Giugno 2001

L’uomo affabulante

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Pier Paolo Pasolini
“simbolo” e “mito”
Ennio Bonea
 
 

 

 

 

Tutto il libro
sul Pasolini
“affabulante”
rivela l’entusiasmo dello studioso per il tema specifico della ricerca,
il simbolo.

 

Sandro Briosi, introducendo di Carlo Alberto Augieri Sul senso inquietante. La letteratura e le strategie del significante simbolico (Bulzoni ed., Roma, 1996, pp. 148), affermava nella Nota introduttiva: «lo studio del simbolo […] è, oggi, un’operazione tanto più meritoria quanto più rara», riconoscendo allo studioso, docente di Teoria della Letteratura nell’Università di Lecce, due qualità specifiche: generosità intellettuale, per un argomento che viene evitato come oggetto di ricerca, risultando troppo teorico e astratto; ed entusiasmo, per la passione che è alla base della sua quasi decennale trattazione, nello specifico letterario e antropologico, molto più significante che in ambito filosofico. Non attinente alla sfera della razionalità e della concettualità, il simbolo si caratterizza da realtà sensibile, immagine, animale o persona che sia, e rappresenta, convenzionalmente e per associazione di idee, situazioni psicologiche, morali e in particolare nella sfera del sacro, che Augieri, fondendolo con la parola poetica, indaga particolarmente in Davide Maria Turoldo.
Alla base dello studio del simbolo, al quale sembra avere indirizzato il suo impegno di ricercatore, ci sono tre autori-principi: M. Bachtin, nel quale Briosi rileva «consonanze con la concezione che tende ad assimilare parola sacra e simbolo»; P. Ricoeur, specie per il rapporto fra simbolo e metafora, per l’importanza del «passaggio dal mito alla fiaba e dall’epos al romanzo»; E. de Martino, in cui «il rapporto emozione-letteratura non può poi, naturalmente, fare a meno di Freud».
In questo quadro, Augieri, “simbolologo assoluto”, conduce il suo esame letterario, specie sugli autori che maggiormente si prestano ad interpretazioni “magiche”. E’ per questo che Briosi aggiunge che «per amore del simbolo […] gli affida spesso compiti forse superiori alle sue forze».
L’ultimo lavoro di Augieri, Sul senso affabulante, è un’indagine, dice il sottotitolo, su: Pasolini, la letteratura e la ri-simbolizzazione “orizzontale” della storia (Milella, Lecce, 2001, pp. 204), in cinque saggi dal 1996 al 2000, tra Lecce (1996, 1998), Napoli (1997), Siena (2000), su un autore che egli ritiene rappresenti «un nuovo modo simbolico di storicizzare l’uomo; un nuovo modo di scrivere sull’uomo; una diversa proposta su cui affabulare in modo ri-simbolizzante la storia nella quale vive l’uomo».
Questo dunque l’impegno sul quale Augieri ha lavorato, analizzando Pasolini «con la supposizione [Augieri scrive “che”, io cambio preposizione] di cogliere la fenomenologia della trasformazione del simbolico nella scrittura contemporanea».
Il percorso tocca «Pasolini e il simbolo come significante espressivo di storicizzazione», come rapporto di linguaggio discorsivo e immagine simbolica che si fa segno per comunicare e informare e nell’insieme degli eventi si fa storia. Pasolini tocca il tasto della «de-simbolizzazione contemporanea» che, afferma Augieri, «è la causa di molti effetti “mostruosi” sul piano dell’identità “modellizzante” della cultura», tal che Pasolini evidenzia la situazione della Chiesa cattolica che mancherebbe «di Carità, nell’esaminarsi» da parte della Sacra Rota che la richiederebbe come virtù precipua.
