Settembre 2001

Rapporto Einaudi-Lazard

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Europa al timone?
Sergio Di Lorenzo  
 
 

 

 

 

Nei prossimi
due anni tutto
funzionerà meglio, soprattutto in quei Paesi dove il denaro costava di più,
come l’Italia,
la Spagna
e il Portogallo.

 

L’euforia della finanza e della crescita continua è ormai finita. E insieme con essa è tramontato il trionfalismo della globalizzazione e dell’auto-regolamentazione del mercato, per lasciare il posto a un’atmosfera più sobria. Una considerazione che si modella più agli Stati Uniti, «che non si sono presi un semplice raffreddore, ma una pericolosa bronchite», che all’Europa. Anzi, il Vecchio Continente adesso ha molte carte da giocare per diventare il protagonista di una “nuova New Economy”.
Il Rapporto Einaudi-Lazard, giunto alla sesta edizione, nelle sue duecento pagine di lucida radiografia su come si stia muovendo il mondo, boccia gli Stati Uniti e riconosce Eurolandia un modello di sviluppo vincente: «Ma deve imparare a pensare in grande», ha sostenuto il professor Mario Deaglio, direttore del Centro Einaudi e autore dello studio insieme con i ricercatori di Lazard guidati da Gerardo Braggiotti, «e deve imparare a dire qualcosa di veramente europeo, come ha invitato a fare Tommaso Padoa Schioppa». Deve imboccare con decisione la strada di una sorta di «mutazione genetica».
La critica al sistema americano parte da diverse angolazioni. La prima riguarda la crescita: «E’ stata enfatizzata, se la si depura della new economy è stata inferiore a quella europea». La seconda concerne l’indebitamento, arrivato al punto che ogni cittadino americano produce ogni giorno sette dollari di deficit commerciale. La terza investe la disparità di redditi e il pericolo di squilibri sociali, come dimostrano i giorni della rivolta a Cincinnati. Insomma, un quadro abbastanza fosco – «Sono convinto che l’aumento del Prodotto interno lordo americano del 2 per cento registrato nel primo trimestre del 2001 è sbagliato e si dovrà rivedere al ribasso» – che promette «una crisi generalizzata del quadro economico degli Stati Uniti, costringendo per ironia della sorte proprio i repubblicani ad adottare scelte di stampo keynesiano, come già fece Reagan.

Di diverso tenore l’analisi sull’Europa, che «è più forte di quanto si creda». Per Deaglio, i Paesi della valuta comune hanno vissuto un “sentiment” di pessimismo assolutamente ingiustificato: «Il fatto che l’euro si sia svalutato del 30 per cento nei confronti del dollaro», sostiene l’economista, «è ininfluente per una moneta forte; il biglietto verde non ha forse fluttuato in alto e in basso per molti anni?».
Nel Rapporto Einaudi-Lazard i ricercatori calcolano che la dipendenza del sistema economico europeo dall’area del dollaro ammonta a circa il 7-10 per cento: in concreto, una perdita di valore dell’euro del 20 per cento sulla valuta americana si scarica sui prezzi con una pressione pari all’1,4-2 per cento. Quindi la debolezza della nostra nuova moneta «può essere considerata un fattore secondario».
E se si guardano le cifre, gli economisti consigliano di far cadere l’occhio sull’ammontare delle obbligazioni in circolazione denominate in euro, pari attualmente a 1,3 milioni di miliardi di lire, un volume nettamente superiore a quello delle obbligazioni in dollari. Una sudditanza psicologica, dunque, che adesso deve essere riscattata con l’adozione di un modello di sviluppo diverso: l’Europa è come una tartaruga, va piano ma è sostanzialmente più stabile, non registra gli sbalzi che sono invece tipici dell’economia americana. Gli Stati Uniti puntano più sui settori legati allo spettacolo, informazione e telecomunicazioni. L’Europa ha orientato il timone verso un forte sistema creditizio, assicurativo, sui telefonini e sulle carte intelligenti.
In questo scenario globale, l’Italia si mostra come una nazione che ha perduto competitività – in parte a causa del risanamento dei conti, per rispettare i parametri di Maastricht – ma sta migliorando, «come ha improvvisamente riconosciuto anche il Governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio». Il sistema imprenditoriale e creditizio si sta ristrutturando, il modello dei distretti sta diventando oggetto di studio a livello mondiale, una devolution strisciante sta già dando i suoi frutti.
Ma in economia, mettono le mani avanti gli esperti, le previsioni sono un esercizio sconsigliabile. Con un Giappone incollato a una crisi che non lo molla da circa dieci anni, il mondo sembra destinato a dividersi in due grandi aree: quella del dollaro e quella dell’euro, che si rafforzerà con l’allargamento a Est. Le variabili incontrollabili sono tuttavia parecchie. Riuscirà la Cina a crescere ancora al ritmo dell’8-10 per cento all’anno? Se così non sarà, le contraddizioni del suo sistema, che si muove a ritmi troppo squilibrati tra i poveri contadini e i sempre più ricchi esponenti e protagonisti del ciclo industriale, i nodi verranno al pettine.
Quando? Entro cinque anni al massimo, e il rischio sarà quello di uno sconquasso mondiale, dalle conseguenze imprevedibili.

