Giugno 2001

PROBLEMI DELL’EMIGRAZIONE / 2

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Addio valigia
di cartone rosso
Innocenzo Cipolletta  
 
 

 

 

 

Questo ritorno alla
normalità avrebbe dovuto rallegrare
gli italiani e invece è stato accolto
come un fatto drammatico.

 

Il recente dibattito sulla difficoltà di trovare lavoratori al Nord dell’Italia e sulla indisponibilità dei lavoratori del Mezzogiorno di recarsi al Nord o anche di accettare specifici lavori con remunerazioni nette basse (ancorché del tutto allineate con i contratti di lavoro) sta a significare che l’emergenza disoccupazione, che ha interessato il nostro Paese nel corso degli ultimi trent’anni, è probabilmente terminata. La disoccupazione e l’occupazione non sono più problemi da affrontare prioritariamente attraverso provvedimenti che impongano soluzioni di massa nel breve tempo, ma tornano a essere problemi individuali, ossia problemi di legittime scelte individuali (se e come lavorare), che possono essere favorite da un buon funzionamento del sistema economico, ma che non richiedono più interventi specifici.
La disoccupazione apparve come un fenomeno di massa all’indomani della prima crisi petrolifera, (1973), e si è andata aggravando negli anni successivi, caratterizzati da forti processi di ristrutturazione industriale. Poi la crisi finanziaria del 1992 rilanciò l’emergenza occupazione, in particolare nel Sud d’Italia, a causa dell’improvviso venire meno del sostegno pubblico a molte iniziative meridionali. Con il passare degli anni, si è avvertita una netta divaricazione di comportamento: nel Nord la disoccupazione scendeva, mentre al Sud essa rimaneva elevata. Sul finire del decennio, l’occupazione ha ripreso a crescere anche al Sud del Paese e anche la disoccupazione ha mostrato un’inversione di tendenza, sicché oggi si può assistere a un fenomeno tipico di un’economia che ha scarsità di manodopera: la domanda di lavoro rimane inevasa malgrado la persistenza di persone che cercano lavoro.
Questo ritorno alla normalità avrebbe dovuto rallegrare gli italiani e invece è stato accolto come un fatto drammatico, sia da chi stigmatizza la pretesa delle imprese di far viaggiare i lavoratori invece di spostare gli impianti lì dove c’è il lavoro (come se ciò fosse possibile nel breve periodo), sia da parte di chi teme della incapacità del nostro apparato produttivo di crescere in assenza di manodopera, come se dovessimo essere tristi perché non c’è più disoccupazione nel nostro Paese o nelle nostre regioni. Altri si sono lanciati a discutere se conviene al Nord o al Sud una ripresa dei movimenti migratori, e sono stati tirati nuovamente in ballo i temi del depauperamento intellettuale del Sud (come se le intelligenze inutilizzate non fossero uno spreco ben maggiore), ovvero della congestione del Nord, quasi che la tecnologia non ci avesse fatto fare passi da gigante anche nell’utilizzo dello spazio. Molti sono poi quanti si sono precipitati per suggerire una politica di sussidi: alla casa, al trasferimento, all’addestramento, eccetera, buoni per lo più a far lavorare eserciti di consulenti e strutture formative a secco di finanziamenti.

E’ evidente che la fine dell’emergenza occupazione non significa la fine di ogni problema ed è ben vero che anche la piena occupazione ha i suoi specifici problemi. Ma le ricette dovrebbero essere del tutto diverse. Per anni si sono giustificati interventi pubblici specifici per l’emergenza occupazione. Ora la strada da percorrere è al rovescio: se l’occupazione torna a essere un problema individuale dei lavoratori e delle imprese, la politica non deve essere più quella di favorire specifiche soluzioni, ma quella di far funzionare bene il mercato affinché il maggior numero di soggetti trovi la soluzione più idonea con il minor costo a carico della collettività e con la maggiore efficienza globale.
Il mercato del lavoro è strutturato in modo difensivo ed è rigido, ciò che costituisce la coesistenza della piena occupazione in alcune zone con la disoccupazione in altre. I sussidi alla disoccupazione permangono pur in presenza di occasioni di lavoro se queste sono a più di 50 chilometri di distanza. La bassa età di pensionamento limita l’offerta di lavoro creando una carenza artificiale. L’esistenza di contratti nazionali molto dettagliati per qualifiche rende difficile l’incontro tra domanda e offerta, specie dove il desiderio di non muoversi implica anche la disponibilità ad accettare remunerazioni più basse.

E poi la casa, la cui offerta sul mercato è oggi terribilmente limitata a causa di trent’anni di normative che hanno penalizzato la proprietà, demonizzando sia l’affitto che la compravendita: gli affitti sono ancora in regime vincolato (quelli cosiddetti “liberi” implicano un vincolo per almeno dieci anni senza garanzia per il proprietario di poter riavere la casa); la compravendita è gravata da tali imposizioni da cui sono esclusi solo coloro che comprano una prima casa, sicché il mercato non esiste in questo settore, e l’offerta di abitazioni è bassissima, pur in presenza di un parco abitativo relativamente ampio, ancorché del tutto inadeguato perché fisso negli anni.
Un Paese che vede superata l’emergenza occupazione deve far funzionare bene i suoi meccanismi civili, perché da essi nascono le migliori soluzioni. Quindi deve ripristinare una maggiore flessibilità nel mercato: lavoro, professioni, mestieri, casa, eccetera. E deve anche smetterla di considerare emigranti quanti si spostano all’interno del Paese: se il Paese è unito, come si presume sia, allora ogni città e ogni regione è Italia e chi si sposta al suo interno è solo una persona che sceglie soluzioni idonee per se stesso, né più né meno di chi cambia quartiere di residenza. Se così non fosse e se continuassimo a chiamare emigranti quanti vanno da Milano a Palermo, o viceversa, allora avrebbero perfettamente ragione i separatisti nostrani che considerano il Nord diverso dal Sud e che vorrebbero spaccare il Paese, ripristinando confini abbattuti dalla storia e dal buon senso di ognuno di noi.
Mentre cerchiamo di costruire un’Europa unita, con un mercato interno europeo, ove ognuno di noi circoli liberamente, parlare di migrazioni all’interno dell’Italia è quanto meno un patetico controsenso, che ci porterebbe a fare scelte politiche errate.

   
   
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