Settembre 2001

ISLAM E OCCIDENTE

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L’apocalisse del tempo perduto
ALDO BELLO  
 
 

Il mondo islamico, dunque, quello arabo in particolare, è alla ricerca di quel tempo perduto, anche a costo di fare le prove generali dell’apocalisse.

 

Chiuso il “secolo breve”, quel 1900 aperto dalla prima guerra mondiale e chiuso dalla caduta simultanea del Muro di Berlino e del comunismo, e giubilato il secondo millennio, la nuova età è emersa l’11 settembre con due immagini che resteranno come marchiate a fuoco nel non breve brogliaccio della nostra memoria storica: quella dell’aereo che, col suo carico umano, virando di novanta gradi, andava a conficcarsi nella seconda delle Torri Gemelle, facendola poi implodere; e quella dello straccio bianco agitato da una donna, condannata a morte per non aver commesso alcun fatto. Speculari, la barbarie terrorista e la disperazione umana, l’apocalisse che vuole annientare le radici della vita e il grido che reclama la continuità della vita.
Chi ha progettato, organizzato, eseguito l’oltraggio, aveva in mente una scena finale della storia in cui la divinità si rivela, in forma di onnipotenza umana o di suprema trascendenza, per officiare l’Ultimo Atto di Giudizio (e di Giustizia), celebrando nel contempo l’epifania di una Potenza espressa con il suicidio come suprema estasi sacrificale, gratificata dalla conquista eroica del paradiso celeste.
Il primo nemico dell’Occidente, dunque, è il nichilismo, i cui desideri finali confluiscono nell’annientamento di una civiltà dalla quale si sente umiliato e che gli sta di fronte con la forza della sua ricchezza prodotta dal lavoro (e non da un’unica materia prima, il petrolio), dal suo progresso tecnico e tecnologico (raggiunto con rivoluzioni industriali alle quali l’Islam non ha mai partecipato creativamente), dal suo avanzamento economico e sociale (innestato sull’asse dell’equilibrio fra doveri e diritti, senza discriminazioni dell’ “altra metà del cielo”), dal suo moderno contesto ideologico che separa Chiesa e Stato (e non fa di un Libro la clava con cui colpire per uccidere, al di qua e al di là del territorio religioso e culturale in cui si manifesta e agisce).
Nella storia laica delle democrazie non c’è spazio per simili apocalissi, perché la trascendenza non può rivelarsi nel tempo storico, nel presente vissuto, e perché non ci può essere coincidenza tra il sacrificio del kamikaze e il cielo delle Uri. Fedeli, non fosse altro che per puro senso della decenza, alla società aperta, alle culture critiche e a ideologie che non trasferiscono sulla terra paradisi o inferni, le democrazie laiche recepiscono come un incubo quel che l’integralismo musulmano coltiva come un sogno. Per questo la storia per noi non finisce, ma continua, facendo tesoro di ricordi e vissuti, e stratificando una memoria del presente che sia utile finché dura la vita dell’uomo.
Dobbiamo tornare ad attingere ai classici dell’Occidente: a Tucidide, come a von Clausewitz, alle loro visioni lucide del male e della guerra. Anche quando Napoleone sorprese l’Europa ci fu uno stupore apocalittico, al modo di quello che emerse quando le armate di Hitler sfidarono il mondo: tanto più presto, perciò, allora occorse chiudere la parentesi e creare nuove Sante Alleanze o Alleanze Occidentali. Più profetico dei politici e più preveggente dei diplomatici coevi, von Clausewitz sostenne: «Una volta abbattute le barriere del possibile, che prima esistevano per così dire soltanto nell’inconscio, è estremamente difficile rialzarle». Manhattan “ground zero” è lì a dimostrarlo.
Tale è la rivelazione del male, per le democrazie euro-americane. E non c’è nel male nulla di edificante per riordini o rigenerazioni. Le democrazie occidentali moderne hanno una storia ben più umile, fragile e ardua: ogni giorno devono fronteggiare la malvagità di cui ha parlato Giovanni Paolo II: «Le forze delle tenebre si sono impadronite del mondo [...]. Il cuore dell’uomo è un abisso da cui emergono disegni di un’inaudita ferocia». Il male assoluto è prodotto dalle nostre menti e dalle nostre mani, e a differenza del Bene supremo, non è ultraterreno, ma si manifesta qui e ora, sofferto nella sua immediatezza: questa è l’unica apocalisse che ci è dato di conoscere, ed è anche la ragione per cui non è autentica apocalisse, ma un’avversità concreta contro la quale, si voglia oppure no, piaccia o meno, è necessario lottare. Non si richiedono grandi svolte di pensiero (semmai si richiede la caduta delle generali reticenze), soprattutto in un’Europa che ha conosciuto città e case rase al suolo, ma la capacità di tenersi fermi, senza deragliare, custodendo anche con le armi il patrimonio accumulato nel corso dei secoli: patrimonio di tolleranza ma non di cedimento alla forza; di civile commercio e non di traffici illeciti devastanti, o di uso ricattatorio delle materie prime; di conversazioni come libere espressioni del pensiero e non di monocultura pietrificata, interpretata e imposta come diritto, come presunta scienza politica, come ordinamento sociale, da ulema e da imam.

