Settembre 2001

EUROPA E CLASSE POLITICA ITALIANA

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Riforme per il futuro
Mario Monti Commissario europeo per la concorrenza
 
 

 

 

 

Non bisogna credere che il Patto di
stabilità abbia espropriato
le classi
politiche nazionali
del diritto-dovere
di compiere scelte.

 

Quello che mi colpisce è la notevole stabilità che caratterizza l’economia europea. Dal 1997 fino alla previsione per il 2002, la crescita del Pil oscilla in una banda molto ristretta con il minimo del 2,5 per cento nel ‘99 e il massimo del 3,4 per cento nel 2000. E’ vero che è stata rivista la previsione per il 2002 un poco al ribasso, ma rispetto agli Stati Uniti che hanno avuto negli ultimi anni una crescita molto pronunciata mi sembra che l’Europa mostri una maggiore stabilità, che non ha avuto in un passato più lontano, e anche una migliore capacità di reagire alla forte decelerazione dell’economia americana. Anche il tasso di disoccupazione è sceso dal 10,6 per cento del ‘97 al 7,7 per cento del 2001. Non ne siamo ancora pienamente soddisfatti, ma è un dato positivo.
Per quel che riguarda l’economia americana, non credo che si tratti di una frenata breve, di scarsa importanza e destinata a dar luogo ad una ripresa notevole. Sembrerebbe esserci evidenza secondo la quale non è solo il comparto della new economy ad avere pesantemente risentito negli Usa, e, se l’economia nel complesso non ha pienamente patito la caduta forte della new economy, è anche per l’andamento sostenuto dei consumi che comporta, però, crescente indebitamento delle famiglie.
Nell’economia europea molte cose stanno cambiando e molte devono ancora cambiare. Parlo, per esempio, delle liberalizzazioni che hanno provocato cadute di prezzo considerevoli nei settori dove il processo è più avanzato, come nelle telecomunicazioni. Poi sono state fatte cose notevoli, anche se ancora non sufficienti, per quanto riguarda il mercato del lavoro. Le condizioni di offerta hanno spostato l’equilibrio del potere economico tra il produttore e il consumatore più verso il consumatore, avvicinandoci alla concezione tradizionale degli Stati Uniti. Queste modificazioni strutturali possono essere sostenute e spinte da un nuovo assetto istituzionale.
Prendiamo quello che è successo al vertice europeo di Stoccolma. Accanto a passi in avanti, come l’approvazione del Rapporto Lamfalussy sui mercati finanziari, ci sono state delle battute d’arresto. Nel campo della liberalizzazione del mercato dell’energia elettrica e del gas abbiamo assistito a questo gioco: preoccupazione francese, sponda tedesca e non indicazione di date. Corriamo il rischio di avere una Comunità che non solo non sposta sufficientemente materie dal campo dell’unanimità a quello della maggioranza qualificata, ma anche nel caso di direttive come queste, che già sono nella logica del mercato interno e vanno prese a maggioranza qualificata, si lascia frenare da una sorta di scambio di favori tra Stati membri, come nel caso del gas o delle Poste. Questo accade anche nei Consigli. Spesso ci sono decisioni pronte – nel senso che c’è di fatto una maggioranza qualificata a favore – ma si ritarda per trovare un compromesso che consenta di raggiungere l’unanimità anche quando non è richiesta. Questo è un aspetto istituzionale che ha un’incidenza sulla non sufficiente velocità di perfezionamento delle politiche dell’offerta che consentirebbero di dare maggiore dinamismo all’economia europea al di là della disputa sulla riduzione dei tassi di interesse.

Per gli inviti al taglio dei tassi, ritengo che di fronte a una Bce che è ancora nel cantiere della costruzione della propria credibilità, più altri pubblici poteri nazionali e internazionali fanno pressioni per la riduzione dei tassi, più è naturale, direi quasi matematico, l’effetto controproducente. Sarebbe altrettanto non corretto, da parte delle autorità monetarie, dire che l’Europa non sta facendo progressi sul versante delle riforme strutturali.
Ne sta facendo, ne ha fatti, ma è vero che non bastano e che bisognerebbe procedere più velocemente. Il che vuol dire: determinazione politica, ma anche meccanismi istituzionali.
Ho accennato, parlando di Stoccolma, a una sponda tedesca rispetto a una preoccupazione francese, però il cosiddetto asse franco-tedesco in questi ultimi anni è andato sfumando. Riferendoci alla proposta recente di Schroeder, che credo sia di grande interesse, mi sembrano evidenti punti di vicinanza con le tesi esposte dal presidente federale Rau a Strasburgo, che, a loro volta, mostravano molto l’impronta del pensiero congiuntamente elaborato da Rau e dal presidente Ciampi. Anche ai massimi livelli di governo, l’Italia è stata ed è presente con posizioni di spicco a favore dell’integrazione, e al tempo stesso come Paese, come classe dirigente, in una situazione che definirei micro-introspettiva, di ripiegamento sulle questioni, sulle vicende, sulle polemiche interne. E quindi non si può certo dire che i temi dell’Europa siano neanche lontanamente protagonisti di un dibattito. Si può dare per scontata un’adesione di tutti alle linee di sviluppo dell’integrazione europea, però credo che, quanto meno, dovrebbe ricevere più attenzione il tema di come l’Italia possa acquisire una forza politica tale da dare maggiore incisività alla propria posizione.

