Enormi potenzialità sono neutralizzate,
scoraggiate,
emarginate da
questa situazione
di fatto.
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Milioni di cartelle pazze, file interminabili, numeri
telefonici verdi muti, autocertificazioni a singhiozzo, tempi incalcolabili
sottratti agli impegni di lavoro: dura a morire, la burocrazia schiacciasassi
imperversa sugli italici destini, al punto che il Ragioniere generale
dello Stato può parlare di «rivoluzione difficile».
Se non proprio impossibile.
E sicuramente vero che negli ultimi anni si è tentato
di avviare una sorta di rivoluzione nella nostra burocrazia, così
come è vero che oggi la pubblica amministrazione italiana
si trova nel mezzo di un guado vorticoso e complesso tra il vecchio
che tarda a morire e il nuovo che tarda a nascere.
Ma occorre dire tutta la verità: ciò non va ascritto
certamente a colpa dei dipendenti pubblici, ma semmai discende da
un processo di attuazione della riforma amministrativa che non poteva
non essere intricato, per tanti versi complicatissimo. Basti pensare
che alle tre leggi Bassanini hanno fatto seguito ben
ottantotto decreti legislativi in materia, accompagnati da decine
e decine di regolamenti, di esplicazioni e di altri atti normativi.
Si tratta, in altri termini, di una vera e propria pioggia
normativa, così intensa da essere di per se stessa
difficilmente riversabile in contenitori appropriati, e tale da
indurre non pochi addetti al settore ad aprire gli ombrelli o a
ripararsi in modi adeguati.
Comè noto, il processo di riordino riguarda tanto i
poteri centrali quanto quelli periferici, implicando il trasferimento
di decine di migliaia di persone. E a questo punto sorge un primo
punto interrogativo.
Non sarebbe stato forse più opportuno passare per una previa
verifica e attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale?
Vale a dire, tenuto conto delle eccessive funzioni che svolge la
nostra pubblica amministrazione, non sarebbe stato più proficuo
individuare quelle attività e quelle materie che potrebbero
essere più utilmente restituite ai privati in forma singola
o associata, trasferendo alla società civile funzioni di
cui a volte si è impropriamente impossessato il settore pubblico?
A noi sembra che in questo modo si potrebbe giungere ad una forma
di ricostruzione dal basso, in attuazione dei princìpi definiti
dai trattati istitutivi dellUnione europea, del rapporto fra
pubblico e privato.
Operando in questo modo, si porrebbe in termini più semplici
e lineari la connessa questione della sussidiarietà verticale,
in quanto il trasferimento di funzioni alle regioni e agli enti
locali sarebbe previamente depurato da quelle ormai improprie per
il settore pubblico.
Ma cè unaltra questione di non minore rilievo
che riguarda lo stesso metodo di approccio scelto con la riforma
avviata dalle leggi Bassanini. Si è trattato
di un approccio di tipo deduttivo, dallalto verso il basso,
e di carattere legecentrico, in cui i decisori centrali hanno scelto
le linee di intervento in virtù di unosservazione basata
su criteri essenzialmente giuridico-amministrativi dei problemi
delle burocrazie.
Lesperienza comparata dimostra come i casi di successo più
significativi nel campo del cambiamento amministrativo si sono registrati
là dove lapproccio è stato di tipo del tutto
differente. Ad esempio, negli Stati Uniti dAmerica il reinventing
government di Bill Clinton e di Al Gore è stato condotto
in porto tramite iniziali attività di analisi organizzativa
delle diverse amministrazioni e agenzie, anche con lapporto
dei migliori consulenti di organizzazione aziendale e sulla base
del coinvolgimento diretto nellimpostazione delle riforme
amministrative dei dipendenti e dei dirigenti pubblici.
Probabilmente si è ancora in tempo, nonostante lapproccio
iniziale prescelto, per generare anche nel nostro Paese tale forma
di coinvolgimento degli addetti alle pubbliche amministrazioni,
tramite lazione di esperti e di consulenti che aiutino limplementazione
della riforma amministrativa.
Si tratta di un impegno fondamentale per ogni governo, per rendere
incisiva effettivamente la riforma, e per valorizzare e coinvolgere
nel modo dovuto le numerosissime energie valide, oggi spesso assopite,
o comunque demotivate, presenti e diffuse nelle nostre pubbliche
amministrazioni.
Ciò non toglie, comunque, che ci sia bisogno anche di una
rivoluzione culturale nelluniverso burocratico
italiano. Pensiamo, ad esempio, a quanto si verifica in Francia,
dove il burocrate è un laureato-specializzato che si sente,
agisce ed è al servizio del cittadino, che non considera
mai suddito, e dello Stato, che non ritiene mai cosa sua.
Qui è uno dei noccioli, uno degli zoccoli duri del provincialismo
burocratico-amministrativo italiano, appena scalfito dalle recenti
normative sui diritti del cittadino. Il vecchio che tarda
a morire (anche a causa di un coacervo di regolamenti e di
lacci che nel nostro Paese riguardano persino il capello spaccato
in quattro) rende precario il cammino del nuovo, che proprio per
questo tarda a nascere. E non è cosa di poco
conto. Enormi potenzialità propositive sono neutralizzate,
scoraggiate, emarginate da questa situazione di fatto, impedendo
al Paese di reggere il passo di altre nazioni europee che hanno
acquisito ritmi di crescita accelerati in tempi brevi, delegificando,
snellendo il praticume burocratico, affinando i controlli ex post,
adeguando le norme punitive in caso di trasgressione (le pene sulla
slealtà, in Spagna o in Irlanda, ad esempio,
sono severe), e contribuendo a dare di sé, in ambito Unione
Europea, unimmagine positiva, affidabile.
Rivoluzione difficile, sì, ma necessaria, sia a livello strutturale,
sia a livello culturale. Senza la quale, nel breve periodo, potremo
confrontarci quasi esclusivamente con le burocrazie inefficienti
e tuttora semipietrificate dellEst europeo, sulle quali soltanto
avremo qualche punto di vantaggio, avendo perso la guerra con quelle
flessibili e sempre aggiornate dellEuropa occidentale.
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