Non bisogna credere che il Patto di
stabilità abbia espropriato
le classi
politiche nazionali
del diritto-dovere
di compiere scelte.
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Quello che mi colpisce è la notevole stabilità che
caratterizza leconomia europea. Dal 1997 fino alla previsione
per il 2002, la crescita del Pil oscilla in una banda molto ristretta
con il minimo del 2,5 per cento nel 99 e il massimo del 3,4
per cento nel 2000. E vero che è stata rivista la previsione
per il 2002 un poco al ribasso, ma rispetto agli Stati Uniti che
hanno avuto negli ultimi anni una crescita molto pronunciata mi
sembra che lEuropa mostri una maggiore stabilità, che
non ha avuto in un passato più lontano, e anche una migliore
capacità di reagire alla forte decelerazione delleconomia
americana. Anche il tasso di disoccupazione è sceso dal 10,6
per cento del 97 al 7,7 per cento del 2001. Non ne siamo ancora
pienamente soddisfatti, ma è un dato positivo.
Per quel che riguarda leconomia americana, non credo che si
tratti di una frenata breve, di scarsa importanza e destinata a
dar luogo ad una ripresa notevole. Sembrerebbe esserci evidenza
secondo la quale non è solo il comparto della new economy
ad avere pesantemente risentito negli Usa, e, se leconomia
nel complesso non ha pienamente patito la caduta forte della new
economy, è anche per landamento sostenuto dei consumi
che comporta, però, crescente indebitamento delle famiglie.
Nelleconomia europea molte cose stanno cambiando e molte devono
ancora cambiare. Parlo, per esempio, delle liberalizzazioni che
hanno provocato cadute di prezzo considerevoli nei settori dove
il processo è più avanzato, come nelle telecomunicazioni.
Poi sono state fatte cose notevoli, anche se ancora non sufficienti,
per quanto riguarda il mercato del lavoro. Le condizioni di offerta
hanno spostato lequilibrio del potere economico tra il produttore
e il consumatore più verso il consumatore, avvicinandoci
alla concezione tradizionale degli Stati Uniti. Queste modificazioni
strutturali possono essere sostenute e spinte da un nuovo assetto
istituzionale.
Prendiamo quello che è successo al vertice europeo di Stoccolma.
Accanto a passi in avanti, come lapprovazione del Rapporto
Lamfalussy sui mercati finanziari, ci sono state delle battute darresto.
Nel campo della liberalizzazione del mercato dellenergia elettrica
e del gas abbiamo assistito a questo gioco: preoccupazione francese,
sponda tedesca e non indicazione di date. Corriamo il rischio di
avere una Comunità che non solo non sposta sufficientemente
materie dal campo dellunanimità a quello della maggioranza
qualificata, ma anche nel caso di direttive come queste, che già
sono nella logica del mercato interno e vanno prese a maggioranza
qualificata, si lascia frenare da una sorta di scambio di favori
tra Stati membri, come nel caso del gas o delle Poste. Questo accade
anche nei Consigli. Spesso ci sono decisioni pronte nel senso
che cè di fatto una maggioranza qualificata a favore
ma si ritarda per trovare un compromesso che consenta di
raggiungere lunanimità anche quando non è richiesta.
Questo è un aspetto istituzionale che ha unincidenza
sulla non sufficiente velocità di perfezionamento delle politiche
dellofferta che consentirebbero di dare maggiore dinamismo
alleconomia europea al di là della disputa sulla riduzione
dei tassi di interesse.
Per gli inviti al taglio dei tassi, ritengo che di fronte a una
Bce che è ancora nel cantiere della costruzione della propria
credibilità, più altri pubblici poteri nazionali e
internazionali fanno pressioni per la riduzione dei tassi, più
è naturale, direi quasi matematico, leffetto controproducente.
Sarebbe altrettanto non corretto, da parte delle autorità
monetarie, dire che lEuropa non sta facendo progressi sul
versante delle riforme strutturali.
Ne sta facendo, ne ha fatti, ma è vero che non bastano e
che bisognerebbe procedere più velocemente. Il che vuol dire:
determinazione politica, ma anche meccanismi istituzionali.
