Giugno 2001

AFORISMI DI UN GIORNALISTA DECANO

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Scrivere ad alta voce
Gennaro Pistolese
 
 

 

 

 

"L’aspirazione
di un anziano
è la stessa
di un uomo elegante:
quella di passare
inosservato"

 

Il vuoto di pensiero e di cultura è tanto più profondo, quanto più ha bisogno di molte parole.

Certi matrimoni tardivi ricordano chi all’edicola della stazione ha tanto indugiato nella scelta di un libro da non avvertire che il suo treno era già partito.

La vecchiaia fa più compagnia della giovinezza.

La coscienza, che è poi la prima forma della propria dignità, è il valore più elastico esistente. Per molti non esiste addirittura, ma essi non lo riconoscono.

Un vecchio, in un gruppo di persone che discutono, sorride soltanto. Gli domandano: ma lei non dice niente? Risponde nettamente: ho 85 anni.

La pretesa di insegnare agli altri è più forte di quella di apprendere dagli altri.

Per avere ragione il più delle volte devi trovare qualcun altro.

Chi è finito è veramente finito. Non ci sono dubbi. Le sopravvivenze non solo sono ritenute inspiegabili e insostenibili da parte degli altri, ma sono inutili per se stessi.


Di un giornalista famoso è stato sempre più rilevante il bastone sul quale si appoggiava che non la penna, pur celebre, con la quale scriveva.

Le attese segnano la vita di ognuno, ma quelle che lasciano il segno, e per noi sono le più importanti, sono quelle mai realizzate. Proprio perché abbiamo vissuto per esse.

Fa più capire il tono di una voce che non la spiegazione di quanto si intende dire.

Quando si riconosce che la fantasia sopravanza la realtà è cosa facile a dirsi. Invece rilevare che oggi al punto cui sono giunte le cose la realtà sta superando la fantasia è purtroppo più che naturale. Con lo sbigottimento di tante generazioni e nella spregiudicatezza di chi ne è la causa.

La fantasia corre più in fretta della realtà. I suoi professionisti tentano ogni giorno di darne nuove prove, con la loro capacità di emulazione e la inesausta ricerca di terreni senza confini. Ma poi ad un certo momento tutti ci fermiamo ad un normalissimo posto doganale. Il discorso si interrompe, ma anche questa volta la fantasia è dietro l’angolo, in una rincorsa che non sembra abbia fine. Una rincorsa, abbiamo detto. Ma è un duello. Sempre – fino a quanto sappiamo – senza vittime o vincitori.

Abituato a scrivere per tutta la vita, quando parlava scriveva ad alta voce.

Il silenzio è d’oro per chi non ha nulla da dire o soprattutto per chi preferisce non ascoltare.

Nell’incontro fra due vecchi su tutto il resto prevale il reciproco stupore che entrambi siano ancora vivi.

E’ solo ai funerali che tutti si abbracciano. In taluni c’è la necessità di scaricare il proprio dolore, in altri di farlo apparire reale.

Per trovarsi bene e comunque meglio è consigliabile essere fra i contrari, anziché fra quanti, anche per non avere seccature, si dichiarano compiacemente tolleranti o indifferenti. La storia, come si sa, non ha mai parlato di questa genia o più semplicemente sottocategoria.

Non ci spaventano i giorni che passano, ma solo gli anni.

Gli altri, quando vedono scritte le cose che potremmo dire loro a voce, ci prendono più sul serio.

Si scrive che «è morto con rassegnazione cristiana», ma si può morire senza rassegnazione? Non è meglio dire con dignità?

Le illusioni non finiscono mai. Da giovani riguardano l’avvenire. Da vecchi il passato nella sua interpretazione di oggi, secondo cui le cose potevano andare meglio, perché secondo te tutte le carte erano in regola.

Il più nei rapporti umani, anche familiari, passa inosservato. Il meno mai.

Si è sovente più affezionati ad una frase che ad un intero libro.

Le formiche corrono sotto i nostri occhi senza accorgersi di noi e dei nostri pensieri. Ma le persone generalmente fanno lo stesso.

Un mio collaboratore domestico extracomunitario nell’andare in ferie mi ha dato quello che lui ha definito “estremo saluto”. Il primo da me ricevuto da vivo. Ma fino a quando è rientrato in servizio ho avuto il timore che dotato com’era pure di barba altro non fosse se non un profeta indiano.

L’aspirazione di un anziano è la stessa di un uomo elegante: quella di passare inosservato.

Essere sempre se stessi non è facile, e alla fine può essere anche un guaio.

Quando la morte sopravviene, è un problema di meno.

Un analfabeta defunto ne sa di più di un Nobel vivente.

La vocazione vera della solitudine è la comunicazione: con i ricordi, con gli scritti propri e degli altri, con la parola, quando le è consentita e tollerata dagli altri.

Si serca sempre il perché, ma sempre si riesce a farne a meno.

La vecchiaia è una bottiglia vuota, dalla quale si spera che, insistendo, esca ancora qualche goccia.

I fatti divengono veramente importanti quando sono ricordati, anziché quando sono vissuti.

Le ore, legali o no, trascorrono sempre uguali. Noi però ne scegliamo alcune che, nella realtà o nel ricordo, durano di più.

