Ma è clamoroso che ancora oggi in Italia
non vi siano le figure
professionali proprie
delleconomia
della rete.
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La scorsa legislatura si era aperta con la grottesca intuizione
che organizzando una super-conferenza per il lavoro, possibilmente
a Napoli, capitale ed emblema di tutti i problemi del Sud, la questione
delle due Italie delloccupazione e della disoccupazione si
sarebbe più o meno risolta. La conferenza non si è
mai tenuta e nel frattempo la mano invisibile della ripresa ha prodotto
come si dice oltre un milione di occasioni di lavoro.
Un boom dovuto alle (ancora poche) forme flessibili dimpiego
e alla imperitura volontà di riscatto del Paese reale che,
alla fine, sguscia via tra burocrazia e formalismi con doppia fatica,
ma con successo.
La legislatura si è poi chiusa con lidentico problema
dellavvio, con il Paese sdoppiato che non trova ciò
che cerca: al Nord braccia e cervelli, al Sud investimenti. E questo
ritorno al futuro è, oltre che paradossale, anche ingeneroso
rispetto ai risultati in qualche modo ottenuti nel recente passato.
Sembra quasi che non sia successo nulla in questi ultimi cinque
anni, se ancora poco fa il governo, con una certa fibrillata emotività
dannunci, rilanciava progetti di piani per favorire lincontro
tra una domanda e unofferta di lavoro impegnate a correre
su binari apparentemente non comunicanti.
Il Nord-Est agognava i mitici saldatori anche cinque anni fa, e
lo stesso le imprese di punta si scippavano gli operai migliori.
Poi i ministri hanno rilanciato il caso della Franco Tosi che avrebbe
voluto 1.500 operai generici, senza che nulla il tempo e lesperienza
avessero insegnato. Il nuovo casus belli ha fatto dire a più
di uno che occorre organizzare lo spostamento di manodopera da Sud
a Nord, con incentivi, con salari più alti, con un nuovo
piano case. E le ricette di scuola sono tornate a confrontarsi,
come cinque anni prima: la manodopera deve andare al Nord, anche
se per essere sottoccupata; sono gli investimenti che devono scendere
a Sud, ovviamente con opportuni incentivi.
La posizione tra queste opposte strategie semplificatorie fu già
composta allinizio della legislatura con lintuizione
della politica di nuova programmazione, dei contratti darea
e dei gemellaggi tra aree del Nord e del Sud. Si dovevano creare
le condizioni per immigrazioni temporanee dal Mezzogiorno, che valessero
come tirocinio formativo per acquisire capacità formative
e organizzative da trasferire, in un secondo tempo, nei luoghi di
origine a condizioni magari di massima flessibilità, di pari
passo con larrivo degli investimenti. Sarebbe stato lideale:
la manodopera va a Nord per un po, poi sopraggiungono gli
impianti a Sud, gestiti con personale qualificato. E nel frattempo
il Mezzogiorno sviluppa (o migliora) le infrastrutture di base e
innesta le attività più consone al suo territorio
e alla sua storia, come i servizi al turismo e i beni culturali,
senza dimenticare la crescita di settori industriali a vocazione
locale, come lagroalimentare.
Ma dopo tanto tempo siamo ancora qui a parlarne: troppe energie
e troppo tempo sono stati assorbiti dal lancio dei contratti darea
(non ancora decollati, fra laltro), su cui sembra ormai calata
la tensione anche di chi li aveva inventati. Troppi ostacoli
burocratici, operativi, di clima culturale hanno impedito
lo sbocciare dei gemellaggi. Troppe forme di incentivi (i fondi
per i contratti darea, quelli per i contratti di programma,
la 488 che forse è lunica legge che in qualche modo
stia funzionando, gli aiuti allinnovazione, i crediti dimposta
per i nuovi assunti oppure per i nuovi investimenti) si sono sovrapposte
senza una regia unica per troppo tempo e senza che fossero finalizzati
a pochi obiettivi di lungo periodo.
Né gli aiuti finanziari possono avere buon gioco se non si
arriva a unuscita definitiva e certa dal mondo del sommerso
che finora resta la forma di incentivo informale più competitiva,
anche se più deleteria per il tipo di sviluppo che prospetta.
Il mercato del lavoro in Italia è la somma di mille mercati
del lavoro. E forse potrebbe essere questa la vera novità
strategica se solo la si volesse prendere in considerazione. Non
ci sono soltanto i mercati del lavoro territoriali, né per
questi servirà la panacea federalista; ci sono i gruppi sociali
aggregabili a seconda delle abitudini di vita; ci sono le divisioni
tra sessi, con il boom degli impieghi femminili; ci sono i diversi
gruppi di business; e, soprattutto, ci sono le differenze tra chi
ha un sapere (e sia pure un saper fare) e chi no.
Non sono mercati uguali e hanno potenzialità differenziate.
Lultimo caso, ad esempio, quello di unindustria pesante
che cercava addetti, è un mondo fatto di operai generici
per produzioni a basso valore aggiunto, con tecnologie non particolarmente
davanguardia. Un mondo che compete con produttori di Paesi
a costo del lavoro pressoché imbattibile. Cè
poco da mimetizzare: sono posti a qualifica generica e a basso salario,
appetibili soprattutto per chi voglia uscire da uno stato di povertà
(comè il caso di numerosi immigrati extracomunitari).
Un mercato che regge lurto della concorrenza sostanzialmente
sui costi, non ultimo quello del lavoro, e non può permettersi
un innalzamento delle paghe come chiede chi ragiona secondo
le leggi del mercato perfetto pena luscita da quel
business.
Chi pianifica le strategie di lunga gittata deve riconoscere quando
crea sottoccupazione, deve sapere qual è il lavoro per gli
immigrati e quale per le proprie fasce di disoccupati giovani ad
alta scolarizzazione o per gli adulti senza professionalità
né conoscenze. Deve anche avere chiaro che esistono business
da cui si esce con il progredire dellinnalzamento del livello
tecnologico delle produzioni e con lo spostamento degli interessi.
Un progredire che, tumultuosamente e senza alcun ordine, è
già in atto, e lItalia prima o poi deve prendere atto
del suo status di Paese ricco destinato a diventare post-manifatturiero,
uscendo da settori maturi e destinati a creare il miracolo in Paesi
con economie ancora adesso di sopravvivenza.
Ma è clamoroso che ancora oggi in Italia non vi siano le
figure professionali proprie delleconomia della rete. Mancavano
già un lustro fa e una decina di anni fa dagli Stati Uniti
arrivavano i primi segnali sullurgenza di adattare il mondo
della formazione allimpatto del ciclone della società
della comunication and information technology. Segnali ben forti
che si preferì non ascoltare, accreditando nel corso degli
anni linterpretazione ideologica di unAmerica che stava
creando una genia di mc-job, di lavori per giratori di hamburger,
figli mostruosi di una flessibilità mostruosa. Adesso che
la rete è arrivata rischiamo di non poterne godere i frutti
perché siamo impreparati e, come vuole la tradizione, ci
arrangiamo senza neppure poter contare sul contributo di unimmigrazione
di qualità (i celeberrimi ingegneri indiani o pachistani).
Eppure come è dimostrato da celebratissimi casi di
eccellenza passa da qui anche il riscatto delloccupazione
al Sud della penisola.
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