All’America è stato inflitto «un oceano di dolore». E’ necessario che «la cristianità trovi la strada giusta per la propria sopravvivenza», perché gli attentati a New York e a Washington dimostrano che questa oggi è seriamente minacciata, come già un tempo, dall’avanzare sempre «più pericoloso e violento dell’Islam». Parola del cardinal Biffi. Parola chiara, anche se mediata da un riferimento storico: quello della battaglia di Vienna, del 1683, di cui il 12 settembre (il giorno successivo all’attacco terrorista) cadeva l’anniversario.
Legame non immediato, si può obiettare. Ma evidente, per chi conosca la storia. Quella fu infatti la battaglia nella quale l’allora capitale del cattolico Impero Austro-Ungarico fu liberata dall’assedio dei turchi e delle truppe speciali dei giannizzeri; e proprio da quella vittoria partì (al modo dell’immediato dopo-Lepanto navale, per l’universo mediterraneo e vicino-orientale) la controffensiva delle Due Corone contro l’Impero Ottomano nell’Europa danubiana. In altre parole: è il corrispondente nell’epoca moderna di quel che fu per il Medio Evo la battaglia di Poitiers del 732, quando Carlo Martello fermò l’avanzata degli arabi in Europa: in un caso e nell’altro, un momento decisivo per far diga contro l’ “ondata islamica”, che altrimenti avrebbe sommerso la cristianità. E che anche oggi dimostra con evidenza crescente, nello scacchiere planetario, la violenza insita nella feroce ideologia del jihad, “sforzo” spirituale secondo filologia, ma “guerra santa” tout court secondo l’interpretazione strumentale dei capi religiosi dell’universo assolutista musulmano.

