Poeti così, che
sentono lurgenza
di raccontare
i loro destini,
cominciano senza premesse,
finiscono senza
conclusioni
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Quando Toma morì cera la neve. Neve di marzo tenera,
insicura, una neve inaspettata, quasi un sogno. Finibusterrae, ospedale
di Gagliano.
Lui se ne andò così, come la neve, in silenzio, senza
opporsi, senza pianto, prestando alla morte il fianco per insegnarle
il perdono, non il petto per arroganza, né le spalle per
viltà. Perché Salvatore Toma conosceva la morte come
può conoscerla solo chi conosce la vita; con lei aveva tessuto
patti e brindato alla salute, laveva sfidata, le aveva chiesto
del tempo, le aveva offerto ogni giorno parole, laveva distratta
con metafore e storie.
Toma conosceva la morte che corteggia, che assedia, che atterrisce,
che propone sollievo, che si annuncia con i suoi sonagli doro,
che promette unultima emozione, uno scoppio di felicità,
uno smembramento leggero.
Solo il rimpianto gli sciupò la morte: sarei dovuto morire
prima di procreare, diceva.
Gli sciupò la morte il rimpianto dei figli, della sua donna,
di un bosco, di una poesia che non avrebbe più vissuto come
aveva sempre fatto: al di là di ogni misura, senza risparmiarsi
mai unossessione, senza rinunciare mai a una parola, costasse
la parola anche il fegato e il cuore, costasse anche il bruciarsi
dentro e intorno tutto quello che dentro e intorno cè.
Questo era per Toma la poesia. Non era il salotto della vecchia
o nuova borghesia finto-intellettuale, i gruppi mascherati da poeti,
il bitter con le olive al bar del centro, il libro come tessera
dellexclusive club. Era solitudine, bere solitario, un gioco
di dadi, lazzardo, lo stupore, il conoscere cose orrende,
meravigliose, senza fondo; ed era lironico dire di sé
a Great Poet, la consapevolezza triste che poeti si
nasce e a volte non si finisce.
Poesia è stata un giocare sincero, un riempire il vuoto
pauroso della vita, un rimuovere la pietra dellesistere per
svelare il vermicaio che si agita nel fango; è stata a volte
un illudersi di essere vivo, di servire in qualche modo a qualcosa,
a qualcuno.
Ci ha creduto. Più di quanto ha creduto a se stesso. Fino
allultimo respiro, fino in fondo, fino allultima goccia
di flebo. Con una coerenza spaventosa. Con una fede primitiva.
Quando Toma morì corse voce di un suicidio. Perché
sembrava un gesto naturale, la fedeltà ad unidea, la
conclusione perfetta di una poesia. Il personaggio si prestava a
questa voce. Le sue radicalità esistenziali, le roventi sue
dichiarazioni di poetica, quel suo scrivere il senso del vivere
con parole vere, crude, essenziali, senza mascheramenti, senza paure
per la verità che gli si denudava davanti impietosa e impudica,
davano una concretezza, una fisicità a questa voce. Di suicidio
parla anche Maria Corti nellintroduzione al Canzoniere della
morte, lantologia pubblicata da Einaudi nel novantanove. Ma
Salvatore Toma non si è suicidato. In questo caso, solo in
questo caso, solo alla fine, tra la vita e la poesia non ci fu quella
sovrapposizione che cera sempre stata. Accade a volte anche
ai grandi poeti come Toma. Basta un niente, un trasalimento, una
nostalgia, e si diventa solo uomini. Solo poveri uomini.
Toma è morto per lo squarcio che lalcool gli aveva
aperto nel corpo.
Da tempo sospettava, sentiva, annunciava che quel suo compagno di
scritture a un certo punto, proprio sul più bello, lo avrebbe
tradito, lo avrebbe colpito alle spalle. E più sospettava
e più lo sfidava. Più lo sentiva e più lo incitava
a colpire, una volta per tutte. Lo annunciava per fargli scoprire
le carte, per sputtanarlo con tutti gli amici. Ma il suicidio che
scriveva e pensava , quel suicidio poeticamente maturo,
nella realtà non è avvenuto. Nella poesia di Toma
il suicidio è stato linevitabile verità di una
finzione.