E’ la prima volta che Augieri accenna a S. Paolo, a proposito della Sceneggiatura per un film su S. Paolo, come risvolto dell’intreccio tra storia e simbolo che Pasolini aveva già affrontato in Ragazzi di vita (1955), Il Vangelo secondo Matteo (1964), Edipo re (1967), Teorema (1968). In essi, continua Augieri, erano configurati i simboli “accattoni” e “senza potere”, i «personaggi-simbolo, a cominciare dal “classico” Edipo, per finire a Gesù ed all’apostolo Paolo».
Chiarisce più avanti Augieri: «Gesù e San Paolo non sono raccontati da Pasolini come soggetti “fuori” dalla storia, ma “esterni” alla storia “ristretta”, che non coglie arbitrariamente i significati della diversità, deprivandoli del loro potere ermeneutico, della loro “presenza” semantica».
Questa diversione particolare del tema pasoliniano su Gesù e San Paolo mi ha portato, nel corso dei saggi, a vedere se questo argomento di portata religiosa avesse sviluppo. E così è stato, perché nel secondo saggio, dove lo specifico è la citazione, essa suscita in Augieri diversi interrogativi, tra cui in particolare: «Perché c’è differenza […] tra come Pasolini cita le parole di Gesù e quelle di Paolo?».
La citazione dei personaggi mitici-simbolo (qui c’è una commistione, non chiarita, tra “miti letterari” e simbolo), sia storici (Gesù e Paolo), sia testuali (Medea e Edipo), impone che per i personaggi storici, come Gesù e San Paolo, «la loro parola è “sacra” e, perciò, la fedeltà ad essa risponde ad un bisogno di rispetto molto sentito da Pasolini».
Se il film su San Paolo non venne mai realizzato, due documenti narrativi del 1968, Progetto per un film su San Paolo e l’altro un mannello di appunti per un Abbozzo di sceneggiatura per un film su San Paolo, consentono di «citare fedelmente le parole scritte e pronunciate da Paolo durante la sua opera di organizzatore della Chiesa».
Augieri, mi piace sottolinearlo, insiste sulla «citazione come “celebrazione” non rituale della parola simbolica» (titolo del saggio in questione); e quasi a conclusione, precisa: «La citazione della parola di Paolo finisce là dove termina la parola profetica, sacra, che non è quella metafisica, vaticinante, “alta” della “maiestas”, ma quella orale, popolare, realistica, l’unica capace di esprimere il senso dell’alterità, la semantica della simbolicità».
Ritorna Augieri, dopo il saggio napoletano sulla “simbolizzazione senza potere”, sui ragazzi borgatari da Riccetto a il “Calabrese”, il “Cappellone”, “Er Picchio”, “Caciotta”, etc., sulla “diversione” San Paolo, nel saggio leccese del 1998, che riprende sul personaggio «senza potere», «lontano dal palazzo, distante dalla piazza». Edipo, Paolo e lo stesso Pasolini offrono – scrive Augieri – tre «modellizzazioni culturali: greca (l’Edipo re di Sofocle), ebraico-cristiana (la missione di San Paolo, raccontata da Luca negli Atti degli Apostoli) e contemporanea (la “libera” riscrittura pasoliniana dei due testi antichi, profondamente trasposti nella sensibilità e cultura del nostro tempo)».
Questi personaggi ricavati l’uno dal mito e l’altro dalla storia, «riscritti da Pasolini, diventano “consanguinei”, semanticamente vicini, simili». Nel progetto del film non realizzato, Paolo dovrebbe finire condannato a morte da un tribunale americano, ma scrive lo stesso Pasolini: «San Paolo subirà il martirio in mezzo al traffico della periferia di una grande città, moderna fino allo spasimo…».

