Giugno 2001

PROBLEMI DELLA BUROCRAZIA

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Una rivoluzione
difficile
B. S.  
 
 

 

 

 

Enormi potenzialità sono neutralizzate, scoraggiate,
emarginate da
questa situazione
di fatto.

 

Milioni di “cartelle pazze”, file interminabili, numeri telefonici verdi muti, autocertificazioni a singhiozzo, tempi incalcolabili sottratti agli impegni di lavoro: dura a morire, la burocrazia schiacciasassi imperversa sugli italici destini, al punto che il Ragioniere generale dello Stato può parlare di «rivoluzione difficile». Se non proprio impossibile.
E’ sicuramente vero che negli ultimi anni si è tentato di avviare una sorta di rivoluzione nella nostra burocrazia, così come è vero che oggi la pubblica amministrazione italiana si trova nel mezzo di un guado vorticoso e complesso tra il vecchio che tarda a morire e il nuovo che tarda a nascere.

Ma occorre dire tutta la verità: ciò non va ascritto certamente a colpa dei dipendenti pubblici, ma semmai discende da un processo di attuazione della riforma amministrativa che non poteva non essere intricato, per tanti versi complicatissimo. Basti pensare che alle tre “leggi Bassanini” hanno fatto seguito ben ottantotto decreti legislativi in materia, accompagnati da decine e decine di regolamenti, di esplicazioni e di altri atti normativi. Si tratta, in altri termini, di una vera e propria “pioggia normativa”, così intensa da essere di per se stessa difficilmente riversabile in contenitori appropriati, e tale da indurre non pochi addetti al settore ad aprire gli ombrelli o a ripararsi in modi adeguati.
Com’è noto, il processo di riordino riguarda tanto i poteri centrali quanto quelli periferici, implicando il trasferimento di decine di migliaia di persone. E a questo punto sorge un primo punto interrogativo.
Non sarebbe stato forse più opportuno passare per una previa verifica e attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale? Vale a dire, tenuto conto delle eccessive funzioni che svolge la nostra pubblica amministrazione, non sarebbe stato più proficuo individuare quelle attività e quelle materie che potrebbero essere più utilmente restituite ai privati in forma singola o associata, trasferendo alla società civile funzioni di cui a volte si è impropriamente impossessato il settore pubblico?
A noi sembra che in questo modo si potrebbe giungere ad una forma di ricostruzione dal basso, in attuazione dei princìpi definiti dai trattati istitutivi dell’Unione europea, del rapporto fra pubblico e privato.
Operando in questo modo, si porrebbe in termini più semplici e lineari la connessa questione della sussidiarietà verticale, in quanto il trasferimento di funzioni alle regioni e agli enti locali sarebbe previamente depurato da quelle ormai improprie per il settore pubblico.
Ma c’è un’altra questione di non minore rilievo che riguarda lo stesso metodo di approccio scelto con la riforma avviata dalle “leggi Bassanini”. Si è trattato di un approccio di tipo deduttivo, dall’alto verso il basso, e di carattere legecentrico, in cui i decisori centrali hanno scelto le linee di intervento in virtù di un’osservazione basata su criteri essenzialmente giuridico-amministrativi dei problemi delle burocrazie.
L’esperienza comparata dimostra come i casi di successo più significativi nel campo del cambiamento amministrativo si sono registrati là dove l’approccio è stato di tipo del tutto differente. Ad esempio, negli Stati Uniti d’America il reinventing government di Bill Clinton e di Al Gore è stato condotto in porto tramite iniziali attività di analisi organizzativa delle diverse amministrazioni e agenzie, anche con l’apporto dei migliori consulenti di organizzazione aziendale e sulla base del coinvolgimento diretto nell’impostazione delle riforme amministrative dei dipendenti e dei dirigenti pubblici.
Probabilmente si è ancora in tempo, nonostante l’approccio iniziale prescelto, per generare anche nel nostro Paese tale forma di coinvolgimento degli addetti alle pubbliche amministrazioni, tramite l’azione di esperti e di consulenti che aiutino l’implementazione della riforma amministrativa.
Si tratta di un impegno fondamentale per ogni governo, per rendere incisiva effettivamente la riforma, e per valorizzare e coinvolgere nel modo dovuto le numerosissime energie valide, oggi spesso assopite, o comunque demotivate, presenti e diffuse nelle nostre pubbliche amministrazioni.

Ciò non toglie, comunque, che ci sia bisogno anche di una “rivoluzione culturale” nell’universo burocratico italiano. Pensiamo, ad esempio, a quanto si verifica in Francia, dove il burocrate è un laureato-specializzato che si sente, agisce ed è al servizio del cittadino, che non considera mai suddito, e dello Stato, che non ritiene mai “cosa sua”. Qui è uno dei noccioli, uno degli zoccoli duri del provincialismo burocratico-amministrativo italiano, appena scalfito dalle recenti normative sui diritti del cittadino. Il “vecchio che tarda a morire” (anche a causa di un coacervo di regolamenti e di lacci che nel nostro Paese riguardano persino il capello spaccato in quattro) rende precario il cammino del nuovo, che proprio per questo “tarda a nascere”. E non è cosa di poco conto. Enormi potenzialità propositive sono neutralizzate, scoraggiate, emarginate da questa situazione di fatto, impedendo al Paese di reggere il passo di altre nazioni europee che hanno acquisito ritmi di crescita accelerati in tempi brevi, delegificando, snellendo il praticume burocratico, affinando i controlli ex post, adeguando le norme punitive in caso di trasgressione (le pene sulla “slealtà”, in Spagna o in Irlanda, ad esempio, sono severe), e contribuendo a dare di sé, in ambito Unione Europea, un’immagine positiva, affidabile.
Rivoluzione difficile, sì, ma necessaria, sia a livello strutturale, sia a livello culturale. Senza la quale, nel breve periodo, potremo confrontarci quasi esclusivamente con le burocrazie inefficienti e tuttora semipietrificate dell’Est europeo, sulle quali soltanto avremo qualche punto di vantaggio, avendo perso la guerra con quelle flessibili e sempre aggiornate dell’Europa occidentale.

   
   
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