Settembre 2001

EUROPA D’ARGILLA?

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Quale identità
Fabrizio Lancetti  
 
 

 

 

 

Se il mondo
economico
è diventato globale, il mondo politico non lo è affatto. Questa è la grande contraddizione
del nostro tempo.

 

C’è chi dice che si tratti di una sorta di sindrome da immunodeficienza, che se invece di un continente (sia pure ancora dimezzato) si trattasse di un essere umano, a Eurolandia sarebbe diagnosticata la peste del nostro secolo, perché subisce con estrema facilità, quasi non avesse gli anticorpi necessari, ogni virus economico e finanziario che infesti il sistema globale. C’è crisi in Asia, e le Borse europee crollano prima e peggio di quella americana. La crisi si delinea in America, e la crescita europea rallenta visibilmente, malgrado gli stimoli fiscali decisi per tener su i suoi consumi. Aumenta alla fonte il prezzo del greggio, e i suoi indici di prezzo acquistano una velocità inusitata, continuando a salire per un lungo periodo di tempo. Eurolandia, insomma, importa tutte le difficoltà planetarie, aggiungendovi ovviamente le proprie, dalla mucca pazza all’afta epizootica, dalla persistenza di un’alta disoccupazione (8,5 per cento, in media) alle migrazioni non controllate, fino a fenomeni imprevedibili, come quello degli operai tedeschi che hanno cominciato ad emigrare, raggiungendo preferibilmente la vicina Olanda.
E’ stato sottolineato come oggi la combinazione di inflazione in salita ed economia in netta frenata non potrebbe essere peggiore, ed è molto difficile da gestire per la politica economica. Il rallentamento richiederebbe un rilancio, con tassi più bassi e tagli nelle tasse, compensati da minori spese pubbliche. Ma i primi sono tenuti su dalla guardia alta che la Banca centrale europea deve mantenere contro il ritmo di crescita dei prezzi; e i secondi sono ostacolati dal rapido peggioramento dei bilanci statali, indotto dalla debolezza della crescita. Per di più, si è invertita la consueta relazione tra crescita e inflazione: di solito la prima, quando è esuberante, induce la seconda, che è quindi un sintomo di eccesso di salute; ora, invece, è l’aumento del carovita a erodere il potere d’acquisto e a rallentare la domanda.
Vista in filigrana, eliminando cioè gli effetti diretti e indiretti degli aumenti di prezzo della benzina e della carne, l’inflazione in Eurolandia è ancora mediamente inferiore all’1,5 per cento. Peccato, però, che quella osservata sia più che doppia, e che su questa misura rischino di modellarsi aspettative e comportamenti.

La sostanza è che il processo inflattivo è ancora a uno stadio iniziale: dal rialzo dei costi si è passati al ritocco dei prezzi, in particolare dei servizi, dove minore è l’esposizione alla concorrenza estera. Ma finita la catena di concause (anche se il petrolio ha raggiunto prezzi preoccupanti), in autunno la dinamica dei prezzi potrebbe tornare a flettere sotto il 2,5 per cento, anche se nel frattempo potrebbero mettersi in moto rincorse salariali, in particolare nelle aree di piena occupazione (Italia del Nord, Germania, nazioni più piccole).
Terapia possibile, l’unica efficace, la liberalizzazione a livello interno e sovranazionale, che combina insieme minore inflazione e più alta crescita. Con effetti, dunque, esattamente contrari a quelli della perversa combinazione che oggi opera in Eurolandia. Barriere ideologiche di antico stampo e interessi contingenti rendono improbabile ogni riforma che allarghi gli spazi del mercato regolato. E quindi non c’è da stupirsi se di fronte alle imbarazzanti frenate e vischiosità della politica economica i mercati applicano la loro reazione, la loro cura, continuando a condannare l’euro di un’Europa d’argilla a nuovi scivoloni, che aggravano l’inflazione e confermano che la ripresa sarà ancora una volta tirata dall’esterno, e non potrà che essere blanda.