«Amiamo la morte quanto voi amate la vita, per questo vinceremo. La bandiera dell’Islam trionferà». L’armamentario dottrinale dei guerrieri di Allah è rudimentale e non conforme al Corano, ma i signori del terrore non hanno problemi di arruolare giovani che, mossi dai religiosi e dalle proprie frustrazioni (la comunicazione multimediale servirà pure a qualcosa!), sono pronti a trasformarsi in bombe umane. Fine supremo della loro scelta, la creazione di un mondo che segua la shari’a, la legge islamica. Ma dietro queste quinte confessionali si celano il malcontento politico e le difficoltà economico-sociali. E il rimpianto di un primato perduto.
A ben vedere, gli integralisti (o “essenzialisti”, come li definisce Popper) sono “prodotti” del cosiddetto “Risveglio islamico”. Che ha una precisa data di nascita: il giugno del 1967, quando la sconfitta di Nasser nella Guerra dei Sei Giorni travolse l’ideologia del riscatto arabo. Da quell’estate lontana e tragica, cominciò la ricerca confusa, violenta, di un “sistema” che facesse ritrovare ai popoli islamici, particolarmente del Vicino Oriente, il ruolo che avevano svolto in un tempo molto antico, il “tempo perduto”, come lo definivano Hassan al-Banna, il maestro elementare egiziano fondatore dei Fratelli Musulmani, e il suo esegeta, Sayd Qutb, condannato all’ergastolo da Nasser, e impiccato dopo dodici anni di carcere.
Il mondo islamico, dunque, quello arabo in particolare, è alla ricerca di quel tempo perduto, anche a costo di fare le prove generali dell’apocalisse. E oggi, come già nella metà del secolo XIX, quando nell’area mediterranea l’imperialismo europeo era all’acme, in seno al mondo musulmano si scontrano due correnti di pensiero: una prospetta l’urgenza di “modernizzarsi”, l’altra proclama la necessità di approfondire, per recuperarli, i valori dell’Islam. La prima ritiene che utilizzando gli strumenti del progresso europeo e occidentale (il nazionalismo filosofico, lo spirito scientifico, la tecnologia, l’idea sovranazionale) sia possibile venir fuori dalla palude del sottosviluppo culturale, economico, politico. Per la seconda, l’Islam ha in se stesso tutti gli elementi che consentono di rispondere alla sfida dei tempi nucleari. Per gli uni, occorre liberarsi attraverso il progresso, senza stravolgere i princìpi islamici, modernizzandosi tenendo in una mano il computer e nell’altra il Corano; per gli altri, la sola e unica riforma possibile è quella del ritorno alla fede, o meglio, alla sorgente della fede, il Corano.
Il problema è questo: l’Islam non è solo una religione-cultura, ma anche quella che Maxime Rodincon definisce «la vocazione a strutturare il politico e il sociale». Che è come dire «una ideologia religiosa di organizzazione della società o l’insieme dei legami che mantengono i rapporti tra i credenti definiti una nazione-cittadella».
Il versetto 110 della Terza Sura del Corano recita infatti: «Voi siete la migliore nazione che possa unire degli uomini. Voi invero praticate il bene, impedite il male, voi credete in Dio». E a questo punto va ricordato che in Oriente il “vettore religioso” è spiccatamente politico. Quasi senza eccezione. Le esplosioni di integralismo essenzialista alle quali assistiamo da oltre mezzo secolo denunciano soprattutto la presenza sempre più tracotante del cosiddetto “Islam militante”, vale a dire un insieme di individui che scelgono l’impegno politico in nome di un Islam inteso alla stregua di un’ “internazionale musulmana”, di una “controsocietà” che realizzi uno “Stato musulmano” sul modello del governo di Maometto alla Medina negli anni 621 e 631.
Tutti i Paesi musulmani avvertono da almeno mezzo secolo profondi sommovimenti tettonici in conseguenza dell’attività dei vari “partigiani di Allah”. E spesso sono scossoni profondi: dalla rivoluzione di Khomeini all’assassinio di Sadat, alle stragi dei religiosi islamici in Siria, all’Afghanistan dei talebani, alle stragi algerine, al ritorno alle moschee in Turchia, allo sterminio dei cristiani nelle Molucche, in Indonesia, nelle Filippine, nel Sudan, in Nigeria, in Bangladesh, in Tanzania, in aree sciite e sunnite, indiscriminatamente. Persino la teocratica Arabia Saudita non è sfuggita al contagio dei “puri”, con la presa degli ostaggi alla moschea della Mecca, nel novembre ‘79. La rivoluzione khomeinista assestò il colpo finale, catalizzando il purismo musulmano. La tensione islamica trovò finalmente un punto di riferimento. Da qui, l’incendio integralista, o il Risveglio islamico. A questo punto, dovrebbe esser chiaro come il “caso Rushdie”, le persecuzioni dei cattolici, gli attentati, siano soltanto finalizzati ad un unico scopo: destabilizzare l’Occidente. Step by step.
«La sovranità non appartiene che a Dio. Egli è il solo giudice e legislatore e colui che dice o pensa il contrario è un infedele – Bisogna governare per mezzo della Legge divina, essa sola ed essa tutta intera; nessuna delle sue disposizioni può essere emendata, sospesa oppure considerata relativa ovvero obsoleta – La società contemporanea è pagana: bisogna farne tabula rasa – Non ci sono che due partiti: il partito di Dio (hizb Allah), cioè i leader dell’Islam politico e i loro seguaci, e il partito di Satana; il primo deve condurre il jihad (la guerra santa) senza tregua né quartiere fino all’instaurazione del governo di Dio».
Queste linee-guida indicate in un saggio di Mohammed Said al-Asmawy, pensatore egiziano, sembrano aderire come un guanto di seta alle affusolate e sanguinanti mani dello sceicco miliardario Osama bin Laden: sono la motivazione dell’odio puro e duro dell’Islam militante, essenzialista, teso, appunto, alla realizzazione del suo obiettivo massimo: il crollo della civiltà, della religione, della cultura dominanti in Occidente.
La guerra santa contro il “nuovo paganesimo” non è condotta da uomini formatisi soltanto nelle scuole coraniche, ma anche in università fondate sul “pensiero pagano” di cui intendono servirsi al fine di poterlo castigare. In Palestina i terroristi suicidi vengono dall’università religiosa, ma molti sono studenti dell’università americana di Beirut, o hanno addirittura frequentato la Sorbona. Ritenendosi vittime di grandi ingiustizie storiche, ne fanno ostinatamente ricadere la responsabilità sull’Occidente, con una particolare predilezione per il “Grande Satana”, gli Stati Uniti. Quegli Usa che, a suo tempo, sostennero Saddam Hussein contro l’Iran o armarono in funzione antisovietica i talebani pakistano-afghani!