Ecco, allora: forse si potrebbe dire: Toma, il poeta, è morto
suicida nel pozzo scavato dalle sue parole; Totò, il padre,
il compagno di una donna, il compagno di strada e di storie, è
morto in quel solito modo in cui muoiono molti uomini, ogni giorno.
(Andammo a trovarlo in ospedale un pomeriggio nevoso, qualche giorno
prima che ci lasciasse, Antonio Verri e io. Non si arrivava mai
a Gagliano. Non si arrivava mai. Ci disse in un soffio: i bambini.
Avrei voluto veder crescere i bambini).
La morte, lamore, la poesia. Come tre abissi. Come tre cieli.
Oppure come un solo nodo, unossessione sola, breve e profonda
come la sua vita.
Con questo nodo intorno allesistenza, Totò Toma si
faceva paura. Ma un grande poeta, diceva, un grande poeta si riconosce
soprattutto dalla paura che si fa.
Pendolare tra il suo nido di Maglie e un bosco di liburni e di corbezzoli,
con pochi amici (ma grandi), Toma scriveva. In certi periodi scrive
in maniera frenetica, fino a sei poesie al giorno, come testimoniano
le date in calce ai testi.
Scrive della morte.
Sbocciano nella mente come fiori a primavera, quando la stagione
dellamore è più vera. Poi muoiono in autunno,
nella stagione in cui i fiori muoiono, nella stagione in cui lamore
se ne va.
I morti che vivono nella poesia di Toma sono così: simboli
della finitudine e delleterno, immagini del tempo e del non
tempo, sempre ritornanti, sempre risorgenti, perduti e presenti,
eternamente nati, eternamente in noi, specula e coscienza. Sono
essi che ci fanno vivere, dice. Sono essi i veri vivi. Sono la concretezza,
la realizzazione, la personificazione ossimoro assurdo che
forse congiunge lessere in vita e lessere in morte
di unidea accerchiante, stringente, spaurente e liberatoria
nello stesso tempo: lidea della morte. Che in Toma si fa chiara
giorno dopo giorno, istante per istante, precisa, definita, riconoscibile,
vicina, dalla fisionomia consueta, familiare. Sarà per questo,
forse, che da un certo punto in poi non lo tormenta più.
Sarà forse per questo che può anche far pensare a
unalba radiosa, a unanatra stremata, al mare aperto,
un albero, una radice, una terra contesa, un fiore, una montagna.
Che fa pensare a Dio: a quel Dio che Salvatore Toma vede, indovina
in una pietra qualunque, nella serenità di uninfanzia,
in un frutto maturo, in unonda.
Allinterno della sua produzione, che si compone di sei raccolte
più alcuni testi sparsi, è possibile circoscrivere
un corpus organico formato da Un anno in sospeso (1979), Ancora
un anno (1981), Forse ci siamo (1983).
Già i titoli evidenziano una contiguità esistenziale
e temporale che lascia trasparire il presagio e lattesa di
un evento straordinario. Dallincertezza e dalloscillazione
tra condizioni psicologiche che si possono ipotizzare nel primo
titolo, si passa, nel secondo, al sollievo o alla consolazione,
oppure, se si vuole, alla semplice constatazione della sopravvivenza,
per giungere, infine, alla quasi certezza dellimminenza dellevento.
Senza che sia possibile capire, però, se questa certezza
comporti un senso di liberazione dallansia dellattesa
o un assalto dangoscia.
La morte è presenza costante, incombente.
Si aggira tra i versi con immagini, metafore, presentimenti, personificazioni
che ne mettono in rilievo la natura concreta, la forza spaventosa,
lonnipotenza.
Con essa Toma stabilisce un rapporto di convivenza regolato da patti
corretti e trasparenti, senza inganni, senza infingimenti.
Stabilire un rapporto con la morte significa avere la possibilità
di prendere tempo, consentirle di vincere ma non di infierire, permetterle
lassedio ma non il saccheggio.
Allidea della morte come cancellazione, vuoto totale, disfacimento
fisico, contrappone unideologia poetica secondo la quale la
morte è preciso obiettivo esistenziale, deve essere lultimo
stadio di una graduale e progressiva maturazione del senso dellesistere.
E questa poetica, come ogni poetica, ha bisogno di una progettazione.
Per cui se la morte è dimensione poetica devessere
definita e approvata con coraggio e con coerenza. Anche se poi si
cercano consolazioni sollevando polvere sui confini della vita e
della morte per renderli incerti, indistinguibili, per tentare di
cancellarli.
