Giugno 2001

Viene il professor Marti!

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Sul filo della memoria
a. b.
 
 

 

 

 

E noi tutti in riga, in attesa di questo personaggio nel nome del quale erano rimaste
come sospese
a mezz’aria la vita e le voci di
piazzetta Gabbiai.

 

Era un brillante pensatoio la casa di Enzo Esposito, viva di calce, a tetto spiovente, arrampicata sulla galatinese piazzetta Gabbiai, tra Porta Luce (reperto di mura obsolete) e l’incombente barocco dei palazzi e delle chiese alla mano di levante. Lì era nata la rivista Antico e nuovo, pochi numeri, uno dei primi tentativi del dopoguerra di far ponte tra passato e presente. Lì si incontravano studiosi di belle speranze, i tre Romano, don Attilio Galati, Celestino Galluccio, il preside Martinez, il professor Faraone, Carlo Stasi, Ottorino Specchia, poeti, narratori, saggisti, scultori, corrispondenti di giornali e periodici: gli stessi che frequentavano il celebre “Sgabuzzino” di via Cavoti, noto anche come “la frigorifera”, per via del freddo cane che vi faceva. E lì sopraggiunse un giorno l’eco avvisatore: – Sta venendo il professor Marti! –.
E doveva essere un avvenimento, a giudicare dall’agitazione che l’annuncio provocò in tutto l’“interno” vicinale, una corona di case con le stanze infilate alla maniera greca, cinque o sei ceppi familiari che alla solidarietà di cortile nel bene e nel male partecipavano a pieno titolo di adesione e curiosità. Ma: piazza pulita, stop allo stormo di monelli rissosi e vocianti che si sbucciavano rotule e alluci giocando sulla terra battuta con un’improvvisata palla di pezza (un mucchietto di stracci arrotolati in una calza da donna più volte rigirata in se stessa); e via le sedie impagliate e stortignaccole in circolo giù, a ridosso di una gobba di pietra viva, forse una mezza volta a botte che reggeva la scala a due rampe che portavano su una sorta di loggetta con archetto-finestra senza imposte, di quelli utili all’affaccio-osservazione-cicaleccio delle donne e all’ostensione delle coperte damascate al passaggio delle processioni.
– Viene il professor Marti! –, e noi ragazzi di primissimo pelo, immigrati provvisori del quartiere, tutti in riga sulla parete dirimpettaia, in attesa di questo personaggio nel nome del quale erano rimaste come sospese a mezz’aria la vita e le voci di piazzetta Gabbiai. Sarebbe venuto e lo avremmo visto, il professore, col suo sguardo fermo, il passo sicuro, forse con baffi e barba, e chissà, col bastoncino da passeggio all’ombra di un borsalino levigato. Una figura classica, per la nostra fantasia intrigata dalla lettura di Cuore e dallo stereotipo dell’insegnante burbero-severo che solo a chiamarti per nome ti faceva sentire piccolo così.
Radio-fante, intanto, aveva sparso la voce: – Viene in casa Esposito il professor Marti! –. E altri giovani, di laurea recente, si trovarono a passare da quelle parti “per caso”, Giovanni Francesco Romano, suo cugino dai nomi invertiti, Francesco Giovanni, e Luigi Manna, e altri che proprio non conoscevamo... Venivano, parlottavano nel pensatoio, e se ne andavano. Mentre il tempo passava, il sole si muoveva. Noi no. Volevamo vederlo, il professore, vivere l’avvenimento, raccontare ai nostri che c’eravamo stati. L’Orologio in testa alle guardie municipali scandiva i tocchi, il vento ci portava l’eco barcollante delle sue campane, quattro per la piccola, undici per la grande. Un tocco sottile per ogni quarto d’ora, uno fondo per ogni ora. Fino a quando l’antiporta a vetri con tendine di casa Esposito si chiuse sul rito del pranzo meridiano. E il professore? E il cappello, la barba, il bastone? E lo sguardo severo, e il passo sicuro? Zero spaccato!
Era venuto, era salito, aveva incontrato il suo amico e poi se ne era andato, Mario Marti. Giovane come tutti gli altri (uno degli sconosciuti), ma già di maggior fama e di più vasti e riconosciuti interessi letterari. Ci aveva fregato, il professore, lasciando a noi distrattissimi spettatori di fondale solo il sorriso luminoso della signora Ida, madre di Enzo, rivolto all’universo del caseggiato: il segno del trionfo, il viatico più ambito, l’incontro iniziatico...
(Non) ti ho conosciuto così, lo confesso sul filo della memoria, professor Mario Marti. A ripensarci, sei stato un’attesa fatalmente elusa, uno sfiorarsi di sguardi curiosi (unidirezionali, certo) casualmente strambato, in tempi in cui un professore valeva assai più di un odierno televisore e una buona lettura (i Kipling, i Defoe, i Salgari, i Verne, i London, i Fucini-Tanfucio, i Dickens, i Remarque, i Dumas, i Conrad, i Cervantes, i Melville, le Selma Lagerlöf, gli scrittori di mare e di palude, gli esploratori di terre vergini e di latitudini esotiche della mia adolescenza sognatrice e avventurosa) assai più delle sciatte “terze pagine” o degli astrusi “paginoni” dei nostri giorni allucinati e ringhiosi.
Sarebbe trascorso un bel po’ di tempo, professore, prima che prendessi contatto e persino confidenza (rispettosa) con te. Io con i microfoni in mano, alle prese con il “diffusore” (come qualche bello spirito, in vena di originalità a tutti i costi, chiama ora l’antica, splendida ed eterna radio), e una tv e una rivista che mi stirano la pelle; e tu sempre senza occhi al fulmicotone e senza voce burbera, anzi amicalmente disponibile, fino a subire le “imperiose ingiunzioni” che ti hanno costretto a spedirmi questo scritto. Nel quale c’è un quasi schivo rivelarsi anche a quanti di te conoscevano tanto, e malgrado l’allocuzione non conoscono ancora tutto, e soprattutto il tuo essere tuttora, come allora, (nel “lago del cuore”, se vuoi proprio), “giovane”, nocciolo nucleare, incrocio di fusione tra contigue generazioni, emblematico testimone di continuità della cultura umanistica. Senza la quale, in tempi di genomi ordinatamente pitagorizzati, di superstizioni ostinatamente amplificate, di planetari traffici di merci e di carne umana (“La gente nuova e i sùbiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata”), avremmo lavorato in tanti, come le streghe di Macbeth, a un’opera senza nome.
Grazie a te, dunque, e onore a te. Da noi di Apulia, da Lecce, dal Sud, dalla cultura e dall’intelligenza non soltanto italiane. E dal monello on the road che ti attese in piazzetta Gabbiai.

   
   
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