Giugno 2001

MEZZOGIORNO ED EUROPA

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A rischio i fondi Ue
S. B.  
 
 

 

 

 

La rimonta italiana nei confronti dei partner europei è stata degna di nota, ma resta ancora
un considerevole
ritardo da colmare.

 

Ammontano a 10.600 miliardi i finanziamenti che il Mezzogiorno avrebbe dovuto spendere nel 2000 per rispettare le scadenze imposte dal vecchio e dal nuovo Quadro Comunitario di Sostegno. Il Tesoro conta di poter trarre le conclusioni non appena perverranno da tutte le amministrazioni, e in particolare dalle Regioni, i bilanci sull’effettivo ammontare della spesa. Il dubbio sull’eventuale taglio di risorse è, dunque, tutt’altro che infondato. Anche perché agli oltre diecimila miliardi dell’anno scorso ancora da erogare si sommano gli 11.900 previsti per il 2001, di cui ben quattromila si riferiscono al neonato Quadro Comunitario di Sostegno 2000-2006, (1.100 nel 2000) che, com’è noto, non consente alcuna proroga e per il quale è previsto il disimpegno automatico delle risorse se alla fine di ciascun biennio non si è raggiunto il traguardo concordato con l’Unione europea.
Entro la fine dell’anno il Sud dovrà, quindi, aver completato la spesa del vecchio QCS ‘94-‘99, che ammonta complessivamente a circa 69 mila miliardi ed erogato i 5.100 miliardi previsti dal nuovo Quadro. I dati ufficiali, tuttavia, sono fermi per il ‘94-‘99 a giugno dello scorso anno, mentre per il 2000-2006 non si ha ancora alcuna notizia precisa.
L’interesse che ormai hanno assunto i fondi europei per lo sviluppo delle regioni del Mezzogiorno, d’altra parte, è direttamente legato alla penuria di risorse pubbliche destinate a quest’area del Paese nel corso degli anni Novanta. E infatti, a partire dal 1992 comincia una vertiginosa discesa dei trasferimenti sul totale a disposizione, che passano dal 19 per cento dei primi anni Ottanta al 15,5 per cento del ‘92 e all’11,7 per cento del ‘97, a cui corrisponde una crescita del Prodotto interno lordo appena di poco superiore allo zero, contro l’1,5 per cento a livello nazionale. A pagarne le conseguenze sono stati soprattutto gli investimenti fissi lordi, che nel ‘97 si erano arenati a poco più del 16 per cento del modesto Pil meridionale, mentre nei precedenti anni Ottanta non erano mai scesi sotto il 21 per cento.

Per il Sud, il risanamento finanziario combinato con la fine dell’intervento straordinario si è tradotto in una diminuzione degli investimenti in soli sei anni del 24 per cento, che arriva addirittura al 30 per cento nel settore delle costruzioni, e in generale nelle opere pubbliche. E’ soltanto a partire dal ‘97 che si cominciano a intravedere segnali di ripresa. E non a caso.
E’ da quell’anno, infatti, che incomincia un’inversione di tendenza sia attraverso gli incentivi alle imprese finanziati con la Legge 488 sia con la maggiore attenzione al finanziamento delle opere infrastrutturali cui sono dedicate una parte significativa dei vecchi fondi europei e la maggior parte di quelli assegnati dall’ultimo QCS.
Il rigore – sia pure troppo burocratico – imposto da Bruxelles ha sollecitato le amministrazioni centrali e regionali ad accelerare impegni e spesa. Tuttavia, come emerge dagli ultimi dati a disposizione, il Mezzogiorno deve fare ancora i conti con un’eccessiva lentezza nell’utilizzo delle risorse comunitarie. A pesare, in passato, è stata soprattutto una scarsa cultura della progettazione, insieme con l’avvalersi più della politica degli annunci che di quella dei fatti. Ma nonostante la spinta su questo fronte, (il finanziamento, per la prima volta, degli studi di fattibilità ne costituisce un ottimo esempio), è evidente che a gran parte delle amministrazioni manca ancora una pratica dell’efficienza e dell’efficacia che si realizza anche (se non soprattutto) attraverso una chiara assunzione di responsabilità, più che nella redazione di migliaia di pagine di documenti teorici sullo sviluppo.

Certo, la rimonta italiana nei confronti dei partner europei è stata degna di nota, negli ultimi anni, ma resta ancora un considerevole ritardo da colmare nei confronti di quei Paesi – come Irlanda, Spagna e Portogallo – che hanno saputo utilizzare con maggiore efficacia e rapidità il poderoso volano dei fondi strutturali nel corso del decennio scorso.
Mario Monti ha ricordato, con la sua abituale precisione, due cifre italiane: il tasso di realizzazione del 69 per cento dei progetti nel Mezzogiorno e del 49 per cento nel Centro-Nord di tutti i progetti finanziabili nel periodo ‘94-‘99 attraverso i finanziamenti comunitari. E le cifre del Secondo Rapporto di Coesione, reso noto da Bruxelles, danno indicazioni ufficiali molto simili: nei pagamenti effettuati dal nostro Paese sui fondi del passato quinquennio si è al 67 per cento nell’Area Obiettivo Uno del Mezzogiorno, al 51 per cento nell’Area Obiettivo Due delle aree in declino industriale del Centro-Nord, mentre sono fermi al 63 e al 52 per cento gli Obiettivi Tre e Quattro, destinati alla formazione.

