E noi tutti in riga, in attesa di questo personaggio
nel nome del quale erano rimaste
come sospese
a mezzaria la vita e le voci di
piazzetta Gabbiai.
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Era un brillante pensatoio la casa di Enzo Esposito, viva di calce,
a tetto spiovente, arrampicata sulla galatinese piazzetta Gabbiai,
tra Porta Luce (reperto di mura obsolete) e lincombente barocco
dei palazzi e delle chiese alla mano di levante. Lì era nata
la rivista Antico e nuovo, pochi numeri, uno dei primi tentativi
del dopoguerra di far ponte tra passato e presente. Lì si
incontravano studiosi di belle speranze, i tre Romano, don Attilio
Galati, Celestino Galluccio, il preside Martinez, il professor Faraone,
Carlo Stasi, Ottorino Specchia, poeti, narratori, saggisti, scultori,
corrispondenti di giornali e periodici: gli stessi che frequentavano
il celebre Sgabuzzino di via Cavoti, noto anche come
la frigorifera, per via del freddo cane che vi faceva.
E lì sopraggiunse un giorno leco avvisatore:
Sta venendo il professor Marti! .
E doveva essere un avvenimento, a giudicare dallagitazione
che lannuncio provocò in tutto linterno
vicinale, una corona di case con le stanze infilate alla maniera
greca, cinque o sei ceppi familiari che alla solidarietà
di cortile nel bene e nel male partecipavano a pieno titolo di adesione
e curiosità. Ma: piazza pulita, stop allo stormo di monelli
rissosi e vocianti che si sbucciavano rotule e alluci giocando sulla
terra battuta con unimprovvisata palla di pezza (un mucchietto
di stracci arrotolati in una calza da donna più volte rigirata
in se stessa); e via le sedie impagliate e stortignaccole in circolo
giù, a ridosso di una gobba di pietra viva, forse una mezza
volta a botte che reggeva la scala a due rampe che portavano su
una sorta di loggetta con archetto-finestra senza imposte, di quelli
utili allaffaccio-osservazione-cicaleccio delle donne e allostensione
delle coperte damascate al passaggio delle processioni.
Viene il professor Marti! , e noi ragazzi di primissimo
pelo, immigrati provvisori del quartiere, tutti in riga sulla parete
dirimpettaia, in attesa di questo personaggio nel nome del quale
erano rimaste come sospese a mezzaria la vita e le voci di
piazzetta Gabbiai. Sarebbe venuto e lo avremmo visto, il professore,
col suo sguardo fermo, il passo sicuro, forse con baffi e barba,
e chissà, col bastoncino da passeggio allombra di un
borsalino levigato. Una figura classica, per la nostra fantasia
intrigata dalla lettura di Cuore e dallo stereotipo dellinsegnante
burbero-severo che solo a chiamarti per nome ti faceva sentire piccolo
così.
Radio-fante, intanto, aveva sparso la voce: Viene in casa
Esposito il professor Marti! . E altri giovani, di laurea
recente, si trovarono a passare da quelle parti per caso,
Giovanni Francesco Romano, suo cugino dai nomi invertiti, Francesco
Giovanni, e Luigi Manna, e altri che proprio non conoscevamo...
Venivano, parlottavano nel pensatoio, e se ne andavano. Mentre il
tempo passava, il sole si muoveva. Noi no. Volevamo vederlo, il
professore, vivere lavvenimento, raccontare ai nostri che
ceravamo stati. LOrologio in testa alle guardie municipali
scandiva i tocchi, il vento ci portava leco barcollante delle
sue campane, quattro per la piccola, undici per la grande. Un tocco
sottile per ogni quarto dora, uno fondo per ogni ora. Fino
a quando lantiporta a vetri con tendine di casa Esposito si
chiuse sul rito del pranzo meridiano. E il professore? E il cappello,
la barba, il bastone? E lo sguardo severo, e il passo sicuro? Zero
spaccato!
Era venuto, era salito, aveva incontrato il suo amico e poi se ne
era andato, Mario Marti. Giovane come tutti gli altri (uno degli
sconosciuti), ma già di maggior fama e di più vasti
e riconosciuti interessi letterari. Ci aveva fregato, il professore,
lasciando a noi distrattissimi spettatori di fondale solo il sorriso
luminoso della signora Ida, madre di Enzo, rivolto alluniverso
del caseggiato: il segno del trionfo, il viatico più ambito,
lincontro iniziatico...
(Non) ti ho conosciuto così, lo confesso sul filo della memoria,
professor Mario Marti. A ripensarci, sei stato unattesa fatalmente
elusa, uno sfiorarsi di sguardi curiosi (unidirezionali, certo)
casualmente strambato, in tempi in cui un professore valeva assai
più di un odierno televisore e una buona lettura (i Kipling,
i Defoe, i Salgari, i Verne, i London, i Fucini-Tanfucio, i Dickens,
i Remarque, i Dumas, i Conrad, i Cervantes, i Melville, le Selma
Lagerlöf, gli scrittori di mare e di palude, gli esploratori
di terre vergini e di latitudini esotiche della mia adolescenza
sognatrice e avventurosa) assai più delle sciatte terze
pagine o degli astrusi paginoni dei nostri giorni
allucinati e ringhiosi.
Sarebbe trascorso un bel po di tempo, professore, prima che
prendessi contatto e persino confidenza (rispettosa) con te. Io
con i microfoni in mano, alle prese con il diffusore
(come qualche bello spirito, in vena di originalità a tutti
i costi, chiama ora lantica, splendida ed eterna radio), e
una tv e una rivista che mi stirano la pelle; e tu sempre senza
occhi al fulmicotone e senza voce burbera, anzi amicalmente disponibile,
fino a subire le imperiose ingiunzioni che ti hanno
costretto a spedirmi questo scritto. Nel quale cè un
quasi schivo rivelarsi anche a quanti di te conoscevano tanto, e
malgrado lallocuzione non conoscono ancora tutto, e soprattutto
il tuo essere tuttora, come allora, (nel lago del cuore,
se vuoi proprio), giovane, nocciolo nucleare, incrocio
di fusione tra contigue generazioni, emblematico testimone di continuità
della cultura umanistica. Senza la quale, in tempi di genomi ordinatamente
pitagorizzati, di superstizioni ostinatamente amplificate, di planetari
traffici di merci e di carne umana (La gente nuova e i sùbiti
guadagni / orgoglio e dismisura han generata), avremmo lavorato
in tanti, come le streghe di Macbeth, a unopera senza nome.
Grazie a te, dunque, e onore a te. Da noi di Apulia, da Lecce, dal
Sud, dalla cultura e dallintelligenza non soltanto italiane.
E dal monello on the road che ti attese in piazzetta Gabbiai.
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