Giugno 2001

IL CORSIVO

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Questa Italia
creativa e inconcludente
Aldo Bello
 
 

 

 

 

La retorica
nazionale parla
di un ponte per tre continenti, ma è un ponte perennemente traballante
e sistematicamente intasato.

 

Potenza (e varietà di interpretazione) delle parole. Potenza (e varietà d’oscillazione) delle date. Vittorio Sgarbi, all’inaugurazione romana della mostra di sculture di Gaetano Martinez, ha affermato che il Rinascimento rappresenta l’epoca della modernità, mentre con l’Impressionismo si entra nell’epoca della contemporaneità. Letteratura e arte, dunque, hanno un percorso solo approssimativamente parallelo a quello dello sviluppo economico e sociale, se è vero quanto ha sostenuto il saggista inglese Paul Johnson, secondo il quale la modernità emerse tra la fine delle guerre napoleoniche e il 1830 (in La nascita del mondo moderno 1815-1838).
A determinare l’avvio furono il motore a scoppio e la forza motrice, cui si sommarono poco più tardi l’energia elettrica, l’industria chimica, il telefono e il telegrafo senza fili.
Quest’epoca si è protratta, più o meno, fino agli anni Sessanta dal 1900. E’ seguita una sorta di nuova modernità, che è stata sommariamente definita post-moderna. Secondo Giuseppe Guarino, (l’autore di un saggio sul Governo del mondo globale), citato da Sergio Romano, la post-modernità sarebbe nata in virtù di una straordinaria convergenza di fattori: crescita della popolazione mondiale, informatica, miniaturizzazione, tecnologia spaziale, telecomunicazioni, ingegneria genetica e le numerose conseguenze che ne sono derivate. Tra queste, non ultima, un «prodigioso aumento della produttività».
Chi, sulla lezione di Johnson, si accingerà a scrivere una Storia della post-modernità, non potrà non notare che questa epoca, al pari della precedente, è emblematicamente illustrata da alcune grandi opere, rappresentative o funzionali. Allora si ebbero il Palazzo di Cristallo a Londra, la Tour Eiffel a Parigi, la rete delle strade ferrate, le monumentali stazioni ferroviarie, le ferrovie metropolitane, i trafori alpini, i grandi ponti, i giganteschi transatlantici, i dirigibili, gli aerei, le esposizioni universali, i grattacieli di New York e di Chicago, la Tennesee Valley Authority, le esplorazioni di terre sconosciute, le grandi barriere per la creazione di polders protetti dal mare in Olanda, i Canali di Corinto, di Suez, di Panama. Oggi abbiamo Les Tour de la Défense e la Piramide del Louvre a Parigi, il World Trade Center a New York, il Millenium Dome a Londra, le Torri di Kuala Lumpur, il Ponte di San Francisco, le numerose biblioteche nazionali in Francia e nel Regno Unito, l’aeroporto di Renzo Piano a Osaka, il Museo rivestito di titanio a Bilbao, l’airbus, le stazioni spaziali, lo Shuttle, il Tunnel sotto la Manica, i treni ad alta velocità, le petroliere colossali, il Ponte sullo Stretto di Öresund, tra Svezia e Danimarca, sedici chilometri di arcate sospese e tunnel, più un’isola artificiale, che hanno mutato la geografia nord-europea, le splendide architetture di Sydney, Melbourne, Brasilia, il Ponte sul Tejo (Tago, per noi)...
Ebbene, quali sono, in questo paesaggio post-moderno, le grandi opere italiane? che cosa caratterizza il genio italiano in Italia, visto che nel mondo continua ad affermarsi ad alti profili? Che cosa può dare oggi il segno della continuità della storia italica nel campo delle grandi infrastrutture, mai aliene all’arte e alla creatività?
Rispondono due autori, i cui libri sono tutto un (non) programma: Guido Gentili (L’incompiuta. Dalle dighe mobili di Venezia allo Stretto di Messina: storie di un Paese bloccato), e Giovanni Negri (Il Paese del non fare, di un paio di anni fa). Vi si descrive «il labirinto in cui si sono smarrite, negli ultimi anni, le grandi opere con cui l’Italia avrebbe dovuto conquistarsi un posto fra i Paesi più moderni del pianeta». Appunto: avrebbe dovuto!
Sostiene Romano che «il catalogo di Gentili non è meno impressionante di quello in cui Leporello aveva annotato le conquiste di Don Giovanni. Ma è un elenco di amori delusi e di conquiste abortite». Affascinante paragone: non è forse il trascorrere da una conquista femminile all’altra, senza soluzione di continuità, il segno tangibile della fragilità sessuale, dell’effimera capacità e forza di amare di un uomo che si appaga soltanto nell’atto della condiscendenza, della complicità estemporanea, del “passaggio” incompiuto, che non lascia né testimonianza né macerie?

