Settembre 2001

UNA STRATEGIA COMUNE

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La parte dell’Europa
Henry Kissinger  
 
 

 

 

 

Si tratta
di qualcosa
che dovremo fare con fredda calma, con attenzione,
ma in modo
inesorabile.

 

Gli europei dovrebbero fare due cose. La prima è, ovviamente, stare al fianco dell’America, cosa che di fatto avviene e che noi apprezziamo; ma c’è una seconda, che è molto importante: abbiamo bisogno di sviluppare una strategia comune, una strategia di prevenzione contro gruppi come quelli che hanno agito l’11 settembre. Non possiamo semplicemente lasciarli in giro, fino al momento in cui fanno qualcosa, e poi metterci a cercare solo quelli che hanno materialmente compiuto gli attentati, mentre tutti gli altri, che stanno intorno a costoro, se ne restano al riparo.
Per il momento, dobbiamo essere noi americani a colpire. Questo è un problema americano. Ma il passo che vien dopo, il problema successivo, è la prevenzione. In questo ambito, l’Europa dovrebbe agire insieme con noi, in un’azione coordinata.
Fino a questo momento la nostra risposta agli attacchi è stata, comprensibilmente, di compiere azioni di punizione che dovevano dare l’impressione di saldare il conto, mentre si cercavano i reali autori degli attacchi. Quel che è successo a New York e a Washington, tuttavia, è stato un attacco sul territorio degli Stati Uniti, una minaccia al nostro modo di vivere sociale e alla nostra stessa esistenza come società libera. Di conseguenza, bisogna fare i conti con tutto questo in modo differente, con un attacco diretto al sistema che produce gli attacchi. La risposta immediata è stata il ritorno alla normalità. Ma il governo americano deve farsi carico di una risposta sistematica che, nella nostra speranza, finisca allo stesso modo in cui finì l’attacco a Pearl Harbor: cioè con la distruzione dell’apparato che se ne era reso responsabile. Si tratta di un apparato “a rete”, di un network di organizzazioni terroristiche che trovano riparo nelle capitali di alcuni Paesi. In molti casi non ci preoccupiamo di far pagare a questi Paesi la responsabilità di dare rifugio alle organizzazioni terroristiche; in altri casi, addirittura, manteniamo rapporti con loro quasi normali.
Se, qualche tempo prima dell’attentato, mi fosse stato chiesto se un attacco coordinato sul tipo di quello che è stato realizzato potesse essere possibile, avrei detto probabilmente di no, come chiunque altro. In effetti, nessuna delle mie osservazioni sulla nostra impreparazione va letta come una critica a qualcuno. Tuttavia, quello che mi preme sottolineare è che ci siamo preoccupati delle minacce terroristiche come se ci stessimo confrontando con operazioni di polizia. Ora ci rendiamo conto che dobbiamo farvi fronte in un modo completamente diverso.
Bisogna aver cura di far sì che l’azione di ritorsione non sia affatto l’atto conclusivo e nemmeno la parte principale del processo di risposta all’attacco. La parte più importante deve essere invece la dispersione dell’apparato, del sistema terroristico, come lo intendo, e cioè quelle parti del sistema che sono organizzate su base globale e che possono operare con mezzi sincronizzati.

Riassumendo. Qualsiasi governo che offra rifugio a gruppi capaci di attacchi del tipo di quello che ci ha colpito dovrà pagare un prezzo esorbitante. La questione non è tanto il tipo di risposta che saremo in grado di dare prima o poi. Si tratta di qualcosa che dovremo fare con fredda calma, con attenzione, ma in modo inesorabile. Poiché ne va della nostra stessa sicurezza, in ogni caso la risposta non può essere resa dipendente dal consenso. Benché sia una tale questione che gli Stati Uniti e i suoi alleati devono trovare mezzi cooperativi di resistenza che non si accontentino solamente del minimo comun denominatore.

Tra guerre sante e codici d’onore

Sebbene sia comunemente tradotta come “guerra santa”, la parola araba “jihad” (che è di genere maschile) significa più propriamente “lotta santa”, (gli studenti islamici, con una punta di sarcasmo, fanno notare che il concetto di “guerra santa” venne coniato in Europa ai tempi delle Crociate).

Il significato religioso del termine, mutuato dal Corano, è duplice: da un lato fa riferimento al concetto di lotta per il bene comune, dall’altro allude alla battaglia interiore contro le tentazioni e i peccati. Le due accezioni sono sintetizzate da un detto di Maometto che, tornando da una campagna militare, disse ai seguaci: «Oggi siamo tornati dalla jihad minore per intraprendere quella maggiore». Cioè, appunto, dalla battaglia sul campo a quella spirituale.

