Giugno 2001

EUROPA E MERCATI: REALTA' E UTOPIE DI UNA LEGISLAZIONE DI FRONTIERA

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Alla ricerca
di un nuovo galateo
Claudio Alemanno  
 
 

 

 

 

Paradossalmente
in Europa l’ordine
economico svolge opera di supplenza rispetto al disordine istituzionale.

 

La cronaca quotidiana racconta molte passioni fuori corso. Quella parlamentare ci mostra come in campo europeo e nazionale gli appartenenti alla classe “eletta” difficilmente possono fare i duri in un mondo di tiepidi, difficilmente possono assumere iniziative senza il “marchio d’azienda”, difficilmente possono coltivare ambizioni se non praticano il culto del “rischio zero”. Il potere degli organigrammi è più forte di ogni ipotesi di governo ecumenico.
Quanto queste condizioni oggettive di condizionamento siano compatibili con le aspettative di regolamentazione dei mercati è materia di quotidiani tormenti. Eppure, dovendo stare in Europa, i partiti nazionali sono obbligati a trovare maggiore sintonia con i movimenti e le idee continentali in cui si riconoscono. Invece sul piano legislativo la tradizione solidarista viene spesso ribaltata da spinte decisioniste di tipo individualista che privilegiano interessi nazionali o di ben definite lobbies economiche.
Certamente non è facile far convivere ordinamenti diversi che non sono fatti solo di norme ma anche di prassi, convenienze e tradizioni. Si vorrebbe soltanto un’opera di regia e di elaborazione più attenta alle istanze generali dello sviluppo e della Società civile. Nella costruzione di un ordinamento europeo, al di là delle grandi questioni di architettura costituzionale, conta l’opera quotidiana di livellamento giuridico che viene portata avanti. Speciale impatto ha la legislazione economica da cui dipende molto l’effettiva capacità d’integrazione.
C’è un accordo recente sullo statuto della società europea che appare largamente ispirato da istituti di diritto tedesco (vertice di Nizza). Invece di guardare alle regole della “corporate governance” di tradizione anglosassone, si è preferito cercare formule compromissorie di matrice continentale.

La futura società di diritto europeo prevede l’intervento dei lavoratori negli organi dirigenti, anche se le pressioni della Presidenza francese hanno consentito di lasciare agli Stati membri la facoltà di recepire o non recepire i contenuti della direttiva nella legislazione nazionale. Il tema richiederà certamente un’elaborazione più sistematica in ordine ai poteri degli organi societari, con appiattimento meno palese sul diritto tedesco, ma sotto la spinta della globalizzazione l’Europa non può lasciar passare l’immagine di una SpA appiattita sugli interessi degli shareholders (azionisti) ignorando gli stakeholders (i dipendenti in primo luogo). Finirebbe per essere abolita una delle principali conquiste sociali del dopoguerra.
In ambito bancario l’ultima direttiva registra un palese compromesso, finendo con l’accettare sia il modello tedesco della banca universale, sia quello italiano della banca commerciale. Anche in questo caso una riflessione più approfondita dovrebbe condurre ad un istituto europeo meno esposto alle influenze nazionali, con l’intento di rendere il “rischio bancario” funzionale alla mobilità e duttilità dello “sviluppo impresa”. Mentre per l’erogazione del credito, palesi ragioni di equità suggerirebbero di stabilire su base europea tassi minimi di riferimento, almeno per i mutui e il credito al consumo.
Un recente rapporto sull’integrazione dei mercati dei servizi finanziari e dei capitali (rapporto Lamfalussy) sottolinea il persistere di forme molteplici di rigidità nei fattori produttivi del capitale (non solo del lavoro) e pone con forza la ricerca ulteriore di flessibilità per dar vita ad un mercato integrato con regole e regolamenti comuni.
Il sistema bancario sembra remare invece in senso contrario, come prova la recente scoperta del “fascino” svizzero. La Deutsche Bank ha deciso di trasferire in Svizzera le sue attività di gestione patrimoniale internazionale e passi analoghi si apprestano a fare altri istituti europei.
Le ragioni principali sono di carattere fiscale. Ma un tale atteggiamento (allocazione di sedi e attività su piazza extraeuropea) è compatibile con la politica di armonizzazione sempre proclamata da quindici governi dell’Ue? I commissari per il mercato interno, le imprese e gli affari economici non hanno niente da dire?
Rileva inoltre Tommaso Padoa-Schioppa, membro del Comitato esecutivo della Bce, che la crescita di banche europee è ostacolata «dall’atteggiamento delle autorità che tendono a considerare le aggregazioni nazionali più favorevolmente rispetto a quelle tra banche di Paesi diversi». E’ palese il richiamo ad un eccesso di tutela esercitato dalle Banche centrali nazionali.
C’è poi il nodo Borsa sul cammino dell’internazionalizzazione dei mercati. Il progetto IX che prevedeva la nascita di una Borsa europea da costituirsi fra Londra e Francoforte è stato accantonato. Ma restano in piedi tutte le problematiche e le preoccupazioni che lo avevano patrocinato.
Restano in piedi principalmente i limiti che i protagonisti delle Borse domestiche incontrano quotidianamente sullo scenario globale.
In un’ottica di tutela dell’interesse collettivo risulta sacrificato un processo di progressiva razionalizzazione e di maggiore qualità nell’informazione, nonché la possibilità di conseguire costi minori nella gestione del capitale trattato.
E’ prevalsa la paralisi nata dall’incubo di una normativa che produceva super-regolazione o dipendenza da legislazioni di altri Paesi. Secondo un’ipotesi verosimile le società italiane quotate a Milano avrebbero dovuto dare informazioni utilizzando le procedure previste dalle leggi e dai regolamenti inglesi (blu chips) e tedeschi (nuovo mercato), svuotando in modo sostanziale il Testo Unico sulla Finanza introdotto in Italia nel 1998. E nuova incertezza si sarebbe aggiunta alla disciplina che regola l’offerta pubblica di acquisto (opa). Altre difficoltà alla convergenza in una disciplina uniforme dei mercati derivano dal sistema dei controlli che va dalla Bce (brilla per l’assenza di poteri significativi) alle Banche centrali e alle Authority che in sede nazionale svolgono compiti delicati, con ristretti margini di autonomia rispetto agli organi politici di governo (si pensi ai conflitti ricorrenti in Italia tra Antitrust, Consob, Banca centrale, ecc. ed al contenzioso che non a caso una legge recente ha attribuito ai giudici amministrativi con competenza esclusiva).
Una serie composita di carenze legislative produce un clima europeo di sostanziale incertezza che come primo approccio si evidenzia nella fragilità genetica dell’euro. Negli Stati Uniti i mercati dipendono dalle decisioni della Federal Reserve, in Europa invece avviene il contrario, con la Bce costretta ad inseguire i mercati.
La riflessione si sposta dunque sulle logiche di articolazione del potere a livello politico e istituzionale. L’esperienza del dopo Maastricht non è esaltante. Si continua a privilegiare una concezione verticale e verticistica dei poteri comunitari mentre la Società civile organizza gli interessi collettivi su base orizzontale (si pensi all’accresciuta importanza che in Italia vanno assumendo le camere di commercio, gli enti fiera, le fondazioni bancarie e le altre espressioni di autonomia funzionale).
Il futuro europeo si presenta dunque più motivato dal dinamismo orizzontale, dall’interazione con altre culture e altri poteri. Ciò rappresenta un limite esogeno dell’agire politico cui si somma un limite endogeno costituito dall’alto tasso di litigiosità che produce la gerarchia delle autonomie istituzionali e che incrementa il contenzioso lungo il percorso imposto dalla sussidiarietà verticale. Il decentramento commercializzato con le vesti paludate del federalismo creerà un’articolazione a rete dei poteri politici e istituzionali ma sarà scarsamente produttivo di crescita se non si identificherà col policentrismo funzionale verso cui si muove l’organizzazione della Società civile.
Le contraddizioni evidenziate nelle direttive comunitarie costituiscono un momento significativo delle difficoltà che s’incontrano nel governare la complessità dell’Ue. Oltre alla questione istituzionale, mettono in evidenza seri problemi metodologici lungo il percorso decisionale che finisce molto spesso per coincidere con la risultante algebrica dei diversi interessi nazionali.