Il nero 11 settembre che cambierà i destini del mondo sembra aver congelato la storia come se fossimo entrati in una sorta di èra glaciale dove tutto è buio, dove un gran freddo ci obbliga a pensare solo a noi stessi. Michel Foucault già nel 1978 osservava: «La questione dell’Islam come forza politica è una questione essenziale per la nostra epoca e per molti anni a venire. La prima condizione per trattarla con un minimo di intelligenza è di non cominciare mettendovi odio». L’atto di guerra contro New York e Washington rischia di radicare nell’opinione pubblica l’idea di un’incompatibilità fra mondo islamico e Occidente e il consolidarsi di un’islamofobia che espone al potenziamento delle macchine da guerra, agli attacchi mirati, al rigoroso controllo dei profughi, alla schedatura di popoli immigrati anche da una generazione nei Paesi occidentali.
Tutto questo, conseguente alla violenza che scandisce l’azione dell’Islam, o di un certo Islam, ha generato l’idea che nell’universo musulmano sia il politico a definire la religione e non la religione a definire il politico. Per capire correttamente il fenomeno, va osservato che l’Islam politico è il risultato di una costruzione intellettuale e di una serie di mutamenti che negli ultimi settant’anni hanno interessato le società islamiche. Tutti gli esperti sanno benissimo che l’islamismo esiste realmente in quanto categoria di produzione del politico, che c’è stata una rivoluzione islamica in Iran, e che in vari Paesi alcune formazioni politiche si mobilitano per costruire uno Stato islamico. L’islamismo è una categoria politica, è il risultato di un processo ideologico che si è tradotto in una versione semplificatrice dell’ordine politico nell’Islam, e ha funzionato come ideologia di mobilitazione per le masse.
Questo passaggio dall’Islam all’islamismo è il risultato di un mutamento socio-culturale avvenuto esclusivamente in seno alle masse musulmane, mutamento che sta provocando l’esatto contrario di ciò che esso progettava, cioè la costruzione di uno Stato islamico. Invocando lo Stato come suprema forma della realizzazione dell’Islam politico, gli integralisti islamici hanno paradossalmente desacralizzato (delegittimandolo) il religioso, per entrare nel politico. Il risultato è stato di operare nella società un controllo del politico sul religioso, che si è facilmente trasformato nel dominio del religioso sul politico. Ciò ha determinato non una separazione fra religioso e politico, come è avvenuto in Occidente, bensì un’autonomia del religioso sul politico. L’islamismo ha avuto la meglio sull’Islam, e tutto ciò che avviene (violenze, attentati, persecuzioni, stragi di intellettuali, di artisti, di donne, e regimi assolutisti) va contestualizzato in questa fase storica che potrà preludere a un post-islamismo solo se le minoranze illuminate riusciranno a scampare alla ferocia sanguinaria dei mullah e all’oscurantismo degli ulema e degli imam.

