Giugno 2001

SALVATORE TOMA

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Scrivere
a costo di morire
Antonio Errico
 
 

 

 

 

Poeti così, che
sentono l’urgenza
di raccontare
i loro destini,
cominciano senza premesse,
finiscono senza
conclusioni…

 

Quando Toma morì c’era la neve. Neve di marzo tenera, insicura, una neve inaspettata, quasi un sogno. Finibusterrae, ospedale di Gagliano.
Lui se ne andò così, come la neve, in silenzio, senza opporsi, senza pianto, prestando alla morte il fianco per insegnarle il perdono, non il petto per arroganza, né le spalle per viltà. Perché Salvatore Toma conosceva la morte come può conoscerla solo chi conosce la vita; con lei aveva tessuto patti e brindato alla salute, l’aveva sfidata, le aveva chiesto del tempo, le aveva offerto ogni giorno parole, l’aveva distratta con metafore e storie.
Toma conosceva la morte che corteggia, che assedia, che atterrisce, che propone sollievo, che si annuncia con i suoi sonagli d’oro, che promette un’ultima emozione, uno scoppio di felicità, uno smembramento leggero.
Solo il rimpianto gli sciupò la morte: sarei dovuto morire prima di procreare, diceva.
Gli sciupò la morte il rimpianto dei figli, della sua donna, di un bosco, di una poesia che non avrebbe più vissuto come aveva sempre fatto: al di là di ogni misura, senza risparmiarsi mai un’ossessione, senza rinunciare mai a una parola, costasse la parola anche il fegato e il cuore, costasse anche il bruciarsi dentro e intorno tutto quello che dentro e intorno c’è.
Questo era per Toma la poesia. Non era il salotto della vecchia o nuova borghesia finto-intellettuale, i gruppi mascherati da poeti, il bitter con le olive al bar del centro, il libro come tessera dell’exclusive club. Era solitudine, bere solitario, un gioco di dadi, l’azzardo, lo stupore, il conoscere cose orrende, meravigliose, senza fondo; ed era l’ironico dire di sé “a Great Poet”, la consapevolezza triste che poeti si nasce e a volte non si finisce.

Poesia è stata un giocare sincero, un riempire il vuoto pauroso della vita, un rimuovere la pietra dell’esistere per svelare il vermicaio che si agita nel fango; è stata a volte un illudersi di essere vivo, di servire in qualche modo a qualcosa, a qualcuno.
Ci ha creduto. Più di quanto ha creduto a se stesso. Fino all’ultimo respiro, fino in fondo, fino all’ultima goccia di flebo. Con una coerenza spaventosa. Con una fede primitiva.

Quando Toma morì corse voce di un suicidio. Perché sembrava un gesto naturale, la fedeltà ad un’idea, la conclusione perfetta di una poesia. Il personaggio si prestava a questa voce. Le sue radicalità esistenziali, le roventi sue dichiarazioni di poetica, quel suo scrivere il senso del vivere con parole vere, crude, essenziali, senza mascheramenti, senza paure per la verità che gli si denudava davanti impietosa e impudica, davano una concretezza, una fisicità a questa voce. Di suicidio parla anche Maria Corti nell’introduzione al Canzoniere della morte, l’antologia pubblicata da Einaudi nel novantanove. Ma Salvatore Toma non si è suicidato. In questo caso, solo in questo caso, solo alla fine, tra la vita e la poesia non ci fu quella sovrapposizione che c’era sempre stata. Accade a volte anche ai grandi poeti come Toma. Basta un niente, un trasalimento, una nostalgia, e si diventa solo uomini. Solo poveri uomini.
Toma è morto per lo squarcio che l’alcool gli aveva aperto nel corpo.
Da tempo sospettava, sentiva, annunciava che quel suo compagno di scritture a un certo punto, proprio sul più bello, lo avrebbe tradito, lo avrebbe colpito alle spalle. E più sospettava e più lo sfidava. Più lo sentiva e più lo incitava a colpire, una volta per tutte. Lo annunciava per fargli scoprire le carte, per sputtanarlo con tutti gli amici. Ma il suicidio che scriveva – e pensava –, quel suicidio poeticamente maturo, nella realtà non è avvenuto. Nella poesia di Toma il suicidio è stato l’inevitabile verità di una finzione.
Ecco, allora: forse si potrebbe dire: Toma, il poeta, è morto suicida nel pozzo scavato dalle sue parole; Totò, il padre, il compagno di una donna, il compagno di strada e di storie, è morto in quel solito modo in cui muoiono molti uomini, ogni giorno.