Non è né un invito né un appello. Sono solo modeste considerazioni. Da sempre considero che più il dibattito all’interno delle classi dirigenti politiche, economiche, industriali e sindacali in Italia interiorizza la dimensione europea, più è suscettibile di fare progresso. Prendiamo il problema della previdenza sociale. Tutti i Paesi hanno fatto un qualche pezzo di riforma, ma tutti sanno che bisogna andare oltre e, forse, comincia ad esserci la percezione che il costo politico nel farlo nei singoli Paesi può essere attenuato se gli sforzi di ciascuno sono visti in un quadro coerente e se c’è uno stimolo comunitario.
I vincoli europei alle politiche nazionali sono certamente abbastanza forti per quanto riguarda il saldo del bilancio, e quindi è particolarmente importante che, accanto ai programmi che prospettano riduzioni della pressione fiscale, ci siano indicazioni sul contenimento della spesa pubblica. E’ vero che ci può essere uno spazio di autofinanziamento della riduzione della pressione fiscale se questa determina un forte rilancio delle attività economiche. Ma sappiamo che la prevedibilità della misura e dei tempi di questa reazione – che poi a sua volta genera gettito fiscale, sia pure con aliquote ridotte – è piccola. Devo dire che, da osservatore dei dibattiti in Italia, e non soltanto in Italia, trovo abbastanza confortante che ci siano queste maglie europee accettate da tutti, che assicurano che, ex post, ci sarà coerenza per quanto riguarda la finanza pubblica, anche se non dovesse esserci, ex ante, nelle promesse. Però non bisogna credere che il Trattato di Maastricht o il Patto di stabilità abbiano espropriato le classi politiche nazionali del diritto-dovere di compiere scelte. Perché le scelte politiche che passano attraverso la finanza pubblica sono davvero politiche proprio quando non possono essere eluse dal disavanzo.
Per quel che riguarda la perdita di competitività italiana, devo precisare che nel “dopo euro” il fenomeno è più lento nel manifestarsi e non determina la percezione di emergenza che in sistemi politici non molto lungimiranti determina l’azione. Differenziali che possono sembrare molto piccoli di inflazione, se mantenuti nel tempo, riducono la competitività nel modo tradizionale, ma anche i ritardi nel far fronte alle necessità di investimenti in infrastrutture, in capitale umano e in ammodernamento del sistema, portano a perdite di competitività.

Collegato a tutto questo, il problema della credibilità italiana in Europa. La credibilità dipende dalla coerenza di una posizione e dalla forza di chi la esprime. La forza da che cosa nasce? Dal rischio percepito dagli altri che quel Paese dica no, che si opponga a qualcosa. Mi chiedo da qualche tempo se l’Italia non possa fare una cosa che gioverebbe contemporaneamente alla propria forza in Europa e all’avanzamento della costruzione europea, minacciando – e per la credibilità la minaccia almeno va portata in fondo – un veto non per la tutela di un proprio interesse specifico e immediato, ma proprio perché la costruzione europea non va abbastanza avanti. Un modo per dire di no agli altri europei nell’interesse dell’Europa. Forse un’occasione poteva essere Nizza. Certo, altre occasioni verranno.
C’è un’altra componente della credibilità cui abbiamo appena accennato: quella di avere comportamenti al proprio interno che siano poi coerenti con gli obiettivi proclamati. E da questo punto di vista, l’Italia ha fatto passi avanti, anche enormi. Se dieci o cinque anni fa il presidente del Consiglio dell’epoca avesse detto di no agli europei, nel senso esposto sopra, gli avrebbero riso in faccia. Ora le carte sono più o meno in regola e dovrebbe essere meno difficile esercitare una credibile pressione di quanto sia stato mettere in ordine la propria casa.

   
   
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