Lo sviluppo
è concentrato
in aree e in imprese che non sono state
privilegiate
dalla politica
di incentivazione pubblica.
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Io non sono un esperto meridionalista. Ma ho il vantaggio di vedere
il problema del Mezzogiorno nel contesto di unEuropa che di
problemi Sud ne ha più duno e ha messo
a punto una serie di politiche per affrontarli. Da quei criteri
non intendiamo allontanarci.
Partiamo dal quadro specifico del nostro Mezzogiorno, che è
particolarmente preoccupante. Il Sud dItalia ha 21 milioni
di abitanti, che è il 36 per cento della popolazione nazionale.
Ha un prodotto interno lordo per abitante, corretto sulla base del
potere di acquisto, che è il 68 per cento della media comunitaria,
contro il 120 per cento delle regioni del Nord Italia. Lo scarto
di sviluppo rispetto al resto del Paese resta pressa poco
costante dagli anni Cinquanta. Negli anni Novanta la crescita del
nostro Mezzogiorno è stata la più deludente nellinsieme
delle regioni sottosviluppate dEuropa. Dall88 al 96
il Pil pro-capite dellIrlanda è passato dal 64 per
cento al 97 per cento della media Ue. Quello della Grecia è
cresciuto dal 58 al 68 per cento. Il Portogallo è passato
dal 61 al 70 per cento. La Spagna dal 62 al 66 per cento. Soltanto
il Mezzogiorno italiano è sceso dal 69 al 67 per cento della
media europea. Eppure le risorse pubbliche erogate al Sud sono state,
per decenni, molto importanti. Dal 1950 ad oggi, tra fondi nazionali
e comunitari, sono stati concessi aiuti per oltre 600 mila miliardi
di lire.
Il fatto è che probabilmente sbagliamo a parlare di un unico
Mezzogiorno. Come ha ricordato recentemente il presidente Ciampi,
esiste anche un altro Mezzogiorno con numerosi e vivaci distretti
di piccole e medie imprese. E molti esperti di questioni meridionali
tendono a mettere in luce la differenziazione delle aree e la relazione
inversa tra sviluppo e interventi pubblici. Ci sono segni rilevanti
di dinamismo concentrati soprattutto dalla fascia che va dallAbruzzo
al Molise, alla Campania orientale, alla Basilicata, e verso sud,
in direzione della Puglia e del Salento. Come dice Carlo Triglia,
lo sviluppo è concentrato in aree e in imprese che non sono
state privilegiate dalla politica di incentivazione pubblica. Alla
stessa conclusione arriva lindagine sui distretti meridionali
recentemente pubblicata dalla Banca dItalia.
Stando a questi studi, si direbbe che gli aiuti siano stati controproducenti.
Gli aiuti, cioè, finirebbero per attenuare lo stimolo imprenditoriale.
Altri sono i fattori di sviluppo: come la tradizione artigianale,
là dove non è stata erosa dallemigrazione e
dallinsediamento delle industrie di base sovvenzionale. E
poi ancora: un contesto sociale più coeso, una bassa criminalità,
una buona istruzione di base e un tessuto politico non frammentato.
Quindi, gli aiuti classici di incentivazione sono stati non risolutivi
e, sotto certi aspetti, addirittura dannosi.
Non si tratta di analisi senza speranze. Al contrario. Proprio dallesame
di questa realtà così differenziata cè
qualche fondata ragione di non pessimismo. Che però verrebbe
soffocata se si tornasse a battere quelle strade che in passato
si sono dimostrate infruttuose. E qui entra in gioco il ruolo dellEuropa,
che fa da filtro alle politiche nazionali lasciando passare interventi
che hanno un effetto positivo sullo sviluppo territoriale (come
quelli mirati alla creazione di nuova occupazione), mentre ne blocca
altri che nel medio e nel lungo periodo non sarebbero utili.
Ci si chiede: allora, perché linsistenza per ripristinare
un regime di aiuti che si è rivelato sostanzialmente fallimentare?
Bisogna vedere i precedenti storici. La politica di aiuti nazionali
per il Mezzogiorno ha avuto due grandi stagioni. La prima, quella
dei crediti agevolati, ha portato alle famose cattedrali nel deserto
e ha stimolato le industrie a indebitarsi, determinando una distorsione
nella struttura patrimoniale delle imprese. La seconda stagione
è stata quella della fiscalizzazione degli oneri sociali,
che si è chiusa nel 95. Il tentativo di aprire una
terza fase è stato quello di proporre una riduzione dellIrpeg
limitata, almeno temporaneamente, al Mezzogiorno. Un atteggiamento
che io vedo come la manifestazione di una politica basata su una
scarsa cultura di mercato, specie durante gli anni Sessanta e Settanta.
Soltanto nel 90 lItalia si è data una legge a
tutela della concorrenza. Prima, non la volevano né gli imprenditori
né i politici. Similmente, sul piano regionale, cè
stata latitanza dei pubblici poteri dai loro compiti istituzionali,
come la creazione di infrastrutture di base o la tutela dellordine
pubblico e della sicurezza, e cè stata invece inframmettenza
diretta nel processo economico con i sussidi alle imprese.
Non voglio dire che la riduzione della pressione fiscale non debba
essere un punto del programma italiano nei prossimi anni. Questa
è una tendenza che cè in molti Paesi e che deve
esercitarsi anche nel nostro. Tuttavia, dallosservatorio comunitario
si vede con una certa preoccupazione una propensione di certi Stati
membri a prestare meno attenzione agli equilibri della finanza pubblica
di quanto facevano quando il bastone e la carota erano a pochi centimetri
dagli occhi, sotto forma di ingresso o meno nelleuro. Sono
significative le preoccupazioni manifestate, anche se in un contesto
di largo apprezzamento, nei confronti dellItalia. Fare opere
pubbliche necessarie e utili è una buona cosa. Ridurre le
tasse è una buona cosa. Bisogna però che questi programmi
vengano visti nellambito di un disegno complessivo di politica
economica compatibile con i vincoli che ci derivano dallappartenenza
alla moneta unica.
Limpegno resta quello di rientrare dal debito e di ridurre
il deficit. Queste sono regole che fanno ormai parte del quadro
normativo e costituzionale italiano in quanto impegni formali assunti
nei Trattati. Sarebbe dunque utile, per la comprensione dei termini
reali della questione da parte dei cittadini, che questa attenzione
al risanamento senza il quale non cè crescita
durevole venisse evidenziata, e che si facesse vedere chiaramente
come ogni manovra prospettata che comporti maggiore spesa o minori
entrate sia compatibile con i vincoli di bilancio.
Sarebbe una prova di serietà. Anche perché questo
è uno dei punti importanti per la valutazione che impalpabilmente
il mondo europeo dà del nostro Paese e della sua classe politica.
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