Manhattan, ground zero, sigilla la fine della generosa illusione illuministica del progresso promosso dai “lumi” dell’intelletto. Dal martedì nero, 11 settembre, del nuovo Millennio, non possiamo più fingere di non vedere che noi occidentali abbiamo creato una tecnologia dalla quale non sappiamo difenderci e che non sa difenderci. Siamo vulnerabili (e siamo stati ripetutamente vulnerati) da qualsiasi fattore terroristico scatenante, kamikaze compresi. Con questa differenza: il terrorista laico (occidentale) uccide senza volersi suicidare; il terrorista religioso (musulmano, medio-ed-estremo orientale) si fa autoesplodere. Il pericolo è moltiplicato all’infinito.
Prima di Cristo, 2.500 anni fa, fu Buddha a sostenere che l’odio genera solo odio, e che esso va combattuto solo con l’amore. Venticinque secoli sono un tempo lungo, e per tutto questo tempo la prima parte del dettato buddhista (poi cristiano) è risultata vera, mentre la seconda è sistematicamente venuta meno. L’amore va costantemente predicato, senza dubbio, altrimenti non ci sarebbe limite al peggio. Ma non combatte nulla. Per definizione, l’amore è “non combattimento”. Presumere che i dittatori, i negatori della repubblica possano essere combattuti con l’amore o integrati al sistema democratico con l’amore (come raccontano i fatui terzomondisti dei nostri giorni) è una fuga nell’assurdità.
L’Islam non è una chiesa intesa al modo di quella cattolica. Semmai, è da avvicinare alla frammentazione protestante, anche se persino questa analogia ha punti deboli. Le componenti fondanti dell’Islam sono da un lato il suo testo sacro, il Corano, e dall’altro il diritto islamico. Il Libro ne è l’elemento fisso, il diritto ne è l’elemento variabile. Il che significa che l’Islam viene “deciso” – nella sua evoluzione e diversificazione – dai dottori della legge, che ne hanno fatto una nebulosa di tradizioni e di sette. Tra queste, a pienissimo titolo, c’è l’integralismo.
La tesi integralista è che decadenza e umiliazione dei popoli musulmani derivino dall’abbandono dell’Islam autentico. I muslìm furono una nazione trionfante finché osservarono fedelmente la via indicata da Allah, e hanno perduto il primato perché se ne sono allontanati. Allora, occorre purificare l’Islam da qualsiasi contaminazione occidentale: argomento molto convincente per centinaia di milioni di credenti, e alibi massimo per i teocrati di tutte le latitudini. E argomento che riattiva l’istinto originario, la natura combattente e conquistatrice del messaggio (interpretato) di Allah.
Il ritorno all’Islam puro persegue tre obiettivi: purificare il mondo musulmano; conquistare alla fede i Paesi solo in parte musulmani; intensificare il jihad contro Satana, che è sempre l’Occidente. Con tutto questo noi dobbiamo fare i conti. Con gli “idola” dell’islamismo.