Alla fine dell’esistenza i conti si fanno non tanto con quello che c’è stato, quanto con ciò che si è verificato. Delusioni o alibi ne sono il più delle volte la risultante.

Quello che si fa volentieri e senza sforzo è di frequente proprio quello che non si dovrebbe fare o che, per i consapevoli, è imposto dal dovere.

All’osservanza del dovere ti richiamano coscienza e ragione, all’inosservanza l’istinto e per taluni il senso che si dà alla propria cosiddetta personalità.

Le cose più sensate sono quelle che spesso vengono interpretate dagli altri come segni di pazzia.

Certe distanze o indifferenze nascondono spesso una reale o profonda vicinanza. Anzi, talvolta la precedono. Dall’antipatia alla simpatia: quante volte!

Molte volte il riconoscimento di un debito vale per il creditore molto più del suo assolvimento.

Alla fine della propria esistenza, tanti interrogativi restano senza risposta. Forse alla vita umana sono imposti proprio così. Che spazio avrebbe diversamente la fede? Questa prevale assolutamente sulla ragione, che a siffatti livelli serve proprio a poco.

Le cose che si giustificano di più sono quelle accadute agli altri.

Il tempo è denaro, il tempo porta consiglio più di una notte, e così via. Invece il tempo è il nostro maggior nemico.

Tanti non esistono solo perché, indifferenti e delusi, reagiscono poco o nient’affatto al sì e al no. Sono definiti astensionisti, ma quanti ammonimenti, normalmente e comodamente inavvertiti, nella loro assenza.

Gli esercizi del pensiero per lo meno sono i più innocui di tutti gli altri, soprattutto se non pretendono di realizzarsi.

Prima di fare le cose giuste, se le facciamo, precostituiamo sempre la giustificazione. Eppure dovremmo contentarci solo della loro causale.

Addio, Gran Lucano

aldo bello

«Sono un abusivo della vita», diceva da quando aveva varcato la soglia dei novant’anni. Perché più che alla vita era legato ai ricordi, alla lucida memoria che da anni aveva messo al servizio di Apulia e dei suoi lettori, lasciando chiunque senza fiato per la puntualità, per l’originalità e per la profonda conoscenza delle vicende che avevano attraversato la storia italiana.
Aveva diretto Il Sole, fino alla sua fusione con l’altro quotidiano economico, 24 Ore. Era stato in Confindustria, in stretto contatto con i segretari generali di quella Confederazione, poi aveva lavorato per l’Associazione degli artigiani, e nel frattempo aveva contribuito al rilancio di un altro quotidiano economico, il romano Il Globo, senza mai smettere di firmare editoriali e corsivi per un numero imprecisabile di giornali.
Mai si era lasciato sedurre dalla tentazione di raccogliere in volume le sue cose. Il giornalismo, era solito dire, fa vivere una firma una sola volta per un solo giorno, ed è giusto che sia così, perché è specchio del momento che passa e se ne va, e se presume di dire qualcosa di definitivo, non è più cronaca e aspira stoltamente alla metafisica.

La memoria, no. La memoria è scavo fra le stratificazioni e le sedimentazioni dei giacimenti politici, economici, sociali, è recupero dei fatti allo stato puro, liberati dalle argille delle tattiche e delle strategie contingenti. E quello scavo aveva operato per Apulia con le auree Memorie del Secolo, lui che veniva dalla Lucania generatrice di grandi spiriti non soltanto meridionali e meridionalisti; che era stato “sulle ginocchia” di Francesco Saverio Nitti e di Giustino Fortunato; che aveva frequentato Ettore Ciccotti e Antonio De Viti De Marco; che aveva lavorato per decenni a piazza Venezia, nel palazzo che fronteggiava il balcone più celebre della Penisola, mussoliniano fino a quel drammatico 25 luglio, descritto con brillante acribia e con testimonianze inedite su queste pagine.

Dei meridionali, e dei lucani in particolare, ebbe il dono dell’analisi ad ampio spettro, non disgiunta da una visione scettica della storia come punto di riferimento di una qualche pedagogia politica. Spirito solitario, predilesse gli spiriti solitari, e visibilmente disprezzò gli avventurieri demagoghi che si spacciavano per maîtres à penser. Per questo, anche, fu maestro di stile e di comportamento, aristocratico e distaccato osservatore dei nostri giorni imbarbariti. E per questo, quando percepì che non gli anni barcollavano, ma la penna e tutto ciò che ancora vi era rimasto dentro, abbandonò le sue “tre finestre d’affaccio su via Veneto” e si ritirò nel più raccolto rifugio di via Cortina d’Ampezzo che lo aveva visto creativo protagonista del giornalismo economico e felice marito, prima di una lunga (e mai accettata con rassegnazione) vedovanza, e lì attese la fine del suo “abusivismo”, semplicemente molto stanco, integro ma sfinito, come può esserlo soltanto chi, dalla vita avendo avuto molto e avendo dato di più, sceglie di uscire di scena in silenzio (e in perfetta, coerente solitudine), salutati per tempo gli ultimi, intimi e inconsapevoli amici.
Addio, dunque, Gran Lucano. Ci lasci una preziosa lezione di vita, e ad Apulia un vuoto culturale che nessuna bandiera abbrunata potrà colmare.

   
   
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