Coll.:
Luigi Caimpenta
Rosanna Valenza
Sheila Barhabhi
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Tutto ebbe inizio
nel giugno di 1.174 anni fa. Un dottore della legge, un monarca
e un traditore furono i protagonisti iniziali di quella grandiosa
avventura ai confini nord del bacino mediterraneo.
Il possente monastero-fortezza di Susa, in Tunisia, detto in arabo
ribàt, era stato costruito solo da pochi anni.
Era il simbolo della guerra santa islamica (il jihàd),
dellardore guerriero di un popolo che credeva nel potere spirituale
delle armi: se il Corano era il simbolo del jihàd interiore,
la spada rappresentava lemblema del jihàd esteriore,
ma entrambi concorrevano allo stesso fine, che era quello di convertire
le genti alla fede nellunico Dio vero. Non a caso il primo
jihàd (che letteralmente significa sforzo, energia
che muove alla conquista delle anime) fu realizzato dai mercanti
dioula i quali, partendo dallarea orientale dellAfrica,
convertirono i popoli occidentali del Continente Nero, prima di
rivolgere lattenzione a quelli del centro e dellarea
sub-sahariana. Erano, quei mercanti, sostanzialmente, mercanti-guerrieri,
e anche per questo ebbero facilmente ragione sulle fragili resistenze
delle genti dedite al politeismo e al feticismo stanziate al di
qua e al di là del grande deserto. Ecco anche perché,
in quella tiepida alba del 13 giugno dellanno di Cristo 827
(erano da poco trascorsi due secoli dallinizio dellEgira,
lera islamica) i diecimila uomini dellesercito aghlabita,
schierati dentro il ribàt e intorno alle sue mura, e già
pronti a imbarcarsi sulle cento navi che li avrebbero trasferiti
sulle coste della Sicilia, accolsero con un silenzio carico di emozione
lapparire del loro venerabile condottiero, Sinàn Asàd
ibn al-Furàt.
Certamente, Asàd non aveva laspetto del giovane, vigoroso
guerriero di cui le milizie di Allah avrebbero avuto bisogno. Era
un vegliardo dalla barba bianca, magro come uno stilita e leggermente
incurvato dal peso degli anni (aveva superato la settantina). Ma
se Ziyàdat Allah, lemiro aghlabita di Quayrawàn,
aveva scelto lui per guidare lesercito alla conquista della
Sicilia, una buona ragione doveva pur esserci.
E infatti cera. Ed era che Asàd, tanto per dirla in
termini moderni, incarnava perfettamente la figura del leader carismatico.
Non era un guerriero, ma un uomo di dottrina, un insigne giurista.
Aveva scritto libri importanti, e indicato ai fedeli la via migliore
per imitare la santità del Profeta. Austero e coraggioso,
non era immune da una punta di superbia. Infatti era solito vantarsi
dei significati del suo triplice nome. Diceva: «Sinàn
è la più acuta delle armi [in arabo significa lancia];
Asàd [leone] è il re degli animali; Furàt
[Eufrate] è il fiume più maestoso del
mondo». Alle orecchie degli arabi e dei berberi, assuefatte
per cultura a questo genere di vanterie, frasi del genere dovevano
suonare come una musica piacevole e corroborante.
Asàd giunse dunque in mezzo ai diecimila soldati, salì
sugli spalti del ribàt, e in quel silenzio solenne cominciò
a parlare. Doveva incitare gli uomini al combattimento, e incoraggiarli
ad affrontare unimpresa che si annunciava tuttaltro
che facile: sfidare le correnti del Canale di Sicilia, sbarcare
su una terra ignota, e lì dare lassalto a fortezze
munitissime, e battersi con le truppe bizantine, che per numero
erano certamente superiori. Ma il vecchio teologo cominciò
a parlare come se, invece che soldati, avesse di fronte gli allievi
di una scuola coranica: «Su, dunque, sforzate gli animi, affaticate
i corpi nel cercare scienza, e fatene tesoro, né siatene
giammai sazii, né vinti dai travagli che ella vi arreca,
e sappiate che ne conseguirete la ricompensa in questa vita, e in
quella che è di là da venire».
