Giugno 2001

PROBLEMI DELL’EMIGRAZIONE / 3

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Investimenti al Sud
braccia e cervelli al Nord
Flavio Albini  
 
 

 

 

 

Ma è clamoroso che ancora oggi in Italia
non vi siano le figure
professionali proprie
dell’economia
della rete.

 

La scorsa legislatura si era aperta con la grottesca intuizione che organizzando una super-conferenza per il lavoro, possibilmente a Napoli, capitale ed emblema di tutti i problemi del Sud, la questione delle due Italie dell’occupazione e della disoccupazione si sarebbe più o meno risolta. La conferenza non si è mai tenuta e nel frattempo la mano invisibile della ripresa ha prodotto – come si dice – oltre un milione di occasioni di lavoro. Un boom dovuto alle (ancora poche) forme flessibili d’impiego e alla imperitura volontà di riscatto del Paese reale che, alla fine, sguscia via tra burocrazia e formalismi con doppia fatica, ma con successo.

La legislatura si è poi chiusa con l’identico problema dell’avvio, con il Paese sdoppiato che non trova ciò che cerca: al Nord braccia e cervelli, al Sud investimenti. E questo ritorno al futuro è, oltre che paradossale, anche ingeneroso rispetto ai risultati in qualche modo ottenuti nel recente passato. Sembra quasi che non sia successo nulla in questi ultimi cinque anni, se ancora poco fa il governo, con una certa fibrillata emotività d’annunci, rilanciava progetti di piani per favorire l’incontro tra una domanda e un’offerta di lavoro impegnate a correre su binari apparentemente non comunicanti.
Il Nord-Est agognava i mitici saldatori anche cinque anni fa, e lo stesso le imprese di punta si scippavano gli operai migliori. Poi i ministri hanno rilanciato il caso della Franco Tosi che avrebbe voluto 1.500 operai generici, senza che nulla il tempo e l’esperienza avessero insegnato. Il nuovo casus belli ha fatto dire a più di uno che occorre organizzare lo spostamento di manodopera da Sud a Nord, con incentivi, con salari più alti, con un nuovo piano case. E le ricette di scuola sono tornate a confrontarsi, come cinque anni prima: la manodopera deve andare al Nord, anche se per essere sottoccupata; sono gli investimenti che devono scendere a Sud, ovviamente con opportuni incentivi.

La posizione tra queste opposte strategie semplificatorie fu già composta all’inizio della legislatura con l’intuizione della politica di nuova programmazione, dei contratti d’area e dei gemellaggi tra aree del Nord e del Sud. Si dovevano creare le condizioni per immigrazioni temporanee dal Mezzogiorno, che valessero come tirocinio formativo per acquisire capacità formative e organizzative da trasferire, in un secondo tempo, nei luoghi di origine a condizioni magari di massima flessibilità, di pari passo con l’arrivo degli investimenti. Sarebbe stato l’ideale: la manodopera va a Nord per un po’, poi sopraggiungono gli impianti a Sud, gestiti con personale qualificato. E nel frattempo il Mezzogiorno sviluppa (o migliora) le infrastrutture di base e innesta le attività più consone al suo territorio e alla sua storia, come i servizi al turismo e i beni culturali, senza dimenticare la crescita di settori industriali a vocazione locale, come l’agroalimentare.
Ma dopo tanto tempo siamo ancora qui a parlarne: troppe energie e troppo tempo sono stati assorbiti dal lancio dei contratti d’area (non ancora decollati, fra l’altro), su cui sembra ormai calata la tensione anche di chi li aveva inventati. Troppi ostacoli – burocratici, operativi, di clima culturale – hanno impedito lo sbocciare dei gemellaggi. Troppe forme di incentivi (i fondi per i contratti d’area, quelli per i contratti di programma, la 488 che forse è l’unica legge che in qualche modo stia funzionando, gli aiuti all’innovazione, i crediti d’imposta per i nuovi assunti oppure per i nuovi investimenti) si sono sovrapposte senza una regia unica per troppo tempo e senza che fossero finalizzati a pochi obiettivi di lungo periodo.
Né gli aiuti finanziari possono avere buon gioco se non si arriva a un’uscita definitiva e certa dal mondo del sommerso che finora resta la forma di incentivo informale più competitiva, anche se più deleteria per il tipo di sviluppo che prospetta.
Il mercato del lavoro in Italia è la somma di mille mercati del lavoro. E forse potrebbe essere questa la vera novità strategica se solo la si volesse prendere in considerazione. Non ci sono soltanto i mercati del lavoro territoriali, né per questi servirà la panacea federalista; ci sono i gruppi sociali aggregabili a seconda delle abitudini di vita; ci sono le divisioni tra sessi, con il boom degli impieghi femminili; ci sono i diversi gruppi di business; e, soprattutto, ci sono le differenze tra chi ha un sapere (e sia pure un saper fare) e chi no.
Non sono mercati uguali e hanno potenzialità differenziate. L’ultimo caso, ad esempio, quello di un’industria pesante che cercava addetti, è un mondo fatto di operai generici per produzioni a basso valore aggiunto, con tecnologie non particolarmente d’avanguardia. Un mondo che compete con produttori di Paesi a costo del lavoro pressoché imbattibile. C’è poco da mimetizzare: sono posti a qualifica generica e a basso salario, appetibili soprattutto per chi voglia uscire da uno stato di povertà (com’è il caso di numerosi immigrati extracomunitari). Un mercato che regge l’urto della concorrenza sostanzialmente sui costi, non ultimo quello del lavoro, e non può permettersi un innalzamento delle paghe – come chiede chi ragiona secondo le leggi del mercato perfetto – pena l’uscita da quel business.
Chi pianifica le strategie di lunga gittata deve riconoscere quando crea sottoccupazione, deve sapere qual è il lavoro per gli immigrati e quale per le proprie fasce di disoccupati giovani ad alta scolarizzazione o per gli adulti senza professionalità né conoscenze. Deve anche avere chiaro che esistono business da cui si esce con il progredire dell’innalzamento del livello tecnologico delle produzioni e con lo spostamento degli interessi.
Un progredire che, tumultuosamente e senza alcun ordine, è già in atto, e l’Italia prima o poi deve prendere atto del suo status di Paese ricco destinato a diventare post-manifatturiero, uscendo da settori maturi e destinati a creare il miracolo in Paesi con economie ancora adesso di sopravvivenza.
Ma è clamoroso che ancora oggi in Italia non vi siano le figure professionali proprie dell’economia della rete. Mancavano già un lustro fa e una decina di anni fa dagli Stati Uniti arrivavano i primi segnali sull’urgenza di adattare il mondo della formazione all’impatto del ciclone della società della comunication and information technology. Segnali ben forti che si preferì non ascoltare, accreditando nel corso degli anni l’interpretazione ideologica di un’America che stava creando una genia di mc-job, di lavori per giratori di hamburger, figli mostruosi di una flessibilità mostruosa. Adesso che la rete è arrivata rischiamo di non poterne godere i frutti perché siamo impreparati e, come vuole la tradizione, ci arrangiamo senza neppure poter contare sul contributo di un’immigrazione di qualità (i celeberrimi ingegneri indiani o pachistani). Eppure – come è dimostrato da celebratissimi casi di eccellenza – passa da qui anche il riscatto dell’occupazione al Sud della penisola.

   
   
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