Giugno 2001

RIPERCORRENDO LA STORIA

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Li Turchi!
Ada Provenzano - Ahmed Rasuli
 
 

 

 

 

Coll.:
Luigi Caimpenta
Rosanna Valenza
Sheila Barhabhi

 

Tutto ebbe inizio nel giugno di 1.174 anni fa. Un dottore della legge, un monarca e un traditore furono i protagonisti iniziali di quella grandiosa avventura ai confini nord del bacino mediterraneo.
Il possente monastero-fortezza di Susa, in Tunisia, detto in arabo “ribàt”, era stato costruito solo da pochi anni. Era il simbolo della guerra santa islamica (il “jihàd”), dell’ardore guerriero di un popolo che credeva nel potere spirituale delle armi: se il Corano era il simbolo del jihàd interiore, la spada rappresentava l’emblema del jihàd esteriore, ma entrambi concorrevano allo stesso fine, che era quello di convertire le genti alla fede nell’unico Dio vero. Non a caso il primo jihàd (che letteralmente significa “sforzo”, energia che muove alla conquista delle anime) fu realizzato dai mercanti dioula i quali, partendo dall’area orientale dell’Africa, convertirono i popoli occidentali del Continente Nero, prima di rivolgere l’attenzione a quelli del centro e dell’area sub-sahariana. Erano, quei mercanti, sostanzialmente, mercanti-guerrieri, e anche per questo ebbero facilmente ragione sulle fragili resistenze delle genti dedite al politeismo e al feticismo stanziate al di qua e al di là del grande deserto. Ecco anche perché, in quella tiepida alba del 13 giugno dell’anno di Cristo 827 (erano da poco trascorsi due secoli dall’inizio dell’Egira, l’era islamica) i diecimila uomini dell’esercito aghlabita, schierati dentro il ribàt e intorno alle sue mura, e già pronti a imbarcarsi sulle cento navi che li avrebbero trasferiti sulle coste della Sicilia, accolsero con un silenzio carico di emozione l’apparire del loro venerabile condottiero, Sinàn Asàd ibn al-Furàt.
Certamente, Asàd non aveva l’aspetto del giovane, vigoroso guerriero di cui le milizie di Allah avrebbero avuto bisogno. Era un vegliardo dalla barba bianca, magro come uno stilita e leggermente incurvato dal peso degli anni (aveva superato la settantina). Ma se Ziyàdat Allah, l’emiro aghlabita di Quayrawàn, aveva scelto lui per guidare l’esercito alla conquista della Sicilia, una buona ragione doveva pur esserci.
E infatti c’era. Ed era che Asàd, tanto per dirla in termini moderni, incarnava perfettamente la figura del leader carismatico. Non era un guerriero, ma un uomo di dottrina, un insigne giurista. Aveva scritto libri importanti, e indicato ai fedeli la via migliore per imitare la santità del Profeta. Austero e coraggioso, non era immune da una punta di superbia. Infatti era solito vantarsi dei significati del suo triplice nome. Diceva: «Sinàn è la più acuta delle armi [in arabo significa “lancia”]; Asàd [“leone”] è il re degli animali; Furàt [“Eufrate”] è il fiume più maestoso del mondo». Alle orecchie degli arabi e dei berberi, assuefatte per cultura a questo genere di vanterie, frasi del genere dovevano suonare come una musica piacevole e corroborante.
Asàd giunse dunque in mezzo ai diecimila soldati, salì sugli spalti del ribàt, e in quel silenzio solenne cominciò a parlare. Doveva incitare gli uomini al combattimento, e incoraggiarli ad affrontare un’impresa che si annunciava tutt’altro che facile: sfidare le correnti del Canale di Sicilia, sbarcare su una terra ignota, e lì dare l’assalto a fortezze munitissime, e battersi con le truppe bizantine, che per numero erano certamente superiori. Ma il vecchio teologo cominciò a parlare come se, invece che soldati, avesse di fronte gli allievi di una scuola coranica: «Su, dunque, sforzate gli animi, affaticate i corpi nel cercare scienza, e fatene tesoro, né siatene giammai sazii, né vinti dai travagli che ella vi arreca, e sappiate che ne conseguirete la ricompensa in questa vita, e in quella che è di là da venire».