Don Giovanni vero patrono della Penisola? Un’ipotesi da tener d’occhio, visto il paesaggio desolante che scorgiamo dalle Alpi al Lilibeo. Dove si è passati da un mega-progetto ad un altro trasvolando in allegra indecenza con discorsi, dibattiti, saggi, tavole rotonde, ma sempre restando bloccati dentro il circolo aureolare dell’annuncio. Siamo il Paese della Promessa. Sulla sacralità paradossale della Promessa Italica abbiamo fondato, costruito, sviluppato una Storia Civile e Politica. Vi darò un ponte per attraversare il fiume, sostenne un candidato al Parlamento. Non abbiamo il fiume, osò precisare uno spettatore. Vi darò anche il fiume, tagliò corto il primo. La quadratura promissoria del cerchio non ammetteva repliche.
Scendiamo per li rami. Primato veneto, col maggior numero di opere progettate e mai realizzate: il Palazzetto che Franck Lloyd Wright avrebbe dovuto costruire all’angolo fra il Canal Grande e il Rio Nuovo, l’Ospedale di Le Corbusier, le grandi dighe mobili per la difesa della Laguna dalle acque alte (il celeberrimo “Mose”), il Passante per Mestre, la ricostruzione della Fenice «com’era e dov’era», (al modo del barese Petruzzelli, anch’esso vittima del fuoco).
Seguono, a ruota, i grandi lavori autostradali, progettati, riprogettati, solennemente annunciati e inesorabilmente accantonati: la Pedemontana Veneta, il rifacimento della Salerno-Reggio Calabria, il completamento del tratto di Cefalù, la terza corsia, e un lungo rosario di cosiddette “opere minori” disseminate sull’intero territorio della Penisola. Terzo elenco di annunci trionfali, con immediato smemoramento, quello dell’Alta Velocità, cioè della rete che dovrebbe accorciare drasticamente i “tempi di percorrenza” fra Torino e Trieste, fra Milano e Napoli, mentre restano nel cassetto le buone intenzioni sulle linee Adriatica (Venezia-Lecce), Jonica, (Reggio Calabria-Taranto) e Tirrenica (Napoli-Reggio Calabria).
Anche per le metropolitane abbiamo un primato negativo: 38 chilometri a Roma, contro i 400 di Londra, i 200 di Parigi, i 140 di Berlino, i 131 di Madrid, i 110 di Stoccolma, i 103 di Hannover, i 101 di Amburgo, i 79 di Monaco, i 77 di Barcellona, i 59 di Newcastle, i 59 di Bucarest, i 55 di Varsavia. Cifre noiose, forse, ma emblematiche. Roma, si dice, ha sotto la terra più archeologia di quanta ce ne sia in superficie. Questa storia andava bene parecchio tempo fa. Oggi la tecnologia consente di scendere e scavare anche oltre i trenta-cinquanta metri, e a queste profondità non esiste nulla, se non le stratificazioni geologiche naturali.
Caso per antonomasia: il Ponte sullo Stretto di Messina. Un progetto nato nel non vicino 1968, per il quale sono stati spesi fino a questo momento, senza alcun risultato apprezzabile, circa 150 miliardi di lire. Si dice: ci sono le corsie marittime (da Napoli a Palermo; o da Napoli a Messina, ecc.), che eviterebbero il trasporto su gomma; si dice anche che con i capitali richiesti per la costruzione del Ponte si potrebbero ammodernare le viabilità calabresi e siciliane, con annesso raddoppio di strade ferrate. Si aggiunge, tuttavia, che il Ponte avrebbe “valore ideale”, cioè simbolico, perché salderebbe la Penisola all’Isola. Suprema scemenza, perché l’ “aggancio” è espresso dalla storia, dalla lingua e dalla cultura, ed è garantito dalla Carta costituzionale. Il problema, dunque, è un altro, regolarmente eluso dai politici e dagli opinionisti, che comunque si esercitano in diatribe sui costi del sullodato Ponte (spese tutte italiane), mentre glissano su quelli del Fréjus (altrettanto alti, ma da dividere con i francesi, determinati a realizzare il traforo).
Un problema “altro”, dicevo. “Il” problema. Quello del Mezzogiorno. Del quale timidamente si torna a parlare, dopo anni di complice silenzio, di esilio del pensiero politico e civile, di condiscendenza verso il terrorismo psicologico di certe forze politiche non estranee a pulsioni razziste e separatiste. Quello del “riscatto” del Sud, dopo la guerra civile post-unitaria e lo spoils-system degli apparati produttivi d’epoca borbonica, è stato la Massima Promessa, al limite della Profezia Biblica, sistematicamente elusa. Una sterminata letteratura lo testimonia. Un’intelligente premonitrice saggistica aveva anticipato che l’Italia sarebbe stata quel che sarebbe stato il Mezzogiorno; che sarebbe nata, altrimenti, una “questione settentrionale” non meno acuta, anche se di segno opposto rispetto a quella meridionale; che non sarebbe stato sufficiente “agganciare il Sud all’Europa”, se simultaneamente lo si “sganciava” dagli sbocchi mediterranei. Una classe politica e affaristica ottusamente legata ai privilegi di aree, di imprese, di famiglie, ha perpetuato una sconvolgente dicotomia, mettendo sotto accusa di volta in volta il borbonismo, le mafie che mai si son volute eradicare, persino il clima che avrebbe condizionato la voglia di lavorare dei meridionali, e altri alibi tragicamente risibili, ancora oggi riecheggiati da giurassici opinion makers e da bronzei voltagabbana.