C’è uno scoramento radicale nei confronti della civiltà umana, se essa produce tali mostri nichilisti. Certo, alla radice c’è una realtà che è nello stesso tempo gloriosa e tragica: la libertà, nei cui confronti, secondo la visione cristiana, Dio stesso si arresta per non smentire se stesso. Era stato il Creatore, infatti, ad aver voluto l’uomo non come una stella obbligata da meccaniche celesti, ma come un essere libero e solitario nel decidere la scelta del bene o del male.
Péguy, nel Mistero dei Santi Innocenti, era giunto al punto di mettere in bocca a Dio questo amaro soliloquio: «Gli uomini preparavano tali errori e mostruosità, che io stesso, Dio, ne fui spaventato. Non ne potevo quasi sopportare l’idea. Ho dovuto perdere la pazienza, eppure io sono paziente perché eterno. Ma non ho potuto trattenermi. Era più forte di me. Io ho anche un volto di collera».
Un Dio supercilioso? Tutt’altro, se l’uomo sceglie di negare all’uomo il valore supremo di quella libertà. E in questo senso, anche l’ateo dovrebbe pregare con Zinov’ev, il noto scrittore dell’ormai dimenticato dissenso sovietico, chiedendo a questo Dio di esistere: «Ti supplico, mio Dio, cerca di esistere, almeno un poco! Non avrai da fare nient’altro che questo, seguire ciò che succede [...]. Sforzati di vedere, te ne prego. Vivere senza testimoni, quale inferno! Per questo, forzando la mia voce, io grido, e urlo: Padre mio, ti supplico e piango: esisti!».
Non è da dubitare che, sotto il profilo religioso, affidare la soluzione solo a noi possa essere pericoloso. Anche i giusti possono essere tentati dal tenebroso fascino della violenza come unica replica, in una catena senza fine, secondo una legge codificata lapidariamente da un personaggio biblico, Lamek: «Io uccido un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un livido. Caino fu vendicato sette volte; Lamek settantasette!». L’onda più lunga e drammatica creata da questi orrori è proprio quella di generare odio infinito. Tutta la paziente tessitura del dialogo, del rispetto, della convivenza, della comprensione reciproca è stata lacerata anche nel cuore delle vittime e degli spettatori, che sono tentati dalla legge di Lamek. In uno dei suoi discorsi, Agostino distingue tra ira e odio: «La prima è un’erbaccia, l’altro è un albero». Ciò che corriamo il rischio di veder crescere come una foresta, impenetrabile alla luce di ogni reciproca compassione, è proprio l’odio, che già sonnecchia (come dice la Bibbia) accovacciato sulla porta di ogni cuore.
Questa è una devastazione più duratura di quella delle Twin Towers, che potranno anche risorgere. Noi, i testimoni di questa violenza, non possiamo che ricordare alle religioni che gli idoli non possono essere confusi col vero Dio; che ogni avallo della violenza e ogni abuso politico del nome di Dio è sacrilegio: non possiamo che rimanere occhiutamente vigili e fermamente consapevoli di quelle parole che Brecht poneva a suggello della sua Resistibile ascesa di Arturo Ui: «Imparate che occorre vedere e non guardare in aria; occorre agire e non parlare. Questo mostro stava, una volta, per governare il mondo! I popoli lo spensero, ma ora non cantiamo vittoria troppo presto: il grembo da cui nacque è ancora fecondo!».