Attoniti, ma ben consapevoli del significato di quelle parole, i
soldati stavano ad ascoltare, mentre il sole si sollevava dalla
linea dellorizzonte. Sapevano bene che la scienza
cui alludeva Asàd altro non era che la conoscenza interiore,
la realizzazione spirituale che si ottiene soltanto con una guerra
santa fatta di meditazione, preghiera e virtù. In altri termini,
Asàd intendeva dir loro: «Voi che vi apprestate ad
usare la spada contro un nemico esteriore, ricordate che il vero
nemico è dentro di voi, e che la vostra guerra esteriore
avrà senso soltanto se la vittoria sarà per voi un
simbolo della vittoria interiore».
Un poco in disparte, accanto alla porta intarsiata della moschea
che fronteggiava il ribàt, anche uno straniero ascoltava
il discorso di Asàd. Ben poco, probabilmente, egli capiva
di quelle parole arabe. Ma ne intuiva la sacralità. Quello
straniero si chiamava Eufemio, era un cristiano, un siciliano, comandante
della roccaforte bizantina di Messina. Ed era un traditore. Senza
la sua iniziativa, Ziyàdat Allah non avrebbe mai pensato
di raccogliere il fior fiore del suo esercito per tentare limpresa
doltremare. La storia di Eufemio è confusa nella leggenda,
ma è assolutamente autentica: pur con tutta una serie di
varianti, gli storici cristiani e quelli musulmani sono concordi
nel riferirla come vera.
Narra dunque, questa storia leggendaria, che il focoso Eufemio si
innamorò un giorno di una bellissima fanciulla, che da poco
tempo aveva preso i voti e si era data alla vita del chiostro. Con
incosciente temerarietà, Eufemio la rapì dal convento
e la fece sua. I fratelli di costei, terribilmente offesi, si appellarono
a Michele il Balbo, imperatore di Bisanzio, e questi sentenziò
che, per punizione, Eufemio doveva subire lamputazione del
naso.
Il rapitore della monaca non si diede per vinto. Distribuì
promesse ai suoi soldati e ne ottenne un giuramento di fedeltà.
Poi si imbarcò per la Tunisia, raggiunse Susa, e da lì
si recò a Quayrawàn, per invocare lintervento
di Ziyàdat Allah. Lemiro si lasciò convincere,
e prese la storica decisione: destino volle, poi, che limpresa
riuscisse, e che la Sicilia rimanesse sotto la dominazione dei musulmani
per circa due secoli.
Quando Asàd ebbe finito il suo discorso, le truppe si imbarcarono.
La traversata fu felice e durò un giorno e una notte. Allalba
del 14 giugno la flotta giunse in vista di Mazara. Ebbe inizio la
lunga e vittoriosa conquista: ma né Asad né Eufemio
riuscirono a vederla compiuta. Il vecchio giurista e teologo morì
di peste nellestate dellanno successivo, sotto le mura
di Siracusa assediata. E pochi mesi dopo Eufemio fu ucciso da un
soldato bizantino, con una pugnalata, allingresso della città
di Castrogiovanni: aveva patteggiato con i difensori la resa, e
quelli avevano finto di accettare. Invece lo avevano atteso al varco,
tradendo così il traditore.
Ci si può chiedere come mai, nel rosone della facciata principale
della cattedrale di Mazara, un normanno a cavallo (Ruggero I) calpesti
un Emiro (Mokarta), mentre la grande piazza adiacente al castello
sia dedicata proprio a Mokarta. Uninterpretazione non obiettiva
della storia ha portato a magnificare le vittorie dei normanni cristiani
sui musulmani. In realtà, saraceni e normanni convissero
quasi sempre pacificamente, come pacificamente avevano convissuto
arabi e berberi con i nativi. Dopo la conquista musulmana, la Sicilia
era stata divisa in tre grandi circoscrizioni: Val di Mazara, Val
di Noto e Val di Demone. E questa configurazione conservò
con i normanni: a Mazara Ruggero I, conquistata gran parte dellisola,
edificò subito un castello e la cattedrale e fondò
il Vescovado; qui convocò la prima Assemblea dei Baroni e
dei Vescovi, che può considerarsi a tutti gli effetti come
il primo Parlamento della storia planetaria. E Val di Mazara costituì
lultima roccaforte di resistenza musulmana contro Federico
II di Svevia, prima che lo Splendor Mundi concentrasse i superstiti
nella città pugliese di Lucera (Luceria Saracenorum venne
infatti chiamata) e ne facesse la retroguardia imperiale e fedelissima
del suo esercito.
