Se il mondo
economico
è diventato globale, il mondo politico non lo è affatto.
Questa è la grande contraddizione
del nostro tempo.
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Cè chi dice che si tratti di una sorta di sindrome
da immunodeficienza, che se invece di un continente (sia pure ancora
dimezzato) si trattasse di un essere umano, a Eurolandia sarebbe
diagnosticata la peste del nostro secolo, perché subisce
con estrema facilità, quasi non avesse gli anticorpi necessari,
ogni virus economico e finanziario che infesti il sistema globale.
Cè crisi in Asia, e le Borse europee crollano prima
e peggio di quella americana. La crisi si delinea in America, e
la crescita europea rallenta visibilmente, malgrado gli stimoli
fiscali decisi per tener su i suoi consumi. Aumenta alla fonte il
prezzo del greggio, e i suoi indici di prezzo acquistano una velocità
inusitata, continuando a salire per un lungo periodo di tempo. Eurolandia,
insomma, importa tutte le difficoltà planetarie, aggiungendovi
ovviamente le proprie, dalla mucca pazza allafta epizootica,
dalla persistenza di unalta disoccupazione (8,5 per cento,
in media) alle migrazioni non controllate, fino a fenomeni imprevedibili,
come quello degli operai tedeschi che hanno cominciato ad emigrare,
raggiungendo preferibilmente la vicina Olanda.
E stato sottolineato come oggi la combinazione di inflazione
in salita ed economia in netta frenata non potrebbe essere peggiore,
ed è molto difficile da gestire per la politica economica.
Il rallentamento richiederebbe un rilancio, con tassi più
bassi e tagli nelle tasse, compensati da minori spese pubbliche.
Ma i primi sono tenuti su dalla guardia alta che la Banca centrale
europea deve mantenere contro il ritmo di crescita dei prezzi; e
i secondi sono ostacolati dal rapido peggioramento dei bilanci statali,
indotto dalla debolezza della crescita. Per di più, si è
invertita la consueta relazione tra crescita e inflazione: di solito
la prima, quando è esuberante, induce la seconda, che è
quindi un sintomo di eccesso di salute; ora, invece, è laumento
del carovita a erodere il potere dacquisto e a rallentare
la domanda.
Vista in filigrana, eliminando cioè gli effetti diretti e
indiretti degli aumenti di prezzo della benzina e della carne, linflazione
in Eurolandia è ancora mediamente inferiore all1,5
per cento. Peccato, però, che quella osservata sia più
che doppia, e che su questa misura rischino di modellarsi aspettative
e comportamenti.
La sostanza è che il processo inflattivo è ancora
a uno stadio iniziale: dal rialzo dei costi si è passati
al ritocco dei prezzi, in particolare dei servizi, dove minore è
lesposizione alla concorrenza estera. Ma finita la catena
di concause (anche se il petrolio ha raggiunto prezzi preoccupanti),
in autunno la dinamica dei prezzi potrebbe tornare a flettere sotto
il 2,5 per cento, anche se nel frattempo potrebbero mettersi in
moto rincorse salariali, in particolare nelle aree di piena occupazione
(Italia del Nord, Germania, nazioni più piccole).
Terapia possibile, lunica efficace, la liberalizzazione a
livello interno e sovranazionale, che combina insieme minore inflazione
e più alta crescita. Con effetti, dunque, esattamente contrari
a quelli della perversa combinazione che oggi opera in Eurolandia.
Barriere ideologiche di antico stampo e interessi contingenti rendono
improbabile ogni riforma che allarghi gli spazi del mercato regolato.
E quindi non cè da stupirsi se di fronte alle imbarazzanti
frenate e vischiosità della politica economica i mercati
applicano la loro reazione, la loro cura, continuando a condannare
leuro di unEuropa dargilla a nuovi scivoloni,
che aggravano linflazione e confermano che la ripresa sarà
ancora una volta tirata dallesterno, e non potrà che
essere blanda.