E pensare che proprio in America, una decina di anni fa, era stata solennemente proclamata «la fine della storia». La formula apodittica di Francis Fukuyama lasciava immaginare che tutto, in fondo, si era compiuto; che l’Occidente si avviava a non avere mai più nemici; che un ciclo epocale aveva dato quel che poteva dare, dunque la storia si era accartocciata. E buonanotte.
In realtà, bastava guardarsi proprio qualche film americano per avere percezione della smentita. Come, per Conrad, la realtà anticipa sempre la fantasia, così per gli americani l’arte (e il cinema per gli States è considerato arte a pieno titolo) anticipa sempre la storia. Ebbene: c’era un’aria da fine del mondo, in tante pellicole, con città distrutte, civiltà sepolte o inondate, presidenti rapiti, impazziti, alieni mostruosi e conquistatori, catastrofi che con qualche suggestione si potevano definire predittive. Ecco: l’implosione del World Trade Center, (e di mezzo Pentagono!), ridotto a una sorta di romboide irsuto, conferma che la storia non solo continua, ma continua con eccessi spettacolari, cinematografici, nei suoi effetti più devastanti di breve e di lungo periodo, nei contraccolpi psicologici e nel bisogno di vendetta, che sono destinati a sedimentarsi nelle coscienze di ricchi e poveri, di umili e potenti, di indigeni e naturalizzati.
A dieci anni dalla fine della guerra fredda, dieci anni trascorsi anche con l’orgoglio di essere cittadini in qualche modo privilegiati dell’unico Superpotere, è legittimo che gli americani siano oggi sfiorati dal dubbio che quella loro condizione non è più un privilegio, ma un impaccio, o addirittura un pericolo mortale. Ed è qui, con le immagini dello sfarinamento di Manhattan e di migliaia di vite bruciate, che al di là di ogni ribadita e conclamata alleanza con i Paesi occidentali può ridestarsi nel Paese profondo, da Seattle al Missouri, nell’anima collettiva degli States, un riflesso antico, una tentazione ricorrente, un’ombra mai del tutto sopita: l’isolazionismo.
Per quanto semplificata, è un’antica categoria della politica americana, quell’isolazionismo che nasce insieme alla consapevolezza tutta geografica di essere un continente. E’ qualcosa che non si dichiara, ma che si pratica. L’impulso a chiudersi entro i confini naturali di questo continente, a starsene lì per proprio conto, lasciando che gli altri popoli si agitino oltre i deserti e i mari, sembra seguire una pacifica logica pendolare, con oscillazioni più o meno forti, secondo occasioni o circostanze. Per un Kennedy che si dichiara “berlinese”, c’è un presidente che torna ad essere tutto americano. Per un Nixon che va in Cina, c’è un successore che torna a Washington. Questa storia è lunga e non lineare, e tuttavia è stata capace di tenere insieme l’impegno nel Vietnam, l’invasione di Grenada, il disimpegno da Beirut, la fuga dalla Somalia.
E’ qualcosa che va oltre la scoperta dell’imprevedibile fragilità di quel Superpotere americano, le cui caratteristiche “imperiali” alcuni intellettuali conservatori avevano preso da qualche tempo a rivendicare apertamente. Tra i guai di questo Impero, il peggiore è quello di accorgersi all’improvviso (tra polvere, fiamme, macerie e sangue) di non essere eterno, né perfetto, come non lo furono quelli cinese, o persiano, o romano, o carolingio, e via via, fino agli Imperi di Vienna, di Madrid e Lisbona, di Londra e Parigi...
L’umiliante perdita dell’invulnerabilità dominatrice, la fine dell’inviolabilità domestica, l’oggettivo e rovinoso fallimento dello spionaggio più tecnologico, e quindi di quegli stessi sistemi alla Echelon, (il Grande Orecchio rimasto straordinariamente sordo), che avevano suscitato sospetti addirittura negli alleati, possono se non innescare, almeno far venire il dubbio che intervenire troppo generosamente, o troppo militarmente, comunque troppo, non giova più, anzi finisce per far male.
Squarciate le latebre dei simboli che sono soltanto suoi, l’America chiude le frontiere, piange da sola i suoi morti, da sola riflette sui suoi sacrifici, rivaluta le sue vere conquiste, riscopre le sue virtù. Quest’America, alleati o no, farà tutto da sola.

