Questo ritorno alla
normalità avrebbe dovuto rallegrare
gli italiani e invece è stato accolto
come un fatto drammatico.
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Il recente dibattito sulla difficoltà di trovare lavoratori
al Nord dellItalia e sulla indisponibilità dei lavoratori
del Mezzogiorno di recarsi al Nord o anche di accettare specifici
lavori con remunerazioni nette basse (ancorché del tutto
allineate con i contratti di lavoro) sta a significare che lemergenza
disoccupazione, che ha interessato il nostro Paese nel corso degli
ultimi trentanni, è probabilmente terminata. La disoccupazione
e loccupazione non sono più problemi da affrontare
prioritariamente attraverso provvedimenti che impongano soluzioni
di massa nel breve tempo, ma tornano a essere problemi individuali,
ossia problemi di legittime scelte individuali (se e come lavorare),
che possono essere favorite da un buon funzionamento del sistema
economico, ma che non richiedono più interventi specifici.
La disoccupazione apparve come un fenomeno di massa allindomani
della prima crisi petrolifera, (1973), e si è andata aggravando
negli anni successivi, caratterizzati da forti processi di ristrutturazione
industriale. Poi la crisi finanziaria del 1992 rilanciò lemergenza
occupazione, in particolare nel Sud dItalia, a causa dellimprovviso
venire meno del sostegno pubblico a molte iniziative meridionali.
Con il passare degli anni, si è avvertita una netta divaricazione
di comportamento: nel Nord la disoccupazione scendeva, mentre al
Sud essa rimaneva elevata. Sul finire del decennio, loccupazione
ha ripreso a crescere anche al Sud del Paese e anche la disoccupazione
ha mostrato uninversione di tendenza, sicché oggi si
può assistere a un fenomeno tipico di uneconomia che
ha scarsità di manodopera: la domanda di lavoro rimane inevasa
malgrado la persistenza di persone che cercano lavoro.
Questo ritorno alla normalità avrebbe dovuto rallegrare gli
italiani e invece è stato accolto come un fatto drammatico,
sia da chi stigmatizza la pretesa delle imprese di far viaggiare
i lavoratori invece di spostare gli impianti lì dove cè
il lavoro (come se ciò fosse possibile nel breve periodo),
sia da parte di chi teme della incapacità del nostro apparato
produttivo di crescere in assenza di manodopera, come se dovessimo
essere tristi perché non cè più disoccupazione
nel nostro Paese o nelle nostre regioni. Altri si sono lanciati
a discutere se conviene al Nord o al Sud una ripresa dei movimenti
migratori, e sono stati tirati nuovamente in ballo i temi del depauperamento
intellettuale del Sud (come se le intelligenze inutilizzate non
fossero uno spreco ben maggiore), ovvero della congestione del Nord,
quasi che la tecnologia non ci avesse fatto fare passi da gigante
anche nellutilizzo dello spazio. Molti sono poi quanti si
sono precipitati per suggerire una politica di sussidi: alla casa,
al trasferimento, alladdestramento, eccetera, buoni per lo
più a far lavorare eserciti di consulenti e strutture formative
a secco di finanziamenti.
E evidente che la fine dellemergenza occupazione non
significa la fine di ogni problema ed è ben vero che anche
la piena occupazione ha i suoi specifici problemi. Ma le ricette
dovrebbero essere del tutto diverse. Per anni si sono giustificati
interventi pubblici specifici per lemergenza occupazione.
Ora la strada da percorrere è al rovescio: se loccupazione
torna a essere un problema individuale dei lavoratori e delle imprese,
la politica non deve essere più quella di favorire specifiche
soluzioni, ma quella di far funzionare bene il mercato affinché
il maggior numero di soggetti trovi la soluzione più idonea
con il minor costo a carico della collettività e con la maggiore
efficienza globale.
Il mercato del lavoro è strutturato in modo difensivo ed
è rigido, ciò che costituisce la coesistenza della
piena occupazione in alcune zone con la disoccupazione in altre.
I sussidi alla disoccupazione permangono pur in presenza di occasioni
di lavoro se queste sono a più di 50 chilometri di distanza.
La bassa età di pensionamento limita lofferta di lavoro
creando una carenza artificiale. Lesistenza di contratti nazionali
molto dettagliati per qualifiche rende difficile lincontro
tra domanda e offerta, specie dove il desiderio di non muoversi
implica anche la disponibilità ad accettare remunerazioni
più basse.
E poi la casa, la cui offerta sul mercato è oggi terribilmente
limitata a causa di trentanni di normative che hanno penalizzato
la proprietà, demonizzando sia laffitto che la compravendita:
gli affitti sono ancora in regime vincolato (quelli cosiddetti liberi
implicano un vincolo per almeno dieci anni senza garanzia per il
proprietario di poter riavere la casa); la compravendita è
gravata da tali imposizioni da cui sono esclusi solo coloro che
comprano una prima casa, sicché il mercato non esiste in
questo settore, e lofferta di abitazioni è bassissima,
pur in presenza di un parco abitativo relativamente ampio, ancorché
del tutto inadeguato perché fisso negli anni.
Un Paese che vede superata lemergenza occupazione deve far
funzionare bene i suoi meccanismi civili, perché da essi
nascono le migliori soluzioni. Quindi deve ripristinare una maggiore
flessibilità nel mercato: lavoro, professioni, mestieri,
casa, eccetera. E deve anche smetterla di considerare emigranti
quanti si spostano allinterno del Paese: se il Paese è
unito, come si presume sia, allora ogni città e ogni regione
è Italia e chi si sposta al suo interno è solo una
persona che sceglie soluzioni idonee per se stesso, né più
né meno di chi cambia quartiere di residenza. Se così
non fosse e se continuassimo a chiamare emigranti quanti vanno da
Milano a Palermo, o viceversa, allora avrebbero perfettamente ragione
i separatisti nostrani che considerano il Nord diverso dal Sud e
che vorrebbero spaccare il Paese, ripristinando confini abbattuti
dalla storia e dal buon senso di ognuno di noi.
Mentre cerchiamo di costruire unEuropa unita, con un mercato
interno europeo, ove ognuno di noi circoli liberamente, parlare
di migrazioni allinterno dellItalia è quanto
meno un patetico controsenso, che ci porterebbe a fare scelte politiche
errate.
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