Attoniti, ma ben consapevoli del significato di quelle parole, i soldati stavano ad ascoltare, mentre il sole si sollevava dalla linea dell’orizzonte. Sapevano bene che la “scienza” cui alludeva Asàd altro non era che la “conoscenza interiore”, la realizzazione spirituale che si ottiene soltanto con una guerra santa fatta di meditazione, preghiera e virtù. In altri termini, Asàd intendeva dir loro: «Voi che vi apprestate ad usare la spada contro un nemico esteriore, ricordate che il vero nemico è dentro di voi, e che la vostra guerra esteriore avrà senso soltanto se la vittoria sarà per voi un simbolo della vittoria interiore».
Un poco in disparte, accanto alla porta intarsiata della moschea che fronteggiava il ribàt, anche uno straniero ascoltava il discorso di Asàd. Ben poco, probabilmente, egli capiva di quelle parole arabe. Ma ne intuiva la sacralità. Quello straniero si chiamava Eufemio, era un cristiano, un siciliano, comandante della roccaforte bizantina di Messina. Ed era un traditore. Senza la sua iniziativa, Ziyàdat Allah non avrebbe mai pensato di raccogliere il fior fiore del suo esercito per tentare l’impresa d’oltremare. La storia di Eufemio è confusa nella leggenda, ma è assolutamente autentica: pur con tutta una serie di varianti, gli storici cristiani e quelli musulmani sono concordi nel riferirla come vera.
Narra dunque, questa storia leggendaria, che il focoso Eufemio si innamorò un giorno di una bellissima fanciulla, che da poco tempo aveva preso i voti e si era data alla vita del chiostro. Con incosciente temerarietà, Eufemio la rapì dal convento e la fece sua. I fratelli di costei, terribilmente offesi, si appellarono a Michele il Balbo, imperatore di Bisanzio, e questi sentenziò che, per punizione, Eufemio doveva subire l’amputazione del naso.
Il rapitore della monaca non si diede per vinto. Distribuì promesse ai suoi soldati e ne ottenne un giuramento di fedeltà. Poi si imbarcò per la Tunisia, raggiunse Susa, e da lì si recò a Quayrawàn, per invocare l’intervento di Ziyàdat Allah. L’emiro si lasciò convincere, e prese la storica decisione: destino volle, poi, che l’impresa riuscisse, e che la Sicilia rimanesse sotto la dominazione dei musulmani per circa due secoli.
Quando Asàd ebbe finito il suo discorso, le truppe si imbarcarono. La traversata fu felice e durò un giorno e una notte. All’alba del 14 giugno la flotta giunse in vista di Mazara. Ebbe inizio la lunga e vittoriosa conquista: ma né Asad né Eufemio riuscirono a vederla compiuta. Il vecchio giurista e teologo morì di peste nell’estate dell’anno successivo, sotto le mura di Siracusa assediata. E pochi mesi dopo Eufemio fu ucciso da un soldato bizantino, con una pugnalata, all’ingresso della città di Castrogiovanni: aveva patteggiato con i difensori la resa, e quelli avevano finto di accettare. Invece lo avevano atteso al varco, tradendo così il traditore.
Ci si può chiedere come mai, nel rosone della facciata principale della cattedrale di Mazara, un normanno a cavallo (Ruggero I) calpesti un Emiro (Mokarta), mentre la grande piazza adiacente al castello sia dedicata proprio a Mokarta. Un’interpretazione non obiettiva della storia ha portato a magnificare le vittorie dei normanni cristiani sui musulmani. In realtà, saraceni e normanni convissero quasi sempre pacificamente, come pacificamente avevano convissuto arabi e berberi con i nativi. Dopo la conquista musulmana, la Sicilia era stata divisa in tre grandi circoscrizioni: Val di Mazara, Val di Noto e Val di Demone. E questa configurazione conservò con i normanni: a Mazara Ruggero I, conquistata gran parte dell’isola, edificò subito un castello e la cattedrale e fondò il Vescovado; qui convocò la prima Assemblea dei Baroni e dei Vescovi, che può considerarsi a tutti gli effetti come il primo Parlamento della storia planetaria. E Val di Mazara costituì l’ultima roccaforte di resistenza musulmana contro Federico II di Svevia, prima che lo Splendor Mundi concentrasse i superstiti nella città pugliese di Lucera (Luceria Saracenorum venne infatti chiamata) e ne facesse la retroguardia imperiale e fedelissima del suo esercito.