Quattro anni di siccità, venti anni di guerra, due secoli di tensioni mondiali, un lento ritorno a schemi di vita da Medio Evo, una tenaglia teocratica imposta dalla funesta ideologia talebana: l’Afghanistan, il Paese che Marco Polo descrisse come «terra degli alberi e di poponi più dolci che mèle», concede una speranza di vita media di appena 44 anni e condanna all’analfabetismo il 68 per cento dei suoi abitanti. Kabul è una città fantasma, abbandonata da un popolo già di per sé straccione. E’ di notte che, come da gran tempo, le conche altovallive coltivate a papavero e le carovaniere tracciate in direzione di Peshawar sembrano verminare: l’antica via della seta è oggi la via dell’oppio, percorsa da spettrali fellah armati di kalashnikov fabbricati a mano. Vien da chiedersi che senso abbia minacciare di riportare all’età della pietra un Paese che vi è già tornato per conto suo.
Le spianate e i picchi di un fantastico altopiano hanno perso qualsiasi valore economico. Le ricchezze del Settentrione, carico nel sottosuolo di gas, di petrolio, di oro, di titanio, sono sepolte da una guerra civile che non si spegne. Quelle del Meridione, prodotte da un artigianato laniero, con arazzi e tappeti annodati da gentili dita femminili, sono state soffocate da quando le donne sono state costrette a coprirsi interamente con il burka e sono state escluse dallo studio e dal lavoro.
E’ qui, fra queste montagne spettinate dai rabidi venti dell’Asia centrale, fra queste radure che covano piantagioni di fiori quadripetali, svarianti dal rosa all’azzurro, dal verde al viola, con le capsule gonfie di latice gommoso, è qui che la massima potenza economica e militare dovrà tornare a forme di conflitto primordiale, dismettendo le sue armi fantascientifiche e facendo ricorso al corpo a corpo con mujaheddin feroci e temprati all’uso dell’arma bianca. Sia di natura militare, politica, religiosa, lo scontro con l’islamismo richiede un salto indietro nel tempo. Un conteggio sugli anni dell’ègira, e non del calendario gregoriano. Tutt’altro che virtualmente, dobbiamo precipitare nel passato. O, se si preferisce, dobbiamo arretrare nel futuro.

 

I numeri dell’Islam

L’Islam è la seconda religione più diffusa nel mondo, con un miliardo e 200 milioni di fedeli, circa il 20 per cento della popolazione del pianeta. La religione maggiormente professata rimane il Cristianesimo: circa due miliardi di fedeli, il 32 per cento della popolazione del mondo. Ma le proiezioni sullo sviluppo demografico indicano che il sorpasso da parte dei musulmani potrebbe verificarsi nel giro di pochi decenni.

La maggioranza degli americani, il 56 per cento, è di religione protestante. Circa il 2 per cento, vale a dire quasi sei milioni di persone, sono musulmane. Mentre cinquant’anni fa le moschee erano 150, attualmente sono 1.250. I musulmani che sono emigrati in America negli anni Cinquanta e Sessanta sentirono il bisogno di un luogo nel quale ritrovarsi e pregare con i confratelli; tanti di

loro, però, venuti via dalla terra d’origine molto giovani, non avevano una vera coscienza della propria identità e delle loro tradizioni. Diversa la maggior parte dei musulmani che popolano oggi gli Stati Uniti: di ceto medio-alto, con elevato livello culturale, hanno maggior consapevolezza dell’identità.

Nel continente asiatico, i musulmani sono 800 milioni. Cospicue frange aggressive combattono i cristiani e gli induisti in vari Paesi dello scacchiere estremo-orientale.

In Africa ci sono 310 milioni di musulmani. Anche in questo continente forti componenti attuano una politica di aggressione nei confronti dei cristiani di tutte le confessioni e degli animisti, che vogliono conservare le proprie credenze e tradizioni.

I musulmani in Italia sono circa un milione e 200 mila, ma se a questa cifra si aggiungono le proiezioni dell’immigrazione clandestina, la cifra totale sale a un milione e 400 mila, al 90 per cento di sesso maschile. Si calcola che su cento immigrati, il 33 per cento sia musulmano, il 54 per cento cristiano, il 3 per cento buddhista. Secondo il Censis, nel 2010 gli immigrati saranno 8 milioni, cinque dei quali musulmani.

   
   
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