Giugno 2001

GIUSTINO FORTUNATO E IL SUD CONTADINO

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Il pessimismo
della ragione
Giuseppe Galasso
 
 

 

 

 

La sua etica si
poneva all’incrocio del vangelo e del “verbo” tolstoiano, ma contemplava
anche la morale delle severe responsabilità
e dell’apertura
mentale.

 

Di quasi tutti i meridionalisti e del loro pensiero fu propria una grande qualità, e cioè che la loro riflessione sulla “questione meridionale” non fu mai una riflessione settoriale e geograficamente ristretta. Scaturì, invece, da una riflessione più generale, come certamente accadde per Giustino Fortunato. Per lui, infatti, il problema del Mezzogiorno non fu mai soltanto un problema meridionale. Fu il problema dell’Italia moderna, tesa a rientrare, col Risorgimento, dopo due secoli, fra i protagonisti della vita europea.
Beninteso, Fortunato era lontanissimo dal pensare che i meridionali nella genesi e nell’incancrenirsi della “questione” non avessero responsabilità: del passato e del presente, della mentalità e del comportamento. Gli doleva specialmente la mancanza di fiducia che gli sembrava ravvisare nella gente del Sud. Montanelli ha ricordato una sua affermazione particolarmente significativa. Li vedete – diceva – i grandi e aridi solchi delle nostre montagne, «quei grandi mari senza una macchia di verde? Non ce li ha mandati il Signore; li abbiamo fatti noi che non piantiamo alberi perché non crediamo nel domani, e ci mandiamo a pascolare le capre che divorano tutto, erbe e virgulti, quasi prima che nascano».
In effetti, c’era in lui una profonda contraddizione. Alla richiesta di un fermo impegno per una grande azione politica e sociale egli accoppiava una visione estremamente dolente e pessimista della realtà. Le sue vicende personali e familiari lo disposero ad una malinconia profonda, che non era tristezza e non ne frenava l’attività e l’impegno, ma certo toglieva respiro alla speranza e all’illusione, che di ogni grande azione sono componenti indispensabili. Una intelligenza straordinariamente acuta e una cultura classica e moderna di grande raffinatezza si confrontavano in lui con una sensibilità ancor più acuta e con un animo disposto molto di più all’introspezione e all’analisi che all’estroversione e alla semplificazione. La sua etica si poneva all’incrocio del Vangelo e del “verbo” tolstoiano, ma contemplava anche la morale delle severe responsabilità e dell’apertura mentale propria di un liberismo nativo e di un pensiero tormentatamente laico. La generosità era pari all’avvedutezza, la ricchezza al disinteresse. Lo spirito essenzialmente conservatore non riluttava e anzi aspirava al confronto e alle misure della storia. Di famiglia di tradizioni borboniche, era diventato uno dei più schietti rappresentanti del più vero e profondo spirito del Risorgimento, che per lui non fu mai solo la questione dell’unità; fu, insieme e indissolubilmente, una questione di fondazione liberale della nazione italiana.
Aveva conosciuto il Mezzogiorno di prima e dopo il 1860. Ricordava quando, adolescente, doveva viaggiare dalla natia Rionero ad Eboli con una scorta armata per evitare i rischi di quel viaggio. Non conservava nessuna nostalgia del vecchio Mezzogiorno. Per lui la cosa era chiara: senza l’aggancio all’Italia, il Mezzogiorno si sarebbe allontanato dall’Europa e saldato all’Africa. Perciò trepidava per lo Stato italiano, di cui conosceva bene i molti vizi. Nei giorni di Caporetto era disperato. Tornò a Rionero per spiegare – lui parlamentare locale per decenni – ai concittadini e soprattutto ai contadini la necessità di scapolare quel momento drammatico. Uno del luogo, infatuato dalla propaganda che addossava ai “signori” come Fortunato la responsabilità del tremendo conflitto e delle sue stragi, lo accoltellò; ed egli non volle più tornare a Rionero. Egli sapeva che quel Mezzogiorno contadino era un’enorme polveriera sociale e che l’ordine vigente riposava su un vulcano, ma il suo impegno per il Mezzogiorno e i suoi contadini non scaturiva da questa percezione: si collocava su un piano molto più alto.
La sua visione della storia del Mezzogiorno era sconsolata, anche se, per molti aspetti, di un realismo illuminante: natura e geografia nemiche; popolazioni devastate da secoli e secoli di malsano governo e di malsano comportamento sociale. Considerava perciò Benedetto Croce un idealista lontano dalla verità dolente e negativa di quella storia.
Ciò non gli impedì di stringere con Croce un’amicizia in cui affetto e stima e molta solidarietà di spirito e di idee facevano tutt’uno. Ma anche con Salvemini, con il suo spirito impetuoso e polemico di ispirato radicalismo, ebbe rapporti e consonanze rilevanti. La sua casa napoletana in via Vittoria Colonna fu negli ultimi suoi anni un punto luminoso di riferimento per chi voleva capire qualcosa di Mezzogiorno e del sentire di un grande liberale (ne salirono perciò le scale, tra gli altri, giovani giornalisti di grande avvenire, come Ansaldo e Montanelli); ed è davvero singolare e, insieme, confortante constatare che il pessimismo profondamente malinconico di quel vegliardo non trasmettesse un messaggio di rinunzia e di catastrofe, bensì di intelligenza e di apertura al futuro.

   
   
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