Settembre 2001

 

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Italia in filigrana
S.B.  
 
 

 

 

 

 

 

In un quadro mondiale contrassegnato da spinte contrastanti, che è indispensabile conoscere per capire i singoli Paesi, anche l’Italia sta cambiando, ma forse non abbastanza. Gli economisti di Einaudi-Lazard non nascondono l’ottimismo di fondo sulle capacità italiane di ripresa, ma sottolineano anche che «il rilancio è difficile». Come quasi sempre, «i dati economici si prestano a diverse letture, ma due cose non si possono dire: che l’economia italiana sia peggiorata (dal ‘97 in poi è andata sempre meglio), e che l’Italia sia un Paese allo sfascio».
Il rallentamento della crescita tra il 1992 e il 2000, vale a dire nel periodo dell’affermazione dell’economia globale di mercato, ha cancellato il vantaggio nei confronti degli altri Paesi avanzati accumulato negli ultimi ventotto anni. Ma il processo di risanamento negli anni Novanta è stato di portata eccezionale, e proprio a questo si deve in parte la lenta andatura di marcia.
Il punto è: la debolezza italiana degli anni Novanta va considerata un aggiustamento necessario e in via di superamento, oppure è il risultato di una condizione strutturale e quindi destinata a permanere o addirittura ad aggravarsi?
Per gli studiosi, il “male italiano” si chiama bassa crescita e competitività calante. La struttura produttiva è statica, con una specializzazione incentrata sui beni tradizionali, pochi dei quali ad elevato valore aggiunto: «Per grandi comparti, pressoché tutto ciò che l’Italia produce ed esporta all’inizio del nuovo secolo, soprattutto nel made in Italy, e nel settore meccanico, era già presente nelle esportazioni vent’anni fa». Le capacità innovative sono penalizzate dalle carenze del sistema di istruzione, dalle difficoltà frapposte dall’amministrazione pubblica e dal soffocante sistema di permessi» messo in atto, dai costi finanziari per le Pmi, ancora superiori alla media europea, dalle insufficienze del sistema dei trasporti e della ricerca. Oltre che dalla rigidità del mercato del lavoro che «si paga non solo con la crescita dei lavori atipici, ma anche con quella dell’economia irregolare».
Malgrado tutto ciò, i segnali positivi non mancano. Il più significativo è la riorganizzazione finanziaria e imprenditoriale: dal miglioramento tecnico-organizzativo del mercato borsistico all’irrobustimento del listino, alla riorganizzazione del sistema bancario. Anche a livello di imprese globali la presenza è limitata ma in crescita. Non solo. Cresce anche la proiezione internazionale, in particolare tra le piccole e medie imprese. E nel frattempo l’Italia è diventata il primo esportatore in sette Paesi (erano tre nel ‘94) e ha allargato la propria presenza nell’area del Mediterraneo e nell’Europa orientale. E di questo dovrà tener conto la nostra politica estera.
Ma anche la grande euforia della globalizzazione sembra incrinarsi: dopo la crisi asiatica del ‘97-‘98, «i benefici marginali di un ulteriore aumento della globalizzazione cominciano ad essere controbilanciati dai costi marginali». Mentre si fa strada «l’esigenza di governare la globalizzazione, troppo importante per essere lasciata in balia delle forze di mercato», alla luce soprattutto di un’evoluzione «stentata» delle istituzioni internazionali, dal Fondo monetario alla Banca mondiale, al Wto. Le imprese, intanto, sono impegnate in un processo di rapidissimo consolidamento, che si attua con un’ondata di fusioni e acquisizioni che ha raggiunto dimensioni impressionanti: nel 2000, solo negli Stati Uniti si sono superati i diecimila casi.
L’Europa, dal canto suo, non è poi così debole: «Noi tutti siamo stati condizionati da una sorta di illusione ottica legata al cambio dell’euro, e questo ha portato a sopravvalutare le difficoltà».
Ma le avvisaglie di instabilità internazionale comparse alla fine dell’anno scorso rischiano di mettere in difficoltà l’Italia, più fragile e vulnerabile di altri Paesi. Il nostro Paese deve affrontare anche un’evoluzione demografica che non è favorevole: «Le politiche nei confronti degli anziani e degli immigrati non possono essere indefinitamente rinviate. Più ancora di un nuovo patto sociale, l’Italia può aver bisogno di un nuovo patto generazionale».

   
   
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