Si avverte l’assenza di strutture intermedie (associazioni, movimenti, mezzi di comunicazione) che possano formare un’opinione pubblica europea. Così come si nota la tendenza centralistica della Commissione, sempre più impegnata a produrre legislazione di coordinamento nelle materie più disparate (industria, agricoltura, politiche sociali, culturali, ecc.), oscurando di fatto ogni ipotesi di confine con le legislazioni nazionali.
Negli Stati federali realizzati (Stati Uniti, ad esempio) il governo centrale ha competenze limitate nell’area legislativa. E il lavoro maggiore della Corte Suprema è volto a salvaguardare l’autonomia degli Stati dalle interferenze federali.
Paradossalmente in Europa l’ordine economico (con tutti i limiti del mercato) svolge opera di supplenza rispetto al disordine istituzionale. Ma il prossimo allargamento della Comunità pone problemi di convivenza che il solo mercato non può ammortizzare.
L’Europa possibile ha bisogno di organismi e regole che diano senso compiuto alla collegialità delle decisioni e all’organizzazione dei percorsi consultivi. Adesso si parte generalmente da un testo preparato da inglesi, francesi e tedeschi. Poi viene affidato alla lettura di italiani e spagnoli che apportano qualche emendamento. Infine viene distribuito agli altri membri. E’ il cosiddetto procedimento “a chiocciola” che sottintende una gerarchia implicita.
E’ sufficiente sostituire la logica dell’unanimità con quella della maggioranza negli organi deliberanti per migliorare il sistema? Ne dubitiamo, se non si introducono a monte criteri nuovi di concertazione, nella fase iniziale di analisi e studio dei progetti.
La nota altalena tra i due assi, franco-britannico e franco-tedesco non riesce più a fare da tessuto connettivo, a mano a mano che dalla dimensione commercial-mercantilistica dell’Europa dei Quindici si passa alla moltiplicazione dei fronti integrativi che implicano tematiche negoziali a più ampio raggio.
Lungo il cammino che dal “social capital” conduce alla “social cohetion” qualcuno dovrà pur scrivere la storia dei silenzi infingardi. Non sappiamo se dal dibattito sulla Carta dei diritti scaturirà un processo di accelerazione per la costruzione di una società politica europea. Di certo l’Europa possibile ora chiede meno maestri di cerimonia e più attori senza teatro.

   
   
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