Ed è contro quest’Europa che, a 76 anni suonati, si scaglia con una dura requisitoria Margaret Thatcher. La Lady di ferro, che guidò i conservatori del Regno Unito alla vittoria in tre successive legislature, sebbene pensionata, rianima il dibattito politico, accusando il leader dei laburisti di ambiguità: «Se accetti la moneta unica, rinunci alla tua indipendenza e alla tua sovranità. Il pensiero che possiamo essere assorbiti dall’Europa è ripugnante e combatterò contro questa prospettiva finchè avrò fiato», ha dichiarato l’inossidabile Maggie al Daily Mail, aggiungendo a proposito del Vecchio Continente: «L’Europa è sempre stata la causa dei nostri guai, non la fonte delle nostre soluzioni».
Ingeneroso il pensiero della Thatcher, tagliente il giudizio che su di lei ha espresso Henry Kissinger: «Lady Thatcher ha trascinato il partito laburista verso le sue posizioni, sradicandolo dalla sinistra e portandolo al centro, mutando l’intero panorama politico del suo Paese. Paradossalmente, adesso le differenze tra destra e sinistra inglesi sono minime».
Altro modo di guardare all’Europa, quello dell’ex segretario di Stato americano ai tempi di Nixon e di Ford. Non c’è tensione fra Stati Uniti ed Europa, sostiene: «C’è solo stress, ma gli Usa non ne sono i maggiori responsabili. L’amministrazione Clinton era vittima della sindrome del Vietnam e non amava le istituzioni sorte durante la Guerra Fredda, come la Nato. Preferiva il multilateralismo alle scelte di Washington. L’amministrazione Bush è composta da uomini che vengono dalla Guerra Fredda e da ministri maturati invece quando già il trauma del Vietnam era assorbito. Sono cresciuti in una stagione di grandi successi per la politica americana e possono trovarsi a disagio con i coetanei europei».
In questo senso, ci conferma, «le critiche europee agli americani sono tattiche, non strategiche. E’ vero che qualche volta dalla Casa Bianca viene un messaggio troppo immediato, non perfettamente levigato; ma è anche vero che la sola strada resta il dialogo: non vedo alternative. Spesso gli europei, per affermare la propria identità, non trovano altro mezzo che criticare gli americani. Ma credetemi: la nuova amministrazione americana vuole cooperare con l’Unione europea. Ma mentre per Washington è facile discutere con la Francia, l’Italia o la Gran Bretagna, discutere con l’Unione è difficile. Perché l’Unione europea manca di centro, talvolta non si sa con chi negoziare, finché non è stata raggiunta una decisione: e a quel punto è troppo tardi. Io sono nato in Europa, in Germania, e se nella mia formazione si trovano elementi europei sono lusingato. Ho passato la vita cercando la cooperazione politica tra i due continenti. Oggi, con preoccupazione, la vedo declinare. L’Alleanza atlantica è considerata una semplice rete di sicurezza, non un sistema di valori coeso. E l’Amministrazione americana è dunque tentata di guardare all’area del Pacifico più che all’Atlantico».
Kissinger è l’uomo che ha elevato il Cardinal Richelieu a padrino della moderna politica estera, cultore della ragion di Stato, lo statista che ha scritto: «Gli interessi nazionali non si fondano sull’altruismo», perché «il Paese che basa la politica estera sulla perfezione morale non otterrà né perfezione né sicurezza». E’ severo con la sua filosofia della Realpolitik. Che vede la crisi di Europa e America in due fatti contemporanei e in un antico vizio. I due fatti: se esiste il “popolo di Seattle”, è perché le proteste derivano anche dal nostro modello di vita occidentale. Noi offriamo ai nostri ragazzi soltanto materialismo e competizione. Abbiamo dimenticato i valori spirituali, gli ideali, e lasciamo che parte della nostra gioventù cada preda del nichilismo.
Poi: dobbiamo convivere col mercato globale, è un fatto quotidiano, crea lavoro. Ma se il mondo economico è diventato globale, il mondo politico non lo è affatto. E questa è la grande contraddizione del nostro tempo.
E il vizio storico: la civiltà occidentale ha raggiunto grandi traguardi ideali nella storia umana, ma ha sempre avuto una debolezza, fin dai tempi dei Greci: le rivalità interne possono scatenare guerre e devastazioni. Quando il mondo occidentale rivolge la propria energia contro se stesso, è l’ora delle distruzioni. Questo è un pericolo reale che sta di fronte a noi, se non creeremo identità politica e morale, economica e culturale, e dunque unità continentale.

   
   
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