Uno sguardo alle cifre di altri Paesi fa emergere che l’Italia nel cruciale Obiettivo Uno è maglia nera nei pagamenti insieme con la Gran Bretagna (che però attinge limitatamente alla fonte di Bruxelles), mentre rimane ben distanziata da Irlanda (87 per cento), Spagna (82 per cento) e Portogallo (addirittura all’89 per cento). E’ vero che il recupero, iniziato nel ‘97, ci ha fatto rivedere una coda del gruppo che, fino a pochi anni fa, rimaneva ben nascosta dentro alla curva, ma è altrettanto vero che la forbice c’è, e non può essere negata.
Nei primi anni Novanta un mostruoso groviglio di carenze di programmazione, inefficienze regionali e lentezze nei co-finanziamenti nazionali ci aveva relegato in una situazione imbarazzante in Europa. Si pensi che a fine ‘95, cioè due anni dopo la scadenza, l’Italia doveva ancora spendere il 30 per cento del pacchetto di fondi ‘89-‘93. Per quanto riguarda la tranche successiva di fondi strutturali del periodo ‘94-‘99 (quello che Monti sollecita a completare), a fine ‘96 si rimaneva per l’Obiettivo Uno (in tutto, 60 mila miliardi, per metà finanziati da Bruxelles) al 15 per cento dei pagamenti, mentre l’Irlanda poteva già sfoggiare il 43 per cento, il Portogallo il 38 per cento, la Spagna il 34 per cento, e persino la Grecia il 26 per cento. L’allora ministro del Tesoro (Carlo Azeglio Ciampi) si era prefisso di arrivare al 38 per cento entro il ‘97, per poi raggiungere il 55 per cento entro il ‘98, un obiettivo assai ambizioso, vista la falsa partenza italiana, ma che ci ha lasciato quasi un anno di ritardo rispetto ai partner più efficienti.

Chi spende di più
 
Spesa
pro-capite
Spesa
per Regioni
Abruzzo
11.378.000
14.553
Basilicata
12.052.000
7.326
Calabria
11.247.000
23.223
Campania
10.084.000
58.414
Emilia Romagna
14.174.000
56.127
Friuli Venezia G.
16.249.000
19.238
Lazio
17.354.000
91.195
Liguria
15.555.000
25.394
Lombardia
14.380.000
133.900
Marche
11.734.000
17.079
Molise
11.255.000
3.703
Piemonte
14.554.000
62.408
Puglia
10.335.000
42.235
Sardegna
12.382.000
20.486
Sicilia
9.185.000
46.825
Toscana
13.053.000
46.057
Umbria
13.221.000
11.009
Valle d’Aosta
19.168.000
2.300
Veneto
10.678.000
47.917
Trentino Alto Adige
20.359.000
18.926

Certo, fa ben sperare adesso il fatto che il Quadro comunitario italiano per l’Obiettivo nel periodo 2000-2006, che potrà convogliare 42.500 miliardi al Sud, sia stato il secondo importante ad essere approvato, dopo quello portoghese. Ma oltre ai recuperi nelle percentuali di utilizzo e negli iter procedurali, l’Italia dovrà provare di saper impegnare bene i fondi europei sul campo. Dimostrare, insomma, di saper attuare anche in Campania o in Calabria, in Basilicata o in Puglia, quelle aree di produzione e commerciali hi-tech che, negli ultimi dieci anni, hanno rilanciato zone rurali dimenticate dell’Irlanda o aree minerarie obsolete delle Asturie.
Ciò, soprattutto nel momento in cui crolla uno dei miti dell’assistenzialismo del nostro Paese. Il Sud assorbe la stragrande maggioranza delle risorse pubbliche destinate alle Regioni? Secondo i dati della Ragioneria Generale dello Stato, il Nord nel suo complesso riceve il 49 per cento degli oltre 740 mila miliardi di trasferimenti dall’Amministrazione centrale, contro il 22 per cento del Centro e il 29 per cento delle Regioni meridionali. Su cento lire, insomma, quasi cinquanta finiscono in tasca alle Regioni settentrionali, e della somma totale ben 133.900 miliardi finiscono alla Lombardia.
Dalla scomposizione dei trasferimenti che si estende anche al bilancio dell’intera amministrazione pubblica, emerge poi un dato interessante per quanto riguarda la distribuzione pro-capite della spesa in ciascuna Regione italiana: dalla ricerca emerge che la più “spendacciona” è il Trentino-Alto Adige, con oltre 20 milioni di trasferimenti a testa, cioè per abitante, seguito dalla Valle d’Aosta con circa 19 milioni e dal Lazio con 17 milioni di lire.
La media nazionale è pari a 18,3 milioni. Per la Sicilia, si riscontrano 9,1 milioni pro-capite, per il Veneto 10,6, per la Campania 10, per la Puglia 10,3. Seguono, in fondo alla classifica, le altre Regioni meridionali.

   
   
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