(Andammo a trovarlo in ospedale un pomeriggio nevoso, qualche giorno prima che ci lasciasse, Antonio Verri e io. Non si arrivava mai a Gagliano. Non si arrivava mai. Ci disse in un soffio: i bambini. Avrei voluto veder crescere i bambini).

La morte, l’amore, la poesia. Come tre abissi. Come tre cieli. Oppure come un solo nodo, un’ossessione sola, breve e profonda come la sua vita.
Con questo nodo intorno all’esistenza, Totò Toma si faceva paura. Ma un grande poeta, diceva, un grande poeta si riconosce soprattutto dalla paura che si fa.
Pendolare tra il suo nido di Maglie e un bosco di liburni e di corbezzoli, con pochi amici (ma grandi), Toma scriveva. In certi periodi scrive in maniera frenetica, fino a sei poesie al giorno, come testimoniano le date in calce ai testi.
Scrive della morte.

Sbocciano nella mente come fiori a primavera, quando la stagione dell’amore è più vera. Poi muoiono in autunno, nella stagione in cui i fiori muoiono, nella stagione in cui l’amore se ne va.
I morti che vivono nella poesia di Toma sono così: simboli della finitudine e dell’eterno, immagini del tempo e del non tempo, sempre ritornanti, sempre risorgenti, perduti e presenti, eternamente nati, eternamente in noi, specula e coscienza. Sono essi che ci fanno vivere, dice. Sono essi i veri vivi. Sono la concretezza, la realizzazione, la personificazione – ossimoro assurdo che forse congiunge l’essere in vita e l’essere in morte – di un’idea accerchiante, stringente, spaurente e liberatoria nello stesso tempo: l’idea della morte. Che in Toma si fa chiara giorno dopo giorno, istante per istante, precisa, definita, riconoscibile, vicina, dalla fisionomia consueta, familiare. Sarà per questo, forse, che da un certo punto in poi non lo tormenta più. Sarà forse per questo che può anche far pensare a un’alba radiosa, a un’anatra stremata, al mare aperto, un albero, una radice, una terra contesa, un fiore, una montagna. Che fa pensare a Dio: a quel Dio che Salvatore Toma vede, indovina in una pietra qualunque, nella serenità di un’infanzia, in un frutto maturo, in un’onda.
All’interno della sua produzione, che si compone di sei raccolte più alcuni testi sparsi, è possibile circoscrivere un corpus organico formato da Un anno in sospeso (1979), Ancora un anno (1981), Forse ci siamo (1983).
Già i titoli evidenziano una contiguità esistenziale e temporale che lascia trasparire il presagio e l’attesa di un evento straordinario. Dall’incertezza e dall’oscillazione tra condizioni psicologiche che si possono ipotizzare nel primo titolo, si passa, nel secondo, al sollievo o alla consolazione, oppure, se si vuole, alla semplice constatazione della sopravvivenza, per giungere, infine, alla quasi certezza dell’imminenza dell’evento. Senza che sia possibile capire, però, se questa certezza comporti un senso di liberazione dall’ansia dell’attesa o un assalto d’angoscia.
La morte è presenza costante, incombente.
Si aggira tra i versi con immagini, metafore, presentimenti, personificazioni che ne mettono in rilievo la natura concreta, la forza spaventosa, l’onnipotenza.
Con essa Toma stabilisce un rapporto di convivenza regolato da patti corretti e trasparenti, senza inganni, senza infingimenti.
Stabilire un rapporto con la morte significa avere la possibilità di prendere tempo, consentirle di vincere ma non di infierire, permetterle l’assedio ma non il saccheggio.
All’idea della morte come cancellazione, vuoto totale, disfacimento fisico, contrappone un’ideologia poetica secondo la quale la morte è preciso obiettivo esistenziale, deve essere l’ultimo stadio di una graduale e progressiva maturazione del senso dell’esistere. E questa poetica, come ogni poetica, ha bisogno di una progettazione. Per cui se la morte è dimensione poetica dev’essere definita e approvata con coraggio e con coerenza. Anche se poi si cercano consolazioni sollevando polvere sui confini della vita e della morte per renderli incerti, indistinguibili, per tentare di cancellarli.
Scrive d’amore.
Salvatore Toma è anche poeta d’amore: di un amore istintivo carnale vorace.
L’amore è una dimensione della mente e del corpo, che nasce e matura nell’euforia e nella depressione, indifferentemente.
La donna è sussurro, cuore, carne viva, bestia, gambe, conoscenza, desiderio. Ma anche – e soprattutto – dolcezza che fa vergognare il paradiso.
Toma vuole dare alla parola d’amore la corporeità dell’amore. Per questo chiama il corpo con il suo vero nome, sbrogliandolo dai lacci delle convenzioni, dell’ipocrisia, dei moralismi, delle inibizioni. L’amore è erotismo, visceralità, esagerazione, eccessività. Realtà e immaginazione.
Scrive dell’amore quotidiano, a tratti violento, quasi sempre brutale, fatto di rapporti superficiali, stanchi, ripetitivi. Scrive dell’amore sognato, pensato con una fantasia esuberante e concitata.
L’amore è dimensione legata a nodo stretto alla morte.
Hanno forse la stessa origine misteriosa, lo stesso senso di totalità, di incontenibile tensione. Con l’amore e la morte un uomo, una donna, dimostrano a se stessi la propria unicità. Sono l’abolizione dello spazio, il superamento del tempo, un ponte verso l’oltre e l’altrove, l’essenza di una storia personale e di un’esperienza esistenziale cosmica e interiore. Significano un confronto serrato con un altro da sé e con un sé che pretendono l’essenzialità di una domanda formulata dai sensi e dal pensiero e la stessa essenzialità della risposta.
E’ in queste due realtà che si misura l’autenticità dell’essere e dell’esistere: nella loro significanza irripetibile, nelle storie che chiudono e negli orizzonti che aprono, nelle direzioni che si diramano, nel senso del limite, della soglia, della pienezza e della perdita, in questo e in altro che si sottrae alla dicibilità, all’espressione, alla possibilità della parola.