Scrive damore.
Salvatore Toma è anche poeta damore: di un amore istintivo
carnale vorace.
Lamore è una dimensione della mente e del corpo, che
nasce e matura nelleuforia e nella depressione, indifferentemente.
La donna è sussurro, cuore, carne viva, bestia, gambe, conoscenza,
desiderio. Ma anche e soprattutto dolcezza che fa
vergognare il paradiso.
Toma vuole dare alla parola damore la corporeità dellamore.
Per questo chiama il corpo con il suo vero nome, sbrogliandolo dai
lacci delle convenzioni, dellipocrisia, dei moralismi, delle
inibizioni. Lamore è erotismo, visceralità,
esagerazione, eccessività. Realtà e immaginazione.
Scrive dellamore quotidiano, a tratti violento, quasi sempre
brutale, fatto di rapporti superficiali, stanchi, ripetitivi. Scrive
dellamore sognato, pensato con una fantasia esuberante e concitata.
Lamore è dimensione legata a nodo stretto alla morte.
Hanno forse la stessa origine misteriosa, lo stesso senso di totalità,
di incontenibile tensione. Con lamore e la morte un uomo,
una donna, dimostrano a se stessi la propria unicità. Sono
labolizione dello spazio, il superamento del tempo, un ponte
verso loltre e laltrove, lessenza di una storia
personale e di unesperienza esistenziale cosmica e interiore.
Significano un confronto serrato con un altro da sé e con
un sé che pretendono lessenzialità di una domanda
formulata dai sensi e dal pensiero e la stessa essenzialità
della risposta.
E in queste due realtà che si misura lautenticità
dellessere e dellesistere: nella loro significanza irripetibile,
nelle storie che chiudono e negli orizzonti che aprono, nelle direzioni
che si diramano, nel senso del limite, della soglia, della pienezza
e della perdita, in questo e in altro che si sottrae alla dicibilità,
allespressione, alla possibilità della parola.
Scrive di poesia, scrive di sé.
A volte tende la parola fino allo strappo dei nessi logici, la svuota,
la libera dai significati consueti per caricarla di altri significati:
di quelli dirompenti che solo la parola poetica può sperare.
Ma Toma sa che il poeta può solo tentare una poesia e che
questo tentare è una disperazione duomo, un rasentare
la follia, uno sprofondare in mari o un librarsi in cieli che non
sono i normali mari o i normali cieli. Sono un destino che volendo
si potrebbe anche rifiutare ma a costo di rifiutare anche la poesia.
Così, agli amici che gli dicono: Toma, se vuoi continuare
a scrivere devi smettere di bere, lui risponde che per smettere
di bere deve smettere di scrivere.
Ecco. Non è colpa sua. Non è colpa daltri. Non
è colpa di nessuno.
La colpa dice è della stessa poesia che io
amo fino alla vita e ormai fino alla morte.
Ed è a questo punto, dunque, che Toma non può più
rinunciare, che nasce la sfida tra luomo e la morte, tra poesia
e poesia.
Allora, Toma registra, testimonia i suoi tentativi di far coincidere
la vita e la poesia, di far aderire i segni alle cose, di ridurre
nellimpossibilità di eliminare il grado
di finzione che latto poetico pretende e impone. Ed è
proprio nel momento in cui la finzione risulta ridotta al minimo
che si verifica lazzeramento della differenza tra luomo
e il poeta.
Toma, però, sapeva bene che la poesia non può essere
la vita, anche se della vita a volte può avere le sembianze
oppure farsi specchio più o meno fedele. Sapeva che poteva
essere soltanto una delle pallide illusioni della vita. Questo solo.
Nientaltro. Unebbrezza. Un miraggio.
Quando Toma morì aveva scritto tutto. Anche se pensava ad
un altro libro, un altro impasto di sangue e di parole, ad altri
graffi sulla faccia dei mattini, sui fianchi delle notti. Anche
se pensava ad altre storie damore da stringere nella rete
dei versi, ad altre sconfinate dolcezze, straordinari furori.
Aveva scritto tutto.
Perché poeti così, creature così, che sentono
lurgenza di raccontare i loro destini, le loro passioni, cominciano
senza premesse, finiscono senza conclusioni.
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