Si chiama “Pashtunwali” (La via dei Pashtun) l’antico codice non scritto dell’omonima etnia afghana e pakistana che prescrive, fra gli altri doveri, anche quello di non rifiutare l’ospitalità a chi ne fa richiesta (fosse pure un criminale). A questo principio si appellano i talebani in ogni circostanza che sia loro “utile”. Oltre all’ospitalità, il codice prescrive anche la necessità di difendere l’onore a tutti i costi (anche con l’omicidio).

A differenza del codice pashtun, l’Islam non prevede che si debba dare ospitalità a chi ha commesso un crimine. Ma per i talebani (che sono pashtun da cinquemila anni e musulmani da mille e quattrocento) il codice d’onore è persino più vincolante dell’Islam.

 

 

 

Le recessioni non si fanno e non si disfano con una catastrofe di questo tipo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una delle conseguenze dell’attacco potrebbe essere che questa nuova recessione sarà più lunga di quello che avrebbe potuto essere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dagli orrendi eventi del settembre nero americano non ci sarà un impatto negativo profondo, irreparabile, sull’economia, almeno nel medio periodo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non vedo un pericolo di recessione globale, in America potremo avere qualche trimestre di pausa, ma non esiste il rischio di una grave contrazione planetaria.

 

Parola di Nobel
Samuelson Turow Friedman Backer Modigliani

Di fronte a questa immane tragedia gli Stati Uniti avranno un momento di sbandamento, ma non prevedo conseguenze significative sul lungo termine. Certamente, nei primi tempi gli americani tenderanno a viaggiare di meno, magari a evitare le grandi città. E’ probabile che i più prudenti si ritirino dalla Borsa per collocare il proprio gruzzolo in beni rifugio, come i contanti o i buoni del Tesoro. Ma in una prospettiva più ampia è raro che disastri del genere abbiano conseguenze estreme sull’economia. Basta guardare alla storia: persino l’attacco di Pearl Harbor o il terremoto di San Francisco hanno causato soltanto sbandamenti momentanei, durati al massimo qualche settimana.
Naturalmente, la devastazione del quartiere degli affari di Manhattan rallenterà l’attività finanziaria per qualche tempo. Ma questo non ha nulla a che vedere con gli effetti a livello macroeconomico. Le recessioni non si fanno e non si disfano con una catastrofe di questo tipo. La portata delle conseguenze, però, dipenderà dalla risposta delle autorità federali. E’ probabile che la Fed allenti ancora la leva dei tassi per evitare l’inevitabile impatto su Wall Street. Roger Ferguson, vicepresidente della Fed, ha già annunciato l’apertura di uno sportello di emergenza per rifornire di denaro contante le banche ed evitare una crisi di liquidità. Anche Wim Duisenberg è stato pronto a sostenere i mercati. La tragedia porterà Bush ad ulteriori tagli fiscali, e non escluderei l’avvio di maggiori investimenti in campo militare. Di solito, in caso di guerra, la macchina economica accelera piuttosto che rallentare. Dopo Pearl Harbor, Wall Street è crollata, ma è rimbalzata subito, non appena l’America si è riavuta dalla sorpresa e ha formulato la sua risposta.
Non temo neanche una fuga di massa dal dollaro. In definitiva, gli Stati Uniti continuano ad essere il luogo più sicuro del mondo per collocare i propri investimenti. L’Europa presenta rischi del tutto analoghi, se non superiori.

Paul Samuelson

L’economia americana è un colosso che produce ogni anno 10 mila miliardi di dollari. Qualsiasi caduta possa ancora verificarsi in Borsa nei prossimi mesi – e io non credo che sarà spaventosa – resisterà all’urto. Non è il bis del ‘29, quando Wall Street, crollando, trascinò l’economia con sé. E nemmeno il bis dell’87, quando l’indice Dow Jones perse oltre il 22 per cento in due sedute. Osama bin Laden può distruggere il World Trade Center, ma non l’America degli affari.
La Grande Depressione del ‘29 fu dovuta non alla Borsa, ma alle banche: i depositi non erano protetti dallo Stato e sfumarono. Oggi sono protetti, e non sfumeranno. Inoltre, il governatore della Federal Reserve, Alan Greenspan, fa quello che allora il governo non fece: immettere liquidità nel sistema. In questo modo, prima o poi, la Borsa si riprenderà.
E per quel che riguarda il 1987, non c’è alcun collegamento. Allora tutti gli indici erano sopravvalutati. Con l’attacco ai simboli americani, la caduta era inevitabile, settori-chiave come i trasporti aerei sono stati messi ko dagli attentati. Ma la maggioranza dei settori è sana, intatta. Se temo una recessione, dunque, è perché avremo dei costi imprevisti molto alti, i costi della sicurezza per prevenire altri attentati, i costi della guerra dichiarata da Bush ai terroristi.
In particolare: il fatto che abbiamo investimenti di 200 miliardi di dollari all’estero, con un deficit commerciale di 450 miliardi di dollari, non può non preoccuparmi. Per supplirvi, occorrerebbe che gli altri Paesi investissero 650 miliardi l’anno da noi. Dubito che lo faranno, a causa del terrorismo: la loro fiducia nella nostra invulnerabilità si è incrinata seriamente.
La recessione in America, d’altro canto, potrebbe generare una recessione globale. Secondo i miei calcoli, verrebbero persi circa 20 milioni di posti di lavoro, soprattutto in Asia. E’ urgente che i governi e le Banche centrali coordinino i loro interventi per impedirlo. Il 2002 si preannuncia un anno problematico, non di rilancio, anche se si tratta di problemi risolvibili. Le autorità politiche e finanziarie devono fare del loro meglio per restituire la fiducia ai consumatori. In questo contesto, l’Europa ha un ruolo cruciale. Deve resistere, perché anche il Giappone è in grossi guai.