Ho accennato, parlando di Stoccolma, a una sponda tedesca rispetto
a una preoccupazione francese, però il cosiddetto asse franco-tedesco
in questi ultimi anni è andato sfumando. Riferendoci alla
proposta recente di Schroeder, che credo sia di grande interesse,
mi sembrano evidenti punti di vicinanza con le tesi esposte dal
presidente federale Rau a Strasburgo, che, a loro volta, mostravano
molto limpronta del pensiero congiuntamente elaborato da Rau
e dal presidente Ciampi. Anche ai massimi livelli di governo, lItalia
è stata ed è presente con posizioni di spicco a favore
dellintegrazione, e al tempo stesso come Paese, come classe
dirigente, in una situazione che definirei micro-introspettiva,
di ripiegamento sulle questioni, sulle vicende, sulle polemiche
interne. E quindi non si può certo dire che i temi dellEuropa
siano neanche lontanamente protagonisti di un dibattito. Si può
dare per scontata unadesione di tutti alle linee di sviluppo
dellintegrazione europea, però credo che, quanto meno,
dovrebbe ricevere più attenzione il tema di come lItalia
possa acquisire una forza politica tale da dare maggiore incisività
alla propria posizione.
Non è né un invito né un appello. Sono solo
modeste considerazioni. Da sempre considero che più il dibattito
allinterno delle classi dirigenti politiche, economiche, industriali
e sindacali in Italia interiorizza la dimensione europea, più
è suscettibile di fare progresso. Prendiamo il problema della
previdenza sociale. Tutti i Paesi hanno fatto un qualche pezzo di
riforma, ma tutti sanno che bisogna andare oltre e, forse, comincia
ad esserci la percezione che il costo politico nel farlo nei singoli
Paesi può essere attenuato se gli sforzi di ciascuno sono
visti in un quadro coerente e se cè uno stimolo comunitario.
I vincoli europei alle politiche nazionali sono certamente abbastanza
forti per quanto riguarda il saldo del bilancio, e quindi è
particolarmente importante che, accanto ai programmi che prospettano
riduzioni della pressione fiscale, ci siano indicazioni sul contenimento
della spesa pubblica. E vero che ci può essere uno
spazio di autofinanziamento della riduzione della pressione fiscale
se questa determina un forte rilancio delle attività economiche.
Ma sappiamo che la prevedibilità della misura e dei tempi
di questa reazione che poi a sua volta genera gettito fiscale,
sia pure con aliquote ridotte è piccola. Devo dire
che, da osservatore dei dibattiti in Italia, e non soltanto in Italia,
trovo abbastanza confortante che ci siano queste maglie europee
accettate da tutti, che assicurano che, ex post, ci sarà
coerenza per quanto riguarda la finanza pubblica, anche se non dovesse
esserci, ex ante, nelle promesse. Però non bisogna credere
che il Trattato di Maastricht o il Patto di stabilità abbiano
espropriato le classi politiche nazionali del diritto-dovere di
compiere scelte. Perché le scelte politiche che passano attraverso
la finanza pubblica sono davvero politiche proprio quando non possono
essere eluse dal disavanzo.
Per quel che riguarda la perdita di competitività italiana,
devo precisare che nel dopo euro il fenomeno è
più lento nel manifestarsi e non determina la percezione
di emergenza che in sistemi politici non molto lungimiranti determina
lazione. Differenziali che possono sembrare molto piccoli
di inflazione, se mantenuti nel tempo, riducono la competitività
nel modo tradizionale, ma anche i ritardi nel far fronte alle necessità
di investimenti in infrastrutture, in capitale umano e in ammodernamento
del sistema, portano a perdite di competitività.
Collegato a tutto questo, il problema della credibilità
italiana in Europa. La credibilità dipende dalla coerenza
di una posizione e dalla forza di chi la esprime. La forza da che
cosa nasce? Dal rischio percepito dagli altri che quel Paese dica
no, che si opponga a qualcosa. Mi chiedo da qualche tempo se lItalia
non possa fare una cosa che gioverebbe contemporaneamente alla propria
forza in Europa e allavanzamento della costruzione europea,
minacciando e per la credibilità la minaccia almeno
va portata in fondo un veto non per la tutela di un proprio
interesse specifico e immediato, ma proprio perché la costruzione
europea non va abbastanza avanti. Un modo per dire di no agli altri
europei nellinteresse dellEuropa. Forse unoccasione
poteva essere Nizza. Certo, altre occasioni verranno.
Cè unaltra componente della credibilità
cui abbiamo appena accennato: quella di avere comportamenti al proprio
interno che siano poi coerenti con gli obiettivi proclamati. E da
questo punto di vista, lItalia ha fatto passi avanti, anche
enormi. Se dieci o cinque anni fa il presidente del Consiglio dellepoca
avesse detto di no agli europei, nel senso esposto sopra, gli avrebbero
riso in faccia. Ora le carte sono più o meno in regola e
dovrebbe essere meno difficile esercitare una credibile pressione
di quanto sia stato mettere in ordine la propria casa.
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