La presenza musulmana costituì, comunque, il lievito e alimentò nel periodo normanno quella civiltà siculo-normanna della quale ancora oggi possiamo ammirare prestigiose testimonianze. La conquista normanna della Sicilia era iniziata con lo sbarco a Messina, nel 1060, con soli 160 cavalieri, di Roberto il Guiscardo e di suo fratello Ruggero. Erano due dei dodici figli di Tancredi d’Altavilla, che facevano parte di quel gruppo normanno che era giunto in Italia meridionale attorno all’anno Mille a guerreggiare per Longobardi e Bizantini, e che in breve si erano spartiti nel Sud i Nove Stati, conquistandovi posizioni preminenti.
Grande e tragica, la storia normanna nel Mezzogiorno d’Italia. Era stato predetto che i sovrani normanni avrebbero avuto vita breve, e infatti una fatalità saturnina continuò a sottrarre dieci anni ad ogni generazione: il Gran Conte Ruggero I raggiunse l’età di settant’anni; il Gran Re Ruggero II visse cinquantanove anni; Guglielmo I, suo quartogenito, passato alla storia con l’appellativo “il Malo”, visse quarantasei anni e regnò soltanto per dodici; il figlio, Guglielmo II, appellato “il Buono”, visse solo trentasei anni e regnò solamente per diciassette. Ultimo re della dinastia, Tancredi, figlio illegittimo del primogenito di Ruggero II, destinato a succedergli con il nome di Ruggero III: regnò sei anni e cessò di vivere nel 1194.
Enrico VI, figlio di quel Federico I Barbarossa che aveva sempre mirato ad abbattere il Regno Normanno, contrasse matrimonio di Stato con Costanza, figlia di Ruggero II, nata dopo la sua morte, e scese in Sicilia per rivendicare i diritti della moglie: si liberò delle deboli pretese della vedova di Tancredi per il figlioletto Guglielmo III che, si dice, incoronò con una corona di ferro incandescente, e si fece proclamare a Palermo, nel 1194, Re di Sicilia. Ma morì tre anni più tardi. E venne il tempo di Federico II, in età di tre anni, con la reggenza di Costanza, che Dante appellò “Grande” e collocò in uno dei cieli del Paradiso. Tramontò il sogno normanno di una Nazione Siciliana, di un Regnum separato dall’Impero. Ma con ogni probabilità è proprio al periodo normanno che risalgono i micidiali problemi che poi sarebbero stati alla base della questione delle “due Italie”, poiché, come ha osservato Giosué Musca, «mentre nell’Italia settentrionale cresceva la forza economica e politica dei ceti medi, nel Mezzogiorno la presenza normanna chiudeva ad essi la possibilità di emergere e di affermarsi come struttura portante dello sviluppo economico e sociale, chiudeva spazi e condizioni per la maturazione di forze non solo economicamente attive, ma capaci di proporre istanze politiche. Dalla conquista normanna uscì sconfitto il ceto medio produttivo [...]».
Come ha sottolineato Hubert Houben, «sarebbe [...], come sosteneva Giuseppe Galasso, la struttura feudale imposta dai Normanni la causa della “passività” della società meridionale, perché essa non avrebbe consentito una libera espansione e sperimentazione economica e politica, come avvenne nell’Italia dei Comuni».
In ultima analisi, l’internazionalismo portato dalla cultura e dalla politica araba in Sicilia e nelle regioni del Sud continentale, con lo spirito di tolleranza che aveva consentito la pacifica convivenza di cristiani, ebrei, musulmani, in città cosmopolite (e Federico di Svevia aveva confermato questo ruolo euro-mediterraneo nel Sud), e poi con la cultura matematica, geometrica, filosofica, astronomica, architettonica, subì una svolta autoritaria con la dominazione normanna, preludio alla crisi che nel secolo XVI incrinò definitivamente – dal punto di vista degli interessi del Mezzogiorno – i rapporti politico-economici in Italia e nella stessa Europa. Allora, come è stato rilevato, in concomitanza con la perdita della posizione baricentrica che l’Italia aveva occupato nel commercio euro-mediterraneo, venne meno anche l’equilibrio tra Nord e Sud d’Italia. Aveva perfettamente ragione Ferdinand Braudel, quando sosteneva che la storia non è altro che una continua serie di interrogativi, rivolti al passato in nome dei problemi e delle curiosità, nonché delle inquietudini e delle angosce del presente che ci circonda e ci assedia.

   
   
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