Lester Turow

In circostanze simili, è noto che i mercati reagiscono in maniera eccessiva. Non mi ha sorpreso il calo, dopo la sosta senza precedenti, di Wall Street. Né sarò sorpreso se continuerà, accentuandosi, prossimamente. Quando la Borsa si accorgerà di essere scesa troppo, non dubito che tornerà a salire.
Mettiamo dunque da parte le emozioni, e osserviamo i fatti come sono. L’economia degli Stati Uniti vale 10 mila miliardi di dollari, mentre i danni arrecati dall’attacco terrorista a New York ammontano a un massimo di 20 miliardi di dollari, forse 30. L’economia nel suo complesso è stata solo scalfita dal terrorismo. La gente che vive a Manhattan ha pagato un prezzo terribile, ma se teniamo presente il quadro complessivo dell’economia nazionale, gli Stati Uniti restano molto, molto forti, con una capacità di produzione davvero impressionante. L’attacco terrorista ha toccato i sentimenti dell’America e degli americani, ma non l’ha colpita in profondità.
Detto questo, chiariamo subito una cosa. In recessione ci siamo già. Ma questo non significa che sarà molto lunga o particolarmente dura. Ma una delle conseguenze dell’attacco alle Twin Towers e al Pentagono potrebbe essere che questa nuova recessione sarà più lunga di quello che avrebbe potuto essere.
Io sono stato sempre scettico sugli effetti delle riduzioni fiscali, mentre la politica monetaria della Federal Reserve funzionerà come ha funzionato in passato. Nell’attuale situazione, tuttavia, né l’Amministrazione né la Fed possono fare molto contro la recessione. Nella recessione ci siamo dentro da parecchio tempo, ma molti hanno fatto finta di non vedere. I numeri della crescita nazionale parlano chiaramente, mentre la fiducia dei consumatori continua a scendere. Questa recessione ha qualche cosa in comune con quella americana del ‘29 e con quella giapponese dell’89: scende il mercato, scendono i profitti. L’obiettivo da porsi è solo quanto durerà. E io dico che durerà non troppo tempo. Ne sono sicuro, perché oggi una recessione non può durare più di un anno, un anno e mezzo al massimo. Noi avevamo anticipato l’inizio della ripresa per settembre 2001. Ora le previsioni dovranno essere riviste. L’economia ripartirà certamente più avanti, durante il 2002.

Milton Friedman


Il danno principale resta quello sul piano umano. Non potremo recuperare migliaia di vite. Ma, se debbo fare un pronostico, alla fine credo che dagli orrendi eventi del settembre nero americano non ci sarà un impatto negativo profondo, irreparabile, sull’economia, almeno nel medio periodo. Ne sono abbastanza sicuro, intanto, perché ce lo dice la storia. Quando ci si trova di fronte a un disastro di proporzioni inimmaginabili come quello causato dai terroristi musulmani, la forza di rimettersi in piedi accelera i tempi della ricostruzione, o comunque della ripresa di una certa normalità. Penso, ad esempio, al tremendo terremoto d Kobe, in Giappone: la situazione si è ristabilita prima delle aspettative, sotto ogni punto di vista. E in tali casi, anche il patriottismo gioca un ruolo importante. Stringersi insieme durante una crisi può essere decisivo per la stessa sopravvivenza del mercato. E questo è successo. Ma credo anche che gli investitori abbiano espresso un voto di fiducia proprio sul futuro dell’economia del Paese. La perdita in Borsa non è stata una forte perdita in termini storici. Viste le circostanze, ha una connotazione fisiologica.
Pertanto, io credo che il messaggio che ci è giunto dal mercato sia un messaggio di solidità. Si è avuto il tempo per osservare l’andamento congiunturale precedente all’attacco, si conoscevano bene i problemi di debolezza dell’economia, ma si conoscevano bene anche i rimedi già messi in atto dalla Banca centrale e dall’amministrazione. I pronostici erano per una ripresa del tasso di crescita già attorno alla fine dell’anno. Ebbene, secondo me questo scenario potrà richiedere qualche mese in più, ma alla fine si verificherà. Magari intorno al primo trimestre del 2002. E credo che le cose si metteranno in moto senza bisogno di ricorrere a misure straordinarie. Allora: aumentiamo il bilancio per le cose essenziali, ma riduciamo le spese in altri settori. Non dobbiamo usare questa situazione per dimenticare il rigore, la serietà, o per tornare alle finanze allegre dei tempi passati. Quello, sì, produrrebbe un danno all’economia.

