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In un quadro mondiale contrassegnato
da spinte contrastanti, che è indispensabile conoscere per
capire i singoli Paesi, anche lItalia sta cambiando, ma forse
non abbastanza. Gli economisti di Einaudi-Lazard non nascondono
lottimismo di fondo sulle capacità italiane di ripresa,
ma sottolineano anche che «il rilancio è difficile».
Come quasi sempre, «i dati economici si prestano a diverse
letture, ma due cose non si possono dire: che leconomia italiana
sia peggiorata (dal 97 in poi è andata sempre meglio),
e che lItalia sia un Paese allo sfascio».
Il rallentamento della crescita tra il 1992 e il 2000, vale a dire
nel periodo dellaffermazione delleconomia globale di
mercato, ha cancellato il vantaggio nei confronti degli altri Paesi
avanzati accumulato negli ultimi ventotto anni. Ma il processo di
risanamento negli anni Novanta è stato di portata eccezionale,
e proprio a questo si deve in parte la lenta andatura di marcia.
Il punto è: la debolezza italiana degli anni Novanta va considerata
un aggiustamento necessario e in via di superamento, oppure è
il risultato di una condizione strutturale e quindi destinata a
permanere o addirittura ad aggravarsi?
Per gli studiosi, il male italiano si chiama bassa crescita
e competitività calante. La struttura produttiva è
statica, con una specializzazione incentrata sui beni tradizionali,
pochi dei quali ad elevato valore aggiunto: «Per grandi comparti,
pressoché tutto ciò che lItalia produce ed esporta
allinizio del nuovo secolo, soprattutto nel made in Italy,
e nel settore meccanico, era già presente nelle esportazioni
ventanni fa». Le capacità innovative sono penalizzate
dalle carenze del sistema di istruzione, dalle difficoltà
frapposte dallamministrazione pubblica e dal soffocante sistema
di permessi» messo in atto, dai costi finanziari per le Pmi,
ancora superiori alla media europea, dalle insufficienze del sistema
dei trasporti e della ricerca. Oltre che dalla rigidità del
mercato del lavoro che «si paga non solo con la crescita dei
lavori atipici, ma anche con quella delleconomia irregolare».
Malgrado tutto ciò, i segnali positivi non mancano. Il più
significativo è la riorganizzazione finanziaria e imprenditoriale:
dal miglioramento tecnico-organizzativo del mercato borsistico allirrobustimento
del listino, alla riorganizzazione del sistema bancario. Anche a
livello di imprese globali la presenza è limitata ma in crescita.
Non solo. Cresce anche la proiezione internazionale, in particolare
tra le piccole e medie imprese. E nel frattempo lItalia è
diventata il primo esportatore in sette Paesi (erano tre nel 94)
e ha allargato la propria presenza nellarea del Mediterraneo
e nellEuropa orientale. E di questo dovrà tener conto
la nostra politica estera.
Ma anche la grande euforia della globalizzazione sembra incrinarsi:
dopo la crisi asiatica del 97-98, «i benefici
marginali di un ulteriore aumento della globalizzazione cominciano
ad essere controbilanciati dai costi marginali». Mentre si
fa strada «lesigenza di governare la globalizzazione,
troppo importante per essere lasciata in balia delle forze di mercato»,
alla luce soprattutto di unevoluzione «stentata»
delle istituzioni internazionali, dal Fondo monetario alla Banca
mondiale, al Wto. Le imprese, intanto, sono impegnate in un processo
di rapidissimo consolidamento, che si attua con unondata di
fusioni e acquisizioni che ha raggiunto dimensioni impressionanti:
nel 2000, solo negli Stati Uniti si sono superati i diecimila casi.
LEuropa, dal canto suo, non è poi così debole:
«Noi tutti siamo stati condizionati da una sorta di illusione
ottica legata al cambio delleuro, e questo ha portato a sopravvalutare
le difficoltà».
Ma le avvisaglie di instabilità internazionale comparse alla
fine dellanno scorso rischiano di mettere in difficoltà
lItalia, più fragile e vulnerabile di altri Paesi.
Il nostro Paese deve affrontare anche unevoluzione demografica
che non è favorevole: «Le politiche nei confronti degli
anziani e degli immigrati non possono essere indefinitamente rinviate.
Più ancora di un nuovo patto sociale, lItalia può
aver bisogno di un nuovo patto generazionale».
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