Scrive di poesia, scrive di sé.
A volte tende la parola fino allo strappo dei nessi logici, la svuota, la libera dai significati consueti per caricarla di altri significati: di quelli dirompenti che solo la parola poetica può sperare.
Ma Toma sa che il poeta può solo tentare una poesia e che questo tentare è una disperazione d’uomo, un rasentare la follia, uno sprofondare in mari o un librarsi in cieli che non sono i normali mari o i normali cieli. Sono un destino che volendo si potrebbe anche rifiutare ma a costo di rifiutare anche la poesia. Così, agli amici che gli dicono: Toma, se vuoi continuare a scrivere devi smettere di bere, lui risponde che per smettere di bere deve smettere di scrivere.
Ecco. Non è colpa sua. Non è colpa d’altri. Non è colpa di nessuno.
La colpa – dice – è della stessa poesia che io amo fino alla vita e ormai fino alla morte.
Ed è a questo punto, dunque, che Toma non può più rinunciare, che nasce la sfida tra l’uomo e la morte, tra poesia e poesia.
Allora, Toma registra, testimonia i suoi tentativi di far coincidere la vita e la poesia, di far aderire i segni alle cose, di ridurre – nell’impossibilità di eliminare – il grado di finzione che l’atto poetico pretende e impone. Ed è proprio nel momento in cui la finzione risulta ridotta al minimo che si verifica l’azzeramento della differenza tra l’uomo e il poeta.
Toma, però, sapeva bene che la poesia non può essere la vita, anche se della vita a volte può avere le sembianze oppure farsi specchio più o meno fedele. Sapeva che poteva essere soltanto una delle pallide illusioni della vita. Questo solo. Nient’altro. Un’ebbrezza. Un miraggio.

Quando Toma morì aveva scritto tutto. Anche se pensava ad un altro libro, un altro impasto di sangue e di parole, ad altri graffi sulla faccia dei mattini, sui fianchi delle notti. Anche se pensava ad altre storie d’amore da stringere nella rete dei versi, ad altre sconfinate dolcezze, straordinari furori.
Aveva scritto tutto.
Perché poeti così, creature così, che sentono l’urgenza di raccontare i loro destini, le loro passioni, cominciano senza premesse, finiscono senza conclusioni.

   
   
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