La presenza musulmana costituì, comunque, il lievito e alimentò
nel periodo normanno quella civiltà siculo-normanna della
quale ancora oggi possiamo ammirare prestigiose testimonianze. La
conquista normanna della Sicilia era iniziata con lo sbarco a Messina,
nel 1060, con soli 160 cavalieri, di Roberto il Guiscardo e di suo
fratello Ruggero. Erano due dei dodici figli di Tancredi dAltavilla,
che facevano parte di quel gruppo normanno che era giunto in Italia
meridionale attorno allanno Mille a guerreggiare per Longobardi
e Bizantini, e che in breve si erano spartiti nel Sud i Nove Stati,
conquistandovi posizioni preminenti.
Grande e tragica, la storia normanna nel Mezzogiorno dItalia.
Era stato predetto che i sovrani normanni avrebbero avuto vita breve,
e infatti una fatalità saturnina continuò a sottrarre
dieci anni ad ogni generazione: il Gran Conte Ruggero I raggiunse
letà di settantanni; il Gran Re Ruggero II visse
cinquantanove anni; Guglielmo I, suo quartogenito, passato alla
storia con lappellativo il Malo, visse quarantasei
anni e regnò soltanto per dodici; il figlio, Guglielmo II,
appellato il Buono, visse solo trentasei anni e regnò
solamente per diciassette. Ultimo re della dinastia, Tancredi, figlio
illegittimo del primogenito di Ruggero II, destinato a succedergli
con il nome di Ruggero III: regnò sei anni e cessò
di vivere nel 1194.
Enrico VI, figlio di quel Federico I Barbarossa che aveva sempre
mirato ad abbattere il Regno Normanno, contrasse matrimonio di Stato
con Costanza, figlia di Ruggero II, nata dopo la sua morte, e scese
in Sicilia per rivendicare i diritti della moglie: si liberò
delle deboli pretese della vedova di Tancredi per il figlioletto
Guglielmo III che, si dice, incoronò con una corona di ferro
incandescente, e si fece proclamare a Palermo, nel 1194, Re di Sicilia.
Ma morì tre anni più tardi. E venne il tempo di Federico
II, in età di tre anni, con la reggenza di Costanza, che
Dante appellò Grande e collocò in uno
dei cieli del Paradiso. Tramontò il sogno normanno di una
Nazione Siciliana, di un Regnum separato dallImpero. Ma con
ogni probabilità è proprio al periodo normanno che
risalgono i micidiali problemi che poi sarebbero stati alla base
della questione delle due Italie, poiché, come
ha osservato Giosué Musca, «mentre nellItalia
settentrionale cresceva la forza economica e politica dei ceti medi,
nel Mezzogiorno la presenza normanna chiudeva ad essi la possibilità
di emergere e di affermarsi come struttura portante dello sviluppo
economico e sociale, chiudeva spazi e condizioni per la maturazione
di forze non solo economicamente attive, ma capaci di proporre istanze
politiche. Dalla conquista normanna uscì sconfitto il ceto
medio produttivo [...]».
Come ha sottolineato Hubert Houben, «sarebbe [...], come sosteneva
Giuseppe Galasso, la struttura feudale imposta dai Normanni la causa
della passività della società meridionale,
perché essa non avrebbe consentito una libera espansione
e sperimentazione economica e politica, come avvenne nellItalia
dei Comuni».
In ultima analisi, linternazionalismo portato dalla cultura
e dalla politica araba in Sicilia e nelle regioni del Sud continentale,
con lo spirito di tolleranza che aveva consentito la pacifica convivenza
di cristiani, ebrei, musulmani, in città cosmopolite (e Federico
di Svevia aveva confermato questo ruolo euro-mediterraneo nel Sud),
e poi con la cultura matematica, geometrica, filosofica, astronomica,
architettonica, subì una svolta autoritaria con la dominazione
normanna, preludio alla crisi che nel secolo XVI incrinò
definitivamente dal punto di vista degli interessi del Mezzogiorno
i rapporti politico-economici in Italia e nella stessa Europa.
Allora, come è stato rilevato, in concomitanza con la perdita
della posizione baricentrica che lItalia aveva occupato nel
commercio euro-mediterraneo, venne meno anche lequilibrio
tra Nord e Sud dItalia. Aveva perfettamente ragione Ferdinand
Braudel, quando sosteneva che la storia non è altro che una
continua serie di interrogativi, rivolti al passato in nome dei
problemi e delle curiosità, nonché delle inquietudini
e delle angosce del presente che ci circonda e ci assedia.
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