Nei prossimi
due anni tutto
funzionerà meglio, soprattutto in quei Paesi dove il denaro
costava di più,
come lItalia,
la Spagna
e il Portogallo.
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Leuforia della finanza e della crescita continua è
ormai finita. E insieme con essa è tramontato il trionfalismo
della globalizzazione e dellauto-regolamentazione del mercato,
per lasciare il posto a unatmosfera più sobria. Una
considerazione che si modella più agli Stati Uniti, «che
non si sono presi un semplice raffreddore, ma una pericolosa bronchite»,
che allEuropa. Anzi, il Vecchio Continente adesso ha molte
carte da giocare per diventare il protagonista di una nuova
New Economy.
Il Rapporto Einaudi-Lazard, giunto alla sesta edizione, nelle sue
duecento pagine di lucida radiografia su come si stia muovendo il
mondo, boccia gli Stati Uniti e riconosce Eurolandia un modello
di sviluppo vincente: «Ma deve imparare a pensare in grande»,
ha sostenuto il professor Mario Deaglio, direttore del Centro Einaudi
e autore dello studio insieme con i ricercatori di Lazard guidati
da Gerardo Braggiotti, «e deve imparare a dire qualcosa di
veramente europeo, come ha invitato a fare Tommaso Padoa Schioppa».
Deve imboccare con decisione la strada di una sorta di «mutazione
genetica».
La critica al sistema americano parte da diverse angolazioni. La
prima riguarda la crescita: «E stata enfatizzata, se
la si depura della new economy è stata inferiore a quella
europea». La seconda concerne lindebitamento, arrivato
al punto che ogni cittadino americano produce ogni giorno sette
dollari di deficit commerciale. La terza investe la disparità
di redditi e il pericolo di squilibri sociali, come dimostrano i
giorni della rivolta a Cincinnati. Insomma, un quadro abbastanza
fosco «Sono convinto che laumento del Prodotto
interno lordo americano del 2 per cento registrato nel primo trimestre
del 2001 è sbagliato e si dovrà rivedere al ribasso»
che promette «una crisi generalizzata del quadro economico
degli Stati Uniti, costringendo per ironia della sorte proprio i
repubblicani ad adottare scelte di stampo keynesiano, come già
fece Reagan.
Di diverso tenore lanalisi sullEuropa, che «è
più forte di quanto si creda». Per Deaglio, i Paesi
della valuta comune hanno vissuto un sentiment di pessimismo
assolutamente ingiustificato: «Il fatto che leuro si
sia svalutato del 30 per cento nei confronti del dollaro»,
sostiene leconomista, «è ininfluente per una
moneta forte; il biglietto verde non ha forse fluttuato in alto
e in basso per molti anni?».
Nel Rapporto Einaudi-Lazard i ricercatori calcolano che la dipendenza
del sistema economico europeo dallarea del dollaro ammonta
a circa il 7-10 per cento: in concreto, una perdita di valore delleuro
del 20 per cento sulla valuta americana si scarica sui prezzi con
una pressione pari all1,4-2 per cento. Quindi la debolezza
della nostra nuova moneta «può essere considerata un
fattore secondario».
E se si guardano le cifre, gli economisti consigliano di far cadere
locchio sullammontare delle obbligazioni in circolazione
denominate in euro, pari attualmente a 1,3 milioni di miliardi di
lire, un volume nettamente superiore a quello delle obbligazioni
in dollari. Una sudditanza psicologica, dunque, che adesso deve
essere riscattata con ladozione di un modello di sviluppo
diverso: lEuropa è come una tartaruga, va piano ma
è sostanzialmente più stabile, non registra gli sbalzi
che sono invece tipici delleconomia americana. Gli Stati Uniti
puntano più sui settori legati allo spettacolo, informazione
e telecomunicazioni. LEuropa ha orientato il timone verso
un forte sistema creditizio, assicurativo, sui telefonini e sulle
carte intelligenti.
In questo scenario globale, lItalia si mostra come una nazione
che ha perduto competitività in parte a causa del
risanamento dei conti, per rispettare i parametri di Maastricht
ma sta migliorando, «come ha improvvisamente riconosciuto
anche il Governatore della Banca dItalia, Antonio Fazio».
Il sistema imprenditoriale e creditizio si sta ristrutturando, il
modello dei distretti sta diventando oggetto di studio a livello
mondiale, una devolution strisciante sta già dando i suoi
frutti.
Ma in economia, mettono le mani avanti gli esperti, le previsioni
sono un esercizio sconsigliabile. Con un Giappone incollato a una
crisi che non lo molla da circa dieci anni, il mondo sembra destinato
a dividersi in due grandi aree: quella del dollaro e quella delleuro,
che si rafforzerà con lallargamento a Est. Le variabili
incontrollabili sono tuttavia parecchie. Riuscirà la Cina
a crescere ancora al ritmo dell8-10 per cento allanno?
