfettamente restaurato e trasformato in un
centro di ricerca enologica. Qui, il direttore, dopo gli assaggi
di rito dei vini prodotti, in realtà abbastanza liquorosi,
orgogliosamente ci informò sullorigine delle uve utilizzate
dai suoi mastri vinattieri: «Questi ceppi che vedete allineati
sulle sponde scoscese del Reno pontificò sono
le uniche vigne romane esistenti al mondo, perché furono
portate qui dai legionari dellUrbe e sono rimaste immuni da
malattie. Le italiane, invece, hanno conosciuto la fillossera in
due tempi successivi, e quelle che si sono salvate dal fuoco devono
la sopravvivenza agli innesti con la vite americana».
Sgomenti, non sapemmo che ribattere. Ripreso poi il battello, sulla
via del ritorno ci ripromettemmo in due, io e lindimenticabile
Sergio Telmon, allora corrispondente della Rai da Washington, di
approfondire la questione, un po perché lui emiliano
e io salentino fra uve e vigne avevamo passato una vita, un po
di più perché non ci andava giù lesclusiva
vignesco-romana rivendicata dallenologo renano.
Trascorsero altri anni, durante i quali né io né Telmon
perdemmo di vista questa storia. E se lui centellinò storie
e leggende di lambrusco e di sangiovese, io ne conobbi di rosso
di Troia, di primitivo e di negro-amaro, compresa la frezza
etrusca del bianco di Alessano, con annessa differenza fra
vinum e merum. Fino al giorno in cui incontrai
Telmon in California, a San Diego. E lì, memori delloltraggio,
decidemmo di tirare le somme delle nostre ricerche. Ci recammo dunque
agli archivi di Stato, ed emerse la verità. Ancora alla fine
del XV secolo si moriva in massa per epidemie e per carestie. Dopo
la scoperta dellAmerica, si continuò a morire parecchio
per varie pestilenze, ma molto meno per fame. Perché dalle
Americhe lEuropa, ancora ombelico del mondo, aveva importato
il mais, trentasei tipi diversi e tutti evoluti di patate, i fagioli,
il pomodoro, e altro ancora. Ma non le vigne. Era stata una famiglia
di pugliesi emigrati nel Nuovo Mondo a portarsi dietro le barbatelle
e a impiantarle nella Hota Valley, diffondendole poi negli Stati
del Sud, dove si erano rinvigorite con i venti freddi del Pacifico
e con quelli caldo-umidi dei Caraibi. La cosiddetta vite americana,
allora, altro non era stata che la figlia naturale tornata a ridare
linfa e vita allantica madre, butterata dalla fillossera.
Lenologo tedesco fu servito con una lettera esaustivamente
chiarificatrice.
Lepisodio mi è tornato in mente, ravvivandomi uno
straordinario sdegno patriottico, quando ho avuto tra le mani Stern,
il giornale tedesco che, evidentemente a corto di idee, e deluso
dalle forsennate campagne con le quali vorrebbe dissuadere le famiglie
germaniche dal trascorrere le ferie fra le rive romagnole, ha aperto
un nuovo fronte conflittuale, che sempre lItalia ha come obiettivo:
quello di una sorta di Gesund Essen, ovvero, più o meno,
del Mangiar Sano. Sprezzante del senso del ridicolo, il magazine
se la prende con i prodotti tipici della Penisola, con i mitici
spaghetti, con le fragole, con laltrettanto mitica mozzarella,
con gli yogurt, con i formaggi... Irradiato il nostro grano duro,
irrorate le fragole, impazziti i derivati del latte.
Che cosa gli può andar bene? Se non i nostri prodotti, i
loro crauti? E se poi appurano che i crauti li hanno inventati
proprio i legionari romani che andavano a combattere in terre fredde
e lontane, che faranno, li inscriveranno nelle loro futili liste
di proscrizione? Futili, perché non cè barba
di tedesco che, giunto in Italia, presti un minimo di attenzione
ai cacciaballe di Amburgo e alla loro spenta rivista. Semmai, stanno
attenti ai falsi nei quali i magliari teutonici si stanno specializzando.
Per chiarire: le mozzarelle di bufala del nostro Sud stanno fianco
a fianco con quelle confezionate in Baviera, che però esibiscono
una clamorosa striscia tricolore, mentre in caratteri microscopici
siamo informati che sono Made in Germany. Così
per il parmigiano, per il pecorino, per gli spaghetti di grano duro:
tutto in buste e sacchettini attraversati dai colori bianco-rosso-verde,
con lindicazione semi-clandestina made in esiliata
in un angolo ed espressa in corpo 6, buono solo per chi ha dieci
decimi di vista.
Hanno la memoria corta, i tedeschi. Sapore, odore e colore di succhi
e marmellate vengono fuori dai loro laboratori chimici. E quando
è impiegato un loro prodotto naturale, lo è sempre
in quantità minime. Nello yogurt di un noto gruppo alimentare
germanico, su 100 grammi complessivi, gli analisti (tedeschi) hanno
trovato 0,1 milligrammi di vitamina C e 10,8 grammi di frutta. La
frutta artificiale tedesca (chimica pura, cioè plastica)
è protetta da un regolare brevetto (numero DE 2167271 C2).
La birra tedesca che ha più di cinque mesi è zeppa
di conservanti chimici. E di che cosa è fatto il celeberrimo
würstel? In massima parte di farina di ghiande, di soja, di
interiora di vari animali. La vera e propria carne di maiale raramente
supera l11 per cento del peso del prodotto. Al colore e al
sapore, tanto per cambiare, provvedono i camici bianchi dei laboratori.
Tutti diavoli i tedeschi, tutti santi gli italiani? Niente affatto.
Ma noi, quanto meno, non ci sogniamo di spingere al boicottaggio
dei würstel e della senape. Ci teniamo, ed esportiamo nel mondo,
le nostre mozzarelle e le nostre pizze, i nostri vini e i nostri
formaggi, la nostra frutta primaticcia e i nostri divini spaghetti
che non basta saper bollire al dente, ma anche saper condire col
profumo della cipolla di Barletta o di Tropea, con la polpa dei
Pachino o dei San Marzano, con le foglie di basilico ligure o greco
o pazzo, con una spolverata di parmigiano-reggiano per chi gradisce,
e magari con una buona compagnia. E tutto questo i tedeschi lo trovano
esclusivamente in Italia, non in Germania. Stern, come forse alcuni
ricorderanno, perse e non recuperò mai mezzo milione di copie
rifilando per autentici i falsi diari di Hitler. Ora tenta di sfruttare
le paure di mucca pazza e dei geni modificati. Ma neanche i suoi
lettori dimenticano: le bufale amburghesi sono più indigeste
delle mozzarelle di Baviera.
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