Giugno 2001

RIFLESSIONI

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Il male oscuro
dell’inquietudine
Ersilio Tonini
Cardinale e Vescovo Emerito di Ravenna
 
 

 

 

 

Il problema dei problemi che
impegnerà il
nostro secolo
e forse l’intero
millennio è “come vivere insieme umanamente”.

 

Ci fu un tempo in cui per smontare una notizia bastava dire: «E’ soltanto roba di cronaca». Erano gli anni in cui la lettura dei giornali era, per i più, riservata alla domenica, senza che la vita delle famiglie e del Paese ne risentisse un granché: scorreva tutto eternamente uguale, almeno fino allo scoppio di un’altra guerra, per quali ragioni poi era proibito saperlo. Che le cose stiano lievemente cangiando non c’è dubbio. E non tanto per la quantità delle notizie che adesso ci diluviano addosso.
La novità sta nel fatto che nella cronaca degli accadimenti quotidiani ci stanno, in forma umbratile, i preannunci di un futuro dai contorni indefiniti, bastevoli comunque a insinuare astutamente congetture e sospetti inquietanti. Girando in lungo e in largo il nostro Paese, mi rendo conto di come un vasto senso di precarietà e di inquietudine struggente abbia investito l’anima dell’intera popolazione. Evidentemente, dell’euforia del 1989 non c’è più traccia alcuna. Non è bastata insomma la caduta dell’ultimo totalitarismo perché potessimo finalmente respirare una preziosissima pace e gustare la dolcezza della vita, con in più il conforto del benessere. Del resto, sono gli osservatori più attenti dell’attuale realtà europea a sottolineare un diffuso senso di precarietà proprio per l’incapacità di decifrare i lineamenti di ciò che ci attende: tutto infatti sembra divenuto possibile, compreso l’inimmaginabile. E’ un po’ come ci si aspettasse una “deportazione” verso il futuro. Annotazioni piuttosto severe, che comunque ritornano insistenti su tutta la stampa europea con toni particolarmente acuti presso quella francese e britannica, il tutto non senza fondate ragioni.
Una cosa infatti è certa: ed è che il problema dei problemi che impegnerà il nostro secolo e forse l’intero millennio è “come vivere insieme umanamente”. Ma ripetiamolo ancora “umanamente”, senza cioè ricadere in un ordine tirannico – che è la via più rapida – oppure perdersi in un disordine ugualmente disumano, ove i segni della propria dignità sembrano riservati soltanto a pochi.

Quel che si ripresenta, insomma, è l’eterno problema dell’“uno” e dei “molti”, che ha affaticato la comunità umana fin dai suoi primordi. Solo che stavolta si presenta in proporzioni inaudite e non per capriccio di nessuno, ma in virtù dell’imponente sviluppo umano che si manifesta nella mondializzazione di ogni forma di vita, cui si aggiunge quel fenomeno del riversarsi di continenti in altri continenti: una tale transumanza, quale nessuna immaginazione umana e nemmeno la più fervida immaginazione poteva prevedere.
Si tratta di una prospettiva che sta sbalordendo anche gli osservatori più preparati, come George Steiner ed Edgard Morin, convinti come sono che la nostra generazione non abbia più valori fondativi su cui rimodellare e dare un’anima alla prossima impaginazione dell’umanità. «Neppure la gloriosa nostra trinità laica – così Edgard Morin – è in grado di ripetere il miracolo del passato, dal momento che lo stare insieme della triade “liberté, égalité, fraternité” si è rivelato ormai impossibile». E così siamo al punto decisivo! C’è ancora speranza di un futuro umano per le prossime generazioni?
Ed è qui che bisogna avere il coraggio di ripetere forte che, per fortuna, una ricchezza vastamente diffusa sussiste ancora intatta nelle coscienze dell’attuale generazione; e sta tutta intera in quei due forti convincimenti che sono il patrimonio a noi trasmesso dalla civiltà greco-ebraico-cristiana. Parlo anzitutto del valore ugualmente sacro di ogni persona umana con ciò in più che è stato il profumo offerto dal Cristianesimo: la maggior uguaglianza dei più deboli, ossia il “favor juris”. E così siamo al punto decisivo del nostro discorso. E’ infatti negli eventi della cronaca di questi giorni che quell’eredità, quei preziosissimi convincimenti sono chiamati in causa. Ed è su di essi che urge richiamare l’attenzione, non soltanto perché si accorra tutti a loro difesa. Quel che urge soprattutto è rifondare nelle coscienze delle nuove generazioni quell’umanesimo, quella sapienza umano-cristiana che si preannuncia come la causa ideale dell’attuale secolo, anzi del millennio.

E perché non renderci conto che di occasioni per quei richiami ne sovrabbondano nella cronaca di questi stessi nostri giorni? Confessiamo allora chiaramente che sono questi i momenti più decisivi per la storia del giornalismo in tutte le sue forme. Sempreché investa i suoi interessi non tanto nello sbalordimento che la cronaca può offrire, quanto piuttosto sui valori nascosti negli accadimenti. Occorre in altre parole che il giornalismo stesso finalmente si accorga di avere un compito sapienziale. E’ il tempo di cui Platone diceva: «Verrà un giorno in cui avremo bisogno di un popolo di filosofi». Ed è qui che sta la sfida per un giornalismo che sta per diventare il vero parlamento mondiale.

   
   
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