Il Ponte come simbolo? Sì, se questo possa dare vitalità, energia e slancio ad una rivoluzione infrastrutturale nel Sud e nelle isole, quella culturale essendo da tempo in atto, almeno dal momento in cui è stata impiccata la sottocultura della Cassa per il Mezzogiorno, che è stata il grimaldello grazie al quale il Nord ha continuato la storia dello spoils-system meridionale con altri mezzi.
L’Italia, dunque, sarà quel che sarà l’Italia intera. O non sarà che una “potenza marginale” nel contesto dell’Unione e in quello, più equilibrato, dell’asse euro-mediterraneo.
Cifre alla mano, il contesto avvilisce. Uno studio di Pier Luigi Ciocca, vice-direttore della Banca d’Italia, confortato dalle stime di alcune organizzazioni internazionali, dimostra che il deficit di opere pubbliche in Italia ha provocato nell’arco degli anni Novanta una perdita netta «valutabile in circa 13 punti percentuali del Prodotto interno lordo»: sono stati buttati al vento 300 mila miliardi di lire. E non è tutto. Scrive Gentili: «L’Italia gode sulla carta di una straordinaria posizione geografica. A nord la Pianura Padana è cerniera pianeggiante che mette in comunicazione la penisola balcanica con le terre franco-iberiche. Mentre, visto da nord a sud, dalle Alpi a Lampedusa, lo Stivale si allunga in verticale fino quasi a toccare l’Africa settentrionale». Siamo una naturale via di comunicazione fra Europa orientale e occidentale, fra Mitteleuropa e Mediterraneo meridionale. Ma questa via di comunicazione strategica non ha canali navigabili, rotte costiere, ferrovie veloci, autostrade sicure, valichi attrezzati. La retorica nazionale parla di un “ponte per tre continenti”, ma è un ponte perennemente traballante e sistematicamente intasato. E intanto i 300 mila miliardi perduti da noi sono finiti fra le mani dei Paesi dell’Unione che hanno approfittato della nostra micidiale lentezza per valorizzare se stessi e i propri apparati infrastrutturali e produttivi, generatori di benessere.
Resta da capire come mai siamo così ostinatamente incapaci di realizzare le opere di cui tutto il Paese ha urgente bisogno. Cesare Romiti sostiene che il fenomeno iniziò poco più di trent’anni fa, «quando l’amministrazione centrale abdicò a una delle sue funzioni principali: promuovere le infrastrutture di base». Sergio Romano allarga il discorso: per capire fino in fondo, e senza omissioni, ciò che è accaduto, occorre tornare a quel momento della nostra storia in cui il sistema politico subì una sorta di degenerazione patologica. Mentre tutti i Paesi dell’Europa occidentale imboccavano, dopo le turbolenze del ‘68, le vie della modernizzazione, l’Italia precipitava in uno stato di cronica inefficienza politica e amministrativa. Il governo perdeva gran parte della sua autorità. Il Parlamento diventava un organo semi-esecutivo e semi-giudiziario, deciso a instaurare una sorta di regime assembleare.