Se così non sarà, le contraddizioni del suo sistema,
che si muove a ritmi troppo squilibrati tra i poveri contadini e
i sempre più ricchi esponenti e protagonisti del ciclo industriale,
i nodi verranno al pettine.
Quando? Entro cinque anni al massimo, e il rischio sarà quello
di uno sconquasso mondiale, dalle conseguenze imprevedibili.
Italia in filigrana
S.B.
In un quadro mondiale contrassegnato
da spinte contrastanti, che è indispensabile conoscere
per capire i singoli Paesi, anche lItalia sta cambiando,
ma forse non abbastanza. Gli economisti di Einaudi-Lazard
non nascondono lottimismo di fondo sulle capacità
italiane di ripresa, ma sottolineano anche che «il rilancio
è difficile». Come quasi sempre, «i dati
economici si prestano a diverse letture, ma due cose non si
possono dire: che leconomia italiana sia peggiorata
(dal 97 in poi è andata sempre meglio), e che
lItalia sia un Paese allo sfascio».
Il rallentamento della crescita tra il 1992 e il 2000, vale
a dire nel periodo dellaffermazione delleconomia
globale di mercato, ha cancellato il vantaggio nei confronti
degli altri Paesi avanzati accumulato negli ultimi ventotto
anni. Ma il processo di risanamento negli anni Novanta è
stato di portata eccezionale, e proprio a questo si deve in
parte la lenta andatura di marcia.
Il punto è: la debolezza italiana degli anni Novanta
va considerata un aggiustamento necessario e in via di superamento,
oppure è il risultato di una condizione strutturale
e quindi destinata a permanere o addirittura ad aggravarsi?
Per gli studiosi, il male italiano si chiama bassa
crescita e competitività calante. La struttura produttiva
è statica, con una specializzazione incentrata sui
beni tradizionali, pochi dei quali ad elevato valore aggiunto:
«Per grandi comparti, pressoché tutto ciò
che lItalia produce ed esporta allinizio del nuovo
secolo, soprattutto nel made in Italy, e nel settore meccanico,
era già presente nelle esportazioni ventanni
fa». Le capacità innovative sono penalizzate
dalle carenze del sistema di istruzione, dalle difficoltà
frapposte dallamministrazione pubblica e dal soffocante
sistema di permessi» messo in atto, dai costi finanziari
per le Pmi, ancora superiori alla media europea, dalle insufficienze
del sistema dei trasporti e della ricerca. Oltre che dalla
rigidità del mercato del lavoro che «si paga
non solo con la crescita dei lavori atipici, ma anche con
quella delleconomia irregolare».
Malgrado tutto ciò, i segnali positivi non mancano.
Il più significativo è la riorganizzazione finanziaria
e imprenditoriale: dal miglioramento tecnico-organizzativo
del mercato borsistico allirrobustimento del listino,
alla riorganizzazione del sistema bancario. Anche a livello
di imprese globali la presenza è limitata ma in crescita.
Non solo. Cresce anche la proiezione internazionale, in particolare
tra le piccole e medie imprese. E nel frattempo lItalia
è diventata il primo esportatore in sette Paesi (erano
tre nel 94) e ha allargato la propria presenza nellarea
del Mediterraneo e nellEuropa orientale. E di questo
dovrà tener conto la nostra politica estera.
Ma anche la grande euforia della globalizzazione sembra incrinarsi:
dopo la crisi asiatica del 97-98, «i benefici
marginali di un ulteriore aumento della globalizzazione cominciano
ad essere controbilanciati dai costi marginali». Mentre
si fa strada «lesigenza di governare la globalizzazione,
troppo importante per essere lasciata in balia delle forze
di mercato», alla luce soprattutto di unevoluzione
«stentata» delle istituzioni internazionali, dal
Fondo monetario alla Banca mondiale, al Wto. Le imprese, intanto,
sono impegnate in un processo di rapidissimo consolidamento,
che si attua con unondata di fusioni e acquisizioni
che ha raggiunto dimensioni impressionanti: nel 2000, solo
negli Stati Uniti si sono superati i diecimila casi.
LEuropa, dal canto suo, non è poi così
debole: «Noi tutti siamo stati condizionati da una sorta
di illusione ottica legata al cambio delleuro, e questo
ha portato a sopravvalutare le difficoltà».
Ma le avvisaglie di instabilità internazionale comparse
alla fine dellanno scorso rischiano di mettere in difficoltà
lItalia, più fragile e vulnerabile di altri Paesi.
Il nostro Paese deve affrontare anche unevoluzione demografica
che non è favorevole: «Le politiche nei confronti
degli anziani e degli immigrati non possono essere indefinitamente
rinviate. Più ancora di un nuovo patto sociale, lItalia
può aver bisogno di un nuovo patto generazionale».
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