Nell’ultimo saggio, svolto come relazione a Siena nel giugno 2000, lo studioso svolge il tema del contagio, concettualmente difficile ad essere chiarito nel rapporto significante-significato, nello specifico di Teorema, il cui protagonista – sostiene Augieri – «riesce a contagiare grazie alla “complicità” degli sguardi della famiglia che lo accoglie […], i cui membri vengono ad uno ad uno inevitabilmente, ma innocentemente, attratti dalla presenza dell’ospite».«Il contagio – spiega il critico – motiva una partecipazione intima, un abbandono totale, per il quale anche i confini tra io e tu diventano labili, inappropriati».
Tutto il libro sul Pasolini “affabulante”, parafrasando il pensiero di Briosi, rivela l’entusiasmo dello studioso per il tema specifico della ricerca, il simbolo e per il tema particolare, che è P. P. Pasolini; ma forse eccede, perché l’ultimo saggio, quello sul “contagio”, è di difficile digestione da parte dei non specialisti e comunque di laboriosa… masticatura.
La cosa che mi ha richiamato un altro libro è il riferimento che Augieri fa a San Paolo nel primo (pp. 15-46), nel secondo (pp. 47-72) e nel quarto saggio (pp. 117-160), dove l’apostolo è “consanguineo” con Edipo e resta, nella simbolizzazione augeriana, quello che dichiara Pasolini nel postumo San Paolo (Einaudi, Torino, 1977): «il mio primo obiettivo è quello di rappresentare fedelmente l’apostolato ecumenico di San Paolo, vorrei potermi disobbligare anche da una certa coerenza esteriore e letterale».
L’altro libro sul rapporto Pasolini-San Paolo, uscito all’inizio del 2000, di Ilario Quirino, Pasolini sulla strada di Tarso, C. Marco ed., Lungro di Cosenza, 1999, pp. 194, mostra invece la identificazione di Pasolini e San Paolo, sin dalla concezione politico-semantica della libertà: «la parola “misteriosa” – afferma Quirino – utilizzata da Pasolini per definire la libertà è mutuata dal mistero divino proclamato da San Paolo», ricavata dalla I Lettera ai Corinzi.
E aggiunge l’autore, che è un medico-pittore, suggestionato dall’analisi condotta in piena autonomia dal pittore Giuseppe Zigaina che introduce il suo libro e non tralascia l’interpretazione poetica di E. Sanguineti, che parla della morte violenta di Pier Paolo come di «un suicidio per delega», aggiunge dicevo: «la libertà per San Paolo come per Pasolini si trasforma nel desiderio del sacrificio che si compie fatalmente per entrambi».
Quirino persegue la sua concezione contaminante tra il santo e l’intellettuale marxista con una sua strategia analitica, spaziando su tutta l’opera e la vita di Pasolini, sino a condividere l’ipotesi pasoliniana sulla omosessualità del santo, avanzata negli Scritti corsari e nei versi inclusi in La nuova gioventù.
Questo processo di identificazione si matura attraverso l’opera complessiva di Pier Paolo, ma particolarmente nella poesia Tarso, da lontano, «composta dal poeta in occasione del suo viaggio in Cappadocia per girare le scene di Medea».
All’arrivo nella città natale di Paolo, nella pianura «misteriosamente tiepida», Pasolini confessa: il Nostro cuore ci balzò in petto premuroso / Eh già, per Noi tutto questo tempo è stata una parentesi, / chiusa dal Nostro arrivo. Furono aboliti / questi eterni due millenni. Il punto in cui Paolo / era lì e il punto in cui Noi arrivammo furono contigui. Commenta Quirino: «quel “Noi” e quel “Nostro” non possono che riunirlo al fratello Guido in un’unica entità proiettata verso un destino comune, sancito dall’esempio dell’apostolo». «Ricordiamo che Pasolini – continua Quirino – aveva utilizzato in più occasioni tale espressione rievocando l’uccisione del fratello: Con la testa spaccata, la nostra testa, tesoro / umile della famiglia.
Nella poesia Tarso, da lontano, la lettera maiuscola “N” conferisce al discorso del poeta una maggiore solennità».
Leggiamo nella poesia, più avanti, un verso in un certo senso rivelatore: ho Ri-trovato il luogo, Ri-vedo le azioni, Ri-ascolto le parole; sembra che Pier Paolo voglia, saltando a piè pari millenni, applicare la regola matematica della proprietà transitiva e ri-trovare il luogo, ri-sentire le parole, ri-vedere le azioni, per accomunare l’assassinio del fratello Guido (1945) con la decapitazione di San Paolo (65 o 67 d.C.) e, quasi profeticamente, la propria fine (1975).
Con queste sovradimensionate interpretazioni testuali, Pasolini diviene una reincarnazione laico-politica di san Paolo. Indubbiamente, per un eccesso d’amore ideal-letterario-religioso, c’è una forzatura ermeneutica che, vivo Pier Paolo, poneva specularmente Guido Pasolini e San Paolo; morto il poeta, il rapporto di identità è, per Quirino, tra il poeta e il santo!
In questa ottica, si amplia a dismisura l’emblematismo degli accostamenti: la decapitazione di San Paolo alle acque Sestie, sulla via Ostiense, e lo scempio del corpo di Pier Paolo fatto ad Ostia (con la diversione etimologico-mitica sottolineata da Zigaina, citato a proposito da Quirino, «significa anche vittima consacrata»), acquistano un senso, se non magico, significativo, sino a ritrovare un altro segno nell’età dei due, che morirono, scrive Quirino: «Il martire […] ucciso a 54 anni e, come è noto, Pasolini spirò a 53 anni».
Due libri del tutto diversi, anche se convergenti sull’argomento trattato; quasi coincidenti temporalmente e casualmente convergenti per il rapporto Pasolini-San Paolo di Tarso: marginale per il testo di Augieri, fondamentale e prevaricante in modo esclusivo, pur nella quasi totalità dei testi paolini, nel saggio di Quirino.
Le divaricate interpretazioni sono dovute alla valutazione “mitica” di Pasolini che Quirino, secondo la concezione di Mircea Eliade, ha spinto al tempo favoloso degli inizi cristiani; il compito analitico di Augieri è quello di ritenere P. P. P. “simbolo” inteso «non “contenuto”, ma “attrezzo” mentale con cui l’uomo guarda da sempre le “stesse” cose, sempre interrogandosi se esse non siano anche “diverse”».

   
   
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