I Partiti non sapevano governare, ma potevano impedire che il governo esercitasse le sue funzioni. I sindacati diventavano condomini del potere politico. La magistratura ordinaria e amministrativa suppliva alle deficienze dell’esecutivo e sembrava aspirare, in alcuni casi, all’avvento di un’inconcepibile “democrazia giudiziaria”. Il potere si frantumava in una miriade di diritti di veto, ciascuno dei quali poteva rinviare una decisione alle calende greche. Il labirinto italiano: ancora oggi un microscopico partito (i Verdi) può bloccare il Ponte tra Sicilia e Calabria; una “sospensiva” di un Tar può chiudere un cantiere; la demagogica ostilità della sinistra al capitale privato può impedire il varo di un’opera; la riluttanza di un Comune (in non pochi casi primo nucleo di conciliaboli affaristici e di scempio del territorio) può ritardare di molti anni l’avvio di lavori utili all’intera Nazione; l’ostilità di un sindacato (la Cgil, che, scomparse le tute blu, sembra raccogliere ormai un po’ di colletti bianchi e una massa di immigrati extracomunitari e di pensionati) può condizionare i tempi di progettazione esecutiva del Ponte sullo Stretto. Ma che razza di Paese è questo? Un Paese di incrociate sindromi di Stoccolma? O, insieme ad altre, il Paese della sindrome di Siracusa?
Già, Siracusa. Oppure, più precisamente, le Siracuse: Thyke, Acradina, Epipoli, Neapoli, Ortigia, le cinque aree urbane che, unite, diedero luogo alla potente polis che espresse una delle più celebri tirannidi del mondo classico. In questa megalopoli magnogreca crollò l’utopia repubblicana, intesa come sogno assembleare permanente fra eguali (sempre e comunque eguali) di Platone. Roma e il Palazzo non possono essere Siracusa, nel frattempo sono passati oltre due millenni, il pensiero politico si è in qualche modo evoluto, anche se alcuni satrapi nostrani sembrano non volersene accorgere, e a complicare le cose è intervenuta l’economia globale, espressione che sta a indicare l’egemonia di un Paese (e, a margine, di alcuni vassalli) su tutti gli altri, dopo che una stravolta idea marxiana si è avvitata, strambando sull’asse politico del pianeta e sparendo dal radar della Storia.
L’avviso ai naviganti è chiaro: le tre grandi aree del mondo sviluppato (America del Nord, Giappone, Unione Europea) stanno attraversando una delicata fase di transizione economica. La prima è in posizione di atterraggio (morbido o duro?); la seconda è in crisi di recessione dall’inizio degli anni Novanta; l’ultima vede profilarsi il compito di sostituire la locomotiva americana nel breve periodo. Dentro questi contesti, la soluzione di problemi interni è lasciata ai singoli Stati, alla loro capacità creativa, alla loro volontà di sfida. Il “caso italiano”, nel quale sono incastonate le due “questioni” del Sud e del Nord nelle rispettive singolarità, è qui, nello svincolo da condizionamenti di ideologie logore, nel rilancio della politica del fare, nella visione progettuale unitaria non conclamata, ma coraggiosamente perseguita. Lascerà traccia nella nostra storia chi travolgerà le regole dell’inaffidabile via italiana al prolungamento del Basso Impero, che, al modo di Saturno, non può e non sa che divorare i propri figli.

   
   
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