Giugno 2001

IL PROBLEMA DEL SUD

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Incentivi ma con rigore
Mario Monti  
 
 

 

 

 

Lo sviluppo
è concentrato
in aree e in imprese che non sono state
privilegiate
dalla politica
di incentivazione pubblica.

 

Io non sono un esperto meridionalista. Ma ho il vantaggio di vedere il problema del Mezzogiorno nel contesto di un’Europa che di “problemi Sud” ne ha più d’uno e ha messo a punto una serie di politiche per affrontarli. Da quei criteri non intendiamo allontanarci.
Partiamo dal quadro specifico del nostro Mezzogiorno, che è particolarmente preoccupante. Il Sud d’Italia ha 21 milioni di abitanti, che è il 36 per cento della popolazione nazionale. Ha un prodotto interno lordo per abitante, corretto sulla base del potere di acquisto, che è il 68 per cento della media comunitaria, contro il 120 per cento delle regioni del Nord Italia. Lo scarto di sviluppo rispetto al resto del Paese resta press’a poco costante dagli anni Cinquanta. Negli anni Novanta la crescita del nostro Mezzogiorno è stata la più deludente nell’insieme delle regioni sottosviluppate d’Europa. Dall’88 al ‘96 il Pil pro-capite dell’Irlanda è passato dal 64 per cento al 97 per cento della media Ue. Quello della Grecia è cresciuto dal 58 al 68 per cento. Il Portogallo è passato dal 61 al 70 per cento. La Spagna dal 62 al 66 per cento. Soltanto il Mezzogiorno italiano è sceso dal 69 al 67 per cento della media europea. Eppure le risorse pubbliche erogate al Sud sono state, per decenni, molto importanti. Dal 1950 ad oggi, tra fondi nazionali e comunitari, sono stati concessi aiuti per oltre 600 mila miliardi di lire.
Il fatto è che probabilmente sbagliamo a parlare di un unico Mezzogiorno. Come ha ricordato recentemente il presidente Ciampi, esiste anche un altro Mezzogiorno con numerosi e vivaci distretti di piccole e medie imprese. E molti esperti di questioni meridionali tendono a mettere in luce la differenziazione delle aree e la relazione inversa tra sviluppo e interventi pubblici. Ci sono segni rilevanti di dinamismo concentrati soprattutto dalla fascia che va dall’Abruzzo al Molise, alla Campania orientale, alla Basilicata, e verso sud, in direzione della Puglia e del Salento. Come dice Carlo Triglia, lo sviluppo è concentrato in aree e in imprese che non sono state privilegiate dalla politica di incentivazione pubblica. Alla stessa conclusione arriva l’indagine sui distretti meridionali recentemente pubblicata dalla Banca d’Italia.
Stando a questi studi, si direbbe che gli aiuti siano stati controproducenti. Gli aiuti, cioè, finirebbero per attenuare lo stimolo imprenditoriale. Altri sono i fattori di sviluppo: come la tradizione artigianale, là dove non è stata erosa dall’emigrazione e dall’insediamento delle industrie di base sovvenzionale. E poi ancora: un contesto sociale più coeso, una bassa criminalità, una buona istruzione di base e un tessuto politico non frammentato. Quindi, gli aiuti classici di incentivazione sono stati non risolutivi e, sotto certi aspetti, addirittura dannosi.
Non si tratta di analisi senza speranze. Al contrario. Proprio dall’esame di questa realtà così differenziata c’è qualche fondata ragione di non pessimismo. Che però verrebbe soffocata se si tornasse a battere quelle strade che in passato si sono dimostrate infruttuose. E qui entra in gioco il ruolo dell’Europa, che fa da filtro alle politiche nazionali lasciando passare interventi che hanno un effetto positivo sullo sviluppo territoriale (come quelli mirati alla creazione di nuova occupazione), mentre ne blocca altri che nel medio e nel lungo periodo non sarebbero utili.
Ci si chiede: allora, perché l’insistenza per ripristinare un regime di aiuti che si è rivelato sostanzialmente fallimentare? Bisogna vedere i precedenti storici. La politica di aiuti nazionali per il Mezzogiorno ha avuto due grandi stagioni. La prima, quella dei crediti agevolati, ha portato alle famose cattedrali nel deserto e ha stimolato le industrie a indebitarsi, determinando una distorsione nella struttura patrimoniale delle imprese. La seconda stagione è stata quella della fiscalizzazione degli oneri sociali, che si è chiusa nel ‘95. Il tentativo di aprire una terza fase è stato quello di proporre una riduzione dell’Irpeg limitata, almeno temporaneamente, al Mezzogiorno. Un atteggiamento che io vedo come la manifestazione di una politica basata su una scarsa cultura di mercato, specie durante gli anni Sessanta e Settanta. Soltanto nel ‘90 l’Italia si è data una legge a tutela della concorrenza. Prima, non la volevano né gli imprenditori né i politici. Similmente, sul piano regionale, c’è stata latitanza dei pubblici poteri dai loro compiti istituzionali, come la creazione di infrastrutture di base o la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza, e c’è stata invece inframmettenza diretta nel processo economico con i sussidi alle imprese.
Non voglio dire che la riduzione della pressione fiscale non debba essere un punto del programma italiano nei prossimi anni. Questa è una tendenza che c’è in molti Paesi e che deve esercitarsi anche nel nostro. Tuttavia, dall’osservatorio comunitario si vede con una certa preoccupazione una propensione di certi Stati membri a prestare meno attenzione agli equilibri della finanza pubblica di quanto facevano quando il bastone e la carota erano a pochi centimetri dagli occhi, sotto forma di ingresso o meno nell’euro. Sono significative le preoccupazioni manifestate, anche se in un contesto di largo apprezzamento, nei confronti dell’Italia. Fare opere pubbliche necessarie e utili è una buona cosa. Ridurre le tasse è una buona cosa. Bisogna però che questi programmi vengano visti nell’ambito di un disegno complessivo di politica economica compatibile con i vincoli che ci derivano dall’appartenenza alla moneta unica.

L’impegno resta quello di rientrare dal debito e di ridurre il deficit. Queste sono regole che fanno ormai parte del quadro normativo e costituzionale italiano in quanto impegni formali assunti nei Trattati. Sarebbe dunque utile, per la comprensione dei termini reali della questione da parte dei cittadini, che questa attenzione al risanamento – senza il quale non c’è crescita durevole – venisse evidenziata, e che si facesse vedere chiaramente come ogni manovra prospettata che comporti maggiore spesa o minori entrate sia compatibile con i vincoli di bilancio.
Sarebbe una prova di serietà. Anche perché questo è uno dei punti importanti per la valutazione che impalpabilmente il mondo europeo dà del nostro Paese e della sua classe politica.

   
   
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