Ed è contro questEuropa che, a 76 anni suonati, si
scaglia con una dura requisitoria Margaret Thatcher. La Lady di
ferro, che guidò i conservatori del Regno Unito alla vittoria
in tre successive legislature, sebbene pensionata, rianima il dibattito
politico, accusando il leader dei laburisti di ambiguità:
«Se accetti la moneta unica, rinunci alla tua indipendenza
e alla tua sovranità. Il pensiero che possiamo essere assorbiti
dallEuropa è ripugnante e combatterò contro
questa prospettiva finchè avrò fiato», ha dichiarato
linossidabile Maggie al Daily Mail, aggiungendo a proposito
del Vecchio Continente: «LEuropa è sempre stata
la causa dei nostri guai, non la fonte delle nostre soluzioni».
Ingeneroso il pensiero della Thatcher, tagliente il giudizio che
su di lei ha espresso Henry Kissinger: «Lady Thatcher ha trascinato
il partito laburista verso le sue posizioni, sradicandolo dalla
sinistra e portandolo al centro, mutando lintero panorama
politico del suo Paese. Paradossalmente, adesso le differenze tra
destra e sinistra inglesi sono minime».
Altro modo di guardare allEuropa, quello dellex segretario
di Stato americano ai tempi di Nixon e di Ford. Non cè
tensione fra Stati Uniti ed Europa, sostiene: «Cè
solo stress, ma gli Usa non ne sono i maggiori responsabili. Lamministrazione
Clinton era vittima della sindrome del Vietnam e non amava le istituzioni
sorte durante la Guerra Fredda, come la Nato. Preferiva il multilateralismo
alle scelte di Washington. Lamministrazione Bush è
composta da uomini che vengono dalla Guerra Fredda e da ministri
maturati invece quando già il trauma del Vietnam era assorbito.
Sono cresciuti in una stagione di grandi successi per la politica
americana e possono trovarsi a disagio con i coetanei europei».
In questo senso, ci conferma, «le critiche europee agli americani
sono tattiche, non strategiche. E vero che qualche volta dalla
Casa Bianca viene un messaggio troppo immediato, non perfettamente
levigato; ma è anche vero che la sola strada resta il dialogo:
non vedo alternative. Spesso gli europei, per affermare la propria
identità, non trovano altro mezzo che criticare gli americani.
Ma credetemi: la nuova amministrazione americana vuole cooperare
con lUnione europea. Ma mentre per Washington è facile
discutere con la Francia, lItalia o la Gran Bretagna, discutere
con lUnione è difficile. Perché lUnione
europea manca di centro, talvolta non si sa con chi negoziare, finché
non è stata raggiunta una decisione: e a quel punto è
troppo tardi. Io sono nato in Europa, in Germania, e se nella mia
formazione si trovano elementi europei sono lusingato. Ho passato
la vita cercando la cooperazione politica tra i due continenti.
Oggi, con preoccupazione, la vedo declinare. LAlleanza atlantica
è considerata una semplice rete di sicurezza, non un sistema
di valori coeso. E lAmministrazione americana è dunque
tentata di guardare allarea del Pacifico più che allAtlantico».
Kissinger è luomo che ha elevato il Cardinal Richelieu
a padrino della moderna politica estera, cultore della ragion di
Stato, lo statista che ha scritto: «Gli interessi nazionali
non si fondano sullaltruismo», perché «il
Paese che basa la politica estera sulla perfezione morale non otterrà
né perfezione né sicurezza». E severo
con la sua filosofia della Realpolitik. Che vede la crisi di Europa
e America in due fatti contemporanei e in un antico vizio. I due
fatti: se esiste il popolo di Seattle, è perché
le proteste derivano anche dal nostro modello di vita occidentale.
Noi offriamo ai nostri ragazzi soltanto materialismo e competizione.
Abbiamo dimenticato i valori spirituali, gli ideali, e lasciamo
che parte della nostra gioventù cada preda del nichilismo.
Poi: dobbiamo convivere col mercato globale, è un fatto quotidiano,
crea lavoro. Ma se il mondo economico è diventato globale,
il mondo politico non lo è affatto. E questa è la
grande contraddizione del nostro tempo.
E il vizio storico: la civiltà occidentale ha raggiunto grandi
traguardi ideali nella storia umana, ma ha sempre avuto una debolezza,
fin dai tempi dei Greci: le rivalità interne possono scatenare
guerre e devastazioni. Quando il mondo occidentale rivolge la propria
energia contro se stesso, è lora delle distruzioni.
Questo è un pericolo reale che sta di fronte a noi, se non
creeremo identità politica e morale, economica e culturale,
e dunque unità continentale.
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