Gary Backer


Non vedo un pericolo di recessione globale. In America, potremo avere qualche trimestre di pausa. Ma il rischio di una grave contrazione planetaria non esiste. A meno che l’Europa non sbagli, cioè non torni a rialzare i tassi d’interesse. Ma non credo che la Banca centrale europea manchi di senso comune al punto da farlo in un periodo di rallentamento. Dipenderà anche da che tipo di guerra condurrà il presidente Bush.
Analogie col ‘29? In realtà, non ve n’è alcuna. La crisi del ‘29 incominciò come un ciclo economico del tipo che tende a ripetersi. Divenne una tragedia in seguito agli errori fondamentali della Banca centrale: invece di aumentare la liquidità e aiutare il mercato a riprendersi, lasciò che la massa monetaria si riducesse in maniera incredibile. La dimezzò, provocando un’enorme caduta degli investimenti, dell’occupazione e dei consumi. Il reddito scese del 40 per cento fino al ‘32. Lo si poteva evitare facilmente.
Oggi è inconcepibile che possa ripetersi quell’episodio, perché siamo estremamente coscienti dell’importanza della politica monetaria. Grazie a Keynes, sappiamo come reagire a una crisi e come rovesciarla rapidamente. Lo ha dimostrato la Fed, continuando a ribassare i tassi d’interesse. Negli anni Trenta la recessione si estese nel mondo attraverso le politiche restrittive dei commerci. Il protezionismo peggiorò la crisi. Ugualmente, non c’è alcuna somiglianza con la crisi della Borsa dell’87. Allora, a Wall Street scoppiò la bolla speculativa. Fu un ritorno alla ragione. Il mercato era esageratamente elevato. Si verificò una fuga dai titoli. L’avevo previsto, anzi ci guadagnai perché vendetti, per così dire, allo scoperto prima della caduta. Quella bomba è esplosa gli anni scorsi al Nasdaq, come del resto avevo predetto.
Nella condotta della Borsa e nella pausa economica che è seguita all’attentato, c’è una componente razionale: i trasporti aerei e le assicurazioni devono coprire grosse perdite. Ma il mercato le sta sottovalutando. Bush sta adottando misure per soccorrerle. Il Paese non può vivere senza trasporti aerei e assicurazioni. Però, le esperienze belliche generano espansione. L’esempio più grandioso fu quello dell’America nel ‘41. Dopo l’entrata in guerra, l’America crebbe fino al ‘44-’45 con enorme rapidità. Ma è un fenomeno irripetibile. La guerra produce domanda addizionale.
L’effetto è inflazione o espansione, a seconda che ci siano o no disoccupati. Nel ‘41 ce n’erano ancora molti, in seguito alla Grande Depressione. Oggi questa espansione è da escludere, perché i disoccupati sono pochi. E’ probabile una fase di contrazione a breve termine, in cui il Pil scenderà. Ma la tendenza a lungo termine è di espansione.
Oltre tutto, è importante considerare la condizione economica americana prima della strage. C’era un rallentamento più o meno serio. Ma la sua serietà dipenderà dalle reazioni degli altri Paesi, soprattutto dell’Unione europea. La Banca centrale europea ha continuato a tenere alta la disoccupazione con la scusa dell’inflazione. Non ne aveva alcuna prova: le tensioni inflazionistiche dell’anno scorso erano dovute non alla domanda, ma al petrolio. Occorre che continui a ribassare i tassi. Il rallentamento americano deve essere risolto da un aumento delle esportazioni nette, in parte verso l’Europa. L’America è già grandemente indebolita. Il suo debito la espone a rischi. E’ concepibile una fuga di capitali dagli Stati Uniti, nel senso che il mondo è pieno di titoli americani. La gente può allarmarsi e cercare di disfarsene. E’ molto importante che l’Europa e il resto del mondo attuino politiche espansioniste per aiutare gli investimenti e l’occupazione, e per aumentare le esportazioni nette americane.

Franco Modigliani

   
   
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