Italia in filigrana
S.B.

In un quadro mondiale contrassegnato da spinte contrastanti, che è indispensabile conoscere per capire i singoli Paesi, anche l’Italia sta cambiando, ma forse non abbastanza. Gli economisti di Einaudi-Lazard non nascondono l’ottimismo di fondo sulle capacità italiane di ripresa, ma sottolineano anche che «il rilancio è difficile». Come quasi sempre, «i dati economici si prestano a diverse letture, ma due cose non si possono dire: che l’economia italiana sia peggiorata (dal ‘97 in poi è andata sempre meglio), e che l’Italia sia un Paese allo sfascio».
Il rallentamento della crescita tra il 1992 e il 2000, vale a dire nel periodo dell’affermazione dell’economia globale di mercato, ha cancellato il vantaggio nei confronti degli altri Paesi avanzati accumulato negli ultimi ventotto anni. Ma il processo di risanamento negli anni Novanta è stato di portata eccezionale, e proprio a questo si deve in parte la lenta andatura di marcia.
Il punto è: la debolezza italiana degli anni Novanta va considerata un aggiustamento necessario e in via di superamento, oppure è il risultato di una condizione strutturale e quindi destinata a permanere o addirittura ad aggravarsi?
Per gli studiosi, il “male italiano” si chiama bassa crescita e competitività calante. La struttura produttiva è statica, con una specializzazione incentrata sui beni tradizionali, pochi dei quali ad elevato valore aggiunto: «Per grandi comparti, pressoché tutto ciò che l’Italia produce ed esporta all’inizio del nuovo secolo, soprattutto nel made in Italy, e nel settore meccanico, era già presente nelle esportazioni vent’anni fa». Le capacità innovative sono penalizzate dalle carenze del sistema di istruzione, dalle difficoltà frapposte dall’amministrazione pubblica e dal soffocante sistema di permessi» messo in atto, dai costi finanziari per le Pmi, ancora superiori alla media europea, dalle insufficienze del sistema dei trasporti e della ricerca. Oltre che dalla rigidità del mercato del lavoro che «si paga non solo con la crescita dei lavori atipici, ma anche con quella dell’economia irregolare».
Malgrado tutto ciò, i segnali positivi non mancano. Il più significativo è la riorganizzazione finanziaria e imprenditoriale: dal miglioramento tecnico-organizzativo del mercato borsistico all’irrobustimento del listino, alla riorganizzazione del sistema bancario. Anche a livello di imprese globali la presenza è limitata ma in crescita. Non solo. Cresce anche la proiezione internazionale, in particolare tra le piccole e medie imprese. E nel frattempo l’Italia è diventata il primo esportatore in sette Paesi (erano tre nel ‘94) e ha allargato la propria presenza nell’area del Mediterraneo e nell’Europa orientale. E di questo dovrà tener conto la nostra politica estera.
Ma anche la grande euforia della globalizzazione sembra incrinarsi: dopo la crisi asiatica del ‘97-‘98, «i benefici marginali di un ulteriore aumento della globalizzazione cominciano ad essere controbilanciati dai costi marginali». Mentre si fa strada «l’esigenza di governare la globalizzazione, troppo importante per essere lasciata in balia delle forze di mercato», alla luce soprattutto di un’evoluzione «stentata» delle istituzioni internazionali, dal Fondo monetario alla Banca mondiale, al Wto. Le imprese, intanto, sono impegnate in un processo di rapidissimo consolidamento, che si attua con un’ondata di fusioni e acquisizioni che ha raggiunto dimensioni impressionanti: nel 2000, solo negli Stati Uniti si sono superati i diecimila casi.
L’Europa, dal canto suo, non è poi così debole: «Noi tutti siamo stati condizionati da una sorta di illusione ottica legata al cambio dell’euro, e questo ha portato a sopravvalutare le difficoltà».
Ma le avvisaglie di instabilità internazionale comparse alla fine dell’anno scorso rischiano di mettere in difficoltà l’Italia, più fragile e vulnerabile di altri Paesi. Il nostro Paese deve affrontare anche un’evoluzione demografica che non è favorevole: «Le politiche nei confronti degli anziani e degli immigrati non possono essere indefinitamente rinviate. Più ancora di un nuovo patto sociale, l’Italia può aver bisogno di